Palestina

Gli ultimi venti ebrei dell'Egitto

Chi ha potuto, a gennaio ha lasciato il paese. Sono rimasti solo anziani e malati. Una chiacchierata ad Alessandria con Ben Youssef Gaon, portavoce della comunità ebraica
2 agosto 2011

La cupola dorata che signoreggia nel mattino. Sorride largo a Gerusalemme, nella foto alle sue spalle. Ma vira inavvertito dal francese all'inglese, nello spolverarmela davanti: e non dice temple mount, la spianata su cui fondare il terzo tempio alla comparsa del Messia, ma dome of the rock - la pietra di Maometto e della sua ascesa al paradiso. "Sono stato, certo, in Israele. Ma è un paese troppo occidentale, per me. Individualista. Nessuno che ha mai un minuto, che si ferma. Nessuno, nel caso, che ti aiuta. Io arrivo dall'Oriente, amo parlare, incontrare persone. Stare con gli altri".

Con i suoi cinquantasei anni, Ben Youssef Gaon è il più giovane degli ultimi venti ebrei rimasti in Egitto, tutti oltre gli ottanta. Vive tra mille lingue, e mille mondi e culture come l'Alessandria in cui abita, città ricostruita infinite volte nelle forme più diverse, dai romani ai turchi ai francesi, ma sempre con le stesse pietre - sotto un capitello corinzio, la colonna di un faraone. La sinagoga, la più importante del Medio Oriente, ha l'architettura di una chiesa cristiana, perché è stata progettata da un italiano: il suo custode è un musulmano. Affiancato adesso dalla figlia Rasha, icona dell'eclettismo di piazza Tahrir in velo, trucco e infradito - l'inglese impeccabile, cita Shakespeare a memoria.

"So che molti, in Europa, temono che l'Egitto possa finire come l'Iran: e senza dubbio è tutto ancora fluido e incerto. Ma nonostante la povertà e le diseguaglianze, questo è un paese troppo moderno, troppo cosmopolita per precipitare in una teocrazia. Le ragazze, per esempio: inquadrate solo il velo, il volto. Ma il ritratto intero è un ritratto di ragazze eleganti, attraenti, ricercate in ogni dettaglio - velo e tacco. Ragazze che non sono certo recluse in casa. Perché il velo non rende invisibili, al contrario: consente di entrare con dignità e autorevolezza nella società. Onestamente l'incognita, qui, è più l'esercito, perché viviamo da secoli non gli uni accanto agli altri, ma gli uni insieme agli altri. Poi da gennaio è vero, per strada si incrociano molte più tuniche e barbe, gli islamisti radicali sono come riemersi in superficie. Ma sono riemersi in superficie come tanti altri che sotto Mubarak non avevano la possibilità di esprimersi".

"Non mi sento in pericolo perché ebreo. Dal Cairo sono andati via tutti, ma io mi sento intanto egiziano, e condivido la sicurezza e insicurezza di ogni altro egiziano. Anche perché a parte l'idea di aumentare il prezzo del gas, a parte discorsi generici, al momento non si ha una linea precisa, su Israele. Non si ha una linea precisa su niente, in realtà: non solo su Israele. Ma il problema, al più, è la sicurezza dei palestinesi. Non sono contro Israele, ovviamente - ma se vuoi vivere, è intuitivo: lascia vivere. La riapertura della frontiera con Gaza è stato un atto di giustizia, non di ostilità".

Mi riscopro guardinga e nervosa, mentre cerco nel centro del Cairo la sinagoga di Shar Hashamaim, e al Mohamed che mi apre la sinagoga di Ben Ezra, nel quartiere copto, specifico immediata che non sono ebrea. Allora le spiego un minimo la Torah, mi dice - solo adesso, fuori da Israele, capisco quanto ho introiettato in quattro anni la sua antropologia della paura. E così, di istinto sono perplessa mentre apprendo che la comunità ebraica, qui, tra breve non sarà che l'ennesimo fossile e museo: molti hanno sposato cristiani e musulmani, e i figli sono spesso laici. E Israele è stato fondato proprio per questo, no?, ricordo a Ben Youssef Gaon: perché altrimenti con i matrimoni misti, con l'integrazione e assimilazione nei paesi della diaspora, l'ebraismo sparirebbe - la mia logica tutta sionista, tutta capovolta, la tutela dello stato prima di quella dei suoi cittadini, si imbatte in uno sguardo interdetto. "Ma si sposa chi si ama, è questione di natura. Non di religione. Non esiste alternativa, cioè - a meno di un'alternativa chiamata apartheid".

E così, anche se figlie di un uomo perseguitato dal regime fino alla morte, Nadia e Magda Haroun non hanno mai pensato di lasciare l'Egitto. "Ma perché oltre a essere ebreo, nostro padre era comunista. Finì in carcere per le sue idee, non per la sua identità". Sono egiziano quando gli egiziani sono oppressi, è inciso oggi sulla sua lapide, sono ebreo, quando gli ebrei sono oppressi. Palestinese quando i palestinesi sono oppressi.

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