Primavera araba, autunno palestinese
Hanno ragione gli americani: non è questione di Nazioni Unite, la pace, ma di negoziati diretti. Mentre Abbas scriveva e riscriveva il suo monologo e fabbricava sedie di plastica, stati di carta, si formava, pragmatico, il primo governo arabo-israeliano. Perché sembrava destinato a tornare presto a casa, Netanyahu, spodestato dalla crisi economica. E a tornare a casa, invece, è Gilad Shalit. La maggioranza, alla Knesset, si è allargata a un nuovo partito. Hamas.
Per disincagliare la trattativa, Netanyahu ha accettato il rilascio di palestinesi coinvolti in alcuni dei più feroci attentati della seconda Intifada, e sono in molti a temere un'altra stagione di terrorismo suicida. Ma possono stare tranquilli: Hamas, evidentemente, ha deciso di colpire a est del Muro. Perché fino a ieri, Netanyahu era agli sgoccioli. Arrivava da un'estate ruvida di manifestazioni e contestazioni, stretto tra la commissione Trajtenberg, incaricata di studiare riforme, e il ministero della Difesa. Perché nel caso di Israele, è intuitivo, la soluzione alla crisi economica è una sola: tagliare la spesa militare, e soprattutto, i finanziamenti agli insediamenti. E poi l'estremismo crescente degli ultraortodossi, che hanno cominciato a istituire strade separate per uomini e donne, asili separati per laici e credenti, insieme all'estremismo crescente dei coloni, che dalla distruzione degli ulivi sono degenerati alla distruzione delle moschee, dalle pietre, dagli sputi alle armi. Non proprio il migliore dei dépliant, per l'unica democrazia del Medio Oriente.
L'appello di Abbas alle Nazioni Unite, con tutti i suoi limiti, aveva comunque ribaltato i ruoli, e per la prima volta, costretto Israele a inseguire. Rivelando tutta la sua frammentazione; tutta la sua fragilità, cementato solo dal nemico arabo. Una settimana fa, i titoli dei giornali erano tutti per la Corte Suprema, che ha autorizzato lo scrittore Yoram Kaniuk a definirsi, sulla carta di identità, senza religione. Ma tutti i titoli, adesso, sono per Gilad Shalit.
Non che Hamas, fino a ieri, fosse meno agli sgoccioli di Netanyahu. Eclissata dall'iniziativa di Abbas, ma soprattutto, in progressivo declino dai giorni di Piombo Fuso: da quando i palestinesi, cioè, hanno capito quanto sia insensata una resistenza di stelle filanti e botti di Natale a fronte di una potenza nucleare. Gaza è alla fame; solo i manganelli, gli arresti la tortura, frenano il dissenso. Una settimana fa, i titoli dei giornali erano tutti per la frontiera di Rafah, e le nuove regole sulla sua apertura: attraversarla rimane non un diritto, ma una concessione: e la responsabilità non è più di Israele. Ma tutti i titoli, adesso, sono per i prigionieri. In assenza di elezioni, la legittimità è legata ai risultati: e Hamas ha ora il prestigio di chi privilegia le conquiste effettive alle consolazioni simboliche. Per Fatah è una nakbah: alle Nazioni Unite non ha ottenuto che il congelamento degli aiuti americani, e la sua inefficienza, la sua corruzione sono endemiche. L'unica sua speranza era Marwan Barghouti. E l'unica speranza di Marwan Barghouti era Gilad Shalit.
Il problema è che Marwan Barghouti non è semplicemente il segretario di Fatah: è il solo ad unire realmente i palestinesi: ad avere insieme un'autorevolezza indiscussa e una strategia per il futuro. Dalla Tunisia all'Egitto, dalla Siria allo Yemen gli arabi si battono per tornare a essere gli artefici della propria vita: e invece, che si tratti di Hamas o di Abbas, di Netanyahu o dell'Egitto, il cui esercito aveva bisogno di un trofeo diplomatico per rimediare ai carroarmati con cui spiana i manifestanti, e bilanciare la Turchia, il dato di fondo è che i palestinesi sono chiamati a ratificare, subire applaudire, a seconda delle circostanze: ma mai a decidere. Mai a partecipare. E in questa guerra tra Hamas e Fatah, non è certo difficile capire chi sia a vincere davvero. Tutti i titoli, oggi, sono per Gilad Shalit e i prigionieri. Non un rigo per Givat Hamatos, il nuovo quartiere approvato in queste ore, tra un brindisi e l'altro, a Gerusalemme Est.
Hanno ragione gli israeliani. I palestinesi non perdono l'opportunità di perdere un'opportunità.
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