Palestina

La Causa del Boicottaggio

“Non ha senso, per un attivista come me, invocare sanzioni o pressioni sugli affari, sulle industrie, sulle manifestazioni culturali etc…, e nello stesso tempo chiedere l’immunità per i miei pari e per il mio ambito di lavoro, quello accademico. Sarebbe disonesto”.
“Come esattamente gli accademici di tutto il mondo dovrebbero mostrare il loro…sgomento di fronte sia alla politica di Israele, sia alla mancanza di coraggio morale nel mondo universitario israeliano di fronte alle ripetute atrocità, è una domanda che dovrebbe essere rivolta a coloro che desiderano prendere la decisione di farlo”.
Ilan Pappe
Fonte: News from Within Gennaio 2003
Mensile dell'Alternative Information Center http://www.alternativenews.org

Una questione come il boicottaggio richiede alcune considerazioni introduttive che sono al limite dell’ovvietà, ma rimangono degne di essere ripetute. Esse possono essere riassunte come il riconoscimento del disagio che accompagna, e deve accompagnare, ogni cittadino e ogni cittadina che inviti il mondo esterno a boicottare il proprio paese. Bisogna meditare a lungo su ogni invito ad un’azione così drastica, e non prenderla sottogamba.

Detto ciò, vorrei presentare una posizione priva di ambiguità sulla questione del boicottaggio, dopo aver dubitato per anni che un tale movimento potesse avere speranza. Sono stato un attivista politico fin dagli Anni Settanta, ed in tutto questo tempo ho creduto che una coalizione di pace interna fosse in grado di guidare il paese verso la riconciliazione, senza il bisogno di ricorrere a pressioni esterne.

Il boicottaggio come strategia

Chi consiglia il boicottaggio come atto strategico, deve prima definire chiaramente e nei dettagli il fine di qualsiasi pressione esterna su uno Stato. L’obiettivo complessivo è modificare una politica, NON l’identità dello Stato. Sebbene io sogni di porre fine alla natura oppressiva dello Stato di Israele, e di renderlo, insieme alla Palestina, uno Stato democratico e laico, non penso che ciò possa e debba essere realizzato per mezzo del boicottaggio.

Allo stesso modo, non sarei propenso a suggerire, nonostante il mio sostegno appassionato al diritto al ritorno dei palestinesi, di utilizzare il boicottaggio per determinare un cambiamento nella politica di Israele sulla questione dei rifugiati. L’espediente della pressione esterna dovrebbe essere impiegato per modificare una politica di distruzione, espulsioni e morte. L’occupazione israeliana della riva occidentale del Giordano e della Striscia di Gaza è sempre stata oppressiva e disumana, ma a partire dall’ottobre del 2000, ed in particolar modo dall’aprile del 2002, è divenuta una storia di orribili abusi e crudeltà. Ogni giorno che passa porta con sé la demolizione di case palestinesi, confische di terre, povertà, disoccupazione, malnutrizione e morte. Le cose sembrano inoltre volgere al peggio, visto che sembra che il governo israeliano senta di avere ‘semaforo verde’ dagli Stati Uniti, per fare quello che vuole nei Territori Occupati (compresa la ripresa dell’occupazione della Striscia di Gaza).

Quest’atmosfera di libertà selvaggia ha legittimato la questione della migrazione verso Israele e potrebbe prefigurare l’avvento di un’altra “Nakbah” palestinese, nella forma di una massiccia pulizia etnica, totale o parziale, in Israele ed in Palestina. Israele sta sviluppando la tendenza al genocidio anche attraverso l’assassinio quotidiano di palestinesi (compresi molti bambini), che è ormai divenuta una dimensione normale e comunemente accettata della vita per la maggior parte degli ebrei israeliani. C’è la necessità urgente di arrestare questa sofferenza, ed ostacolare i futuri piani di Israele di infliggere danni ancora più massicci ed irreversibili alla popolazione palestinese ed alla sua società.

Questo è il fine di ogni attivista per i diritti umani e la pace che sia interessato ed impegnato nell’ambito della causa palestinese. Ci sono tre possibilità di porre fine ad un capitolo tanto brutale. La prima è la lotta armata. Questa è stata adottata in via esclusiva da molti palestinesi, ed è stata l’argomento di un dibattito interno alla società palestinese relativo alla sua efficacia. Non è difficile capire perché, da un punto di vista umanista ed universale, gli attentati suicidi e le operazioni militari non hanno posto fine all’occupazione ed è improbabile che lo faranno in futuro. Tali azioni trascinano sempre più vittime innocenti nel conflitto, ed hanno determinato la diffusione di posizioni di rifiuto sempre più oltranzista all’interno della società israeliana. Ciò è confermato in primo luogo dall’elezione di Sharon nel 2001, e dalla sua rielezione nel 2003. Anche la bilancia militare getta dei dubbi sulle possibilità di successo della lotta armata palestinese nel prossimo futuro.

La seconda opzione è cambiare dall’interno la società dell’occupante. Si è verificato, certamente, un impressionante risveglio dell’assopito partito della pace israeliano. Ma si tratta ancora, comunque, di una questione di poche migliaia di attivisti, divisi in dozzine di organizzazioni non governative, e con pochissimi partiti in parlamento che rappresentino le loro proposte. In molti modi questa linea di azione, a dispetto della sua vitalità e necessità, ha ancora meno speranze di riuscita di quella militare.

Tutto ciò ci conduce alla terza opzione, che in ogni caso viene suggerita non alle spese delle altre due, ma come loro completamento. Essa non offre la morte e la violenza come mezzi per porre termine al meccanismo israeliano di distruzione e non è basata sugli equilibri di potere interni o locali. È un appello, dall’interno verso l’esterno, ad esercitare pressioni economiche e culturali sullo Stato ebraico, in modo da portare a casa il messaggio che c’è un cartellino del prezzo appeso alla continuazione dell’occupazione. Ciò significa che il maggior numero possibile di ebrei israeliani devono rendersi conto che il loro Stato è divenuto un paria, e tale rimarrà finché l’occupazione prosegue, o, più concretamente, finché Israele non si ritirerà entro i confini stabiliti nel 2000.

Affrontare il formidabile

Non intendo illudermi sui formidabili ostacoli che si incontrano sulla strada di una tale strategia. Mentre c’è una possibilità di trovare ascolto presso la società civile ed i governi europei, vi sono pochissime speranze di raggiungere gli stessi risultati negli Stati Uniti. Detto ciò, questa linea di azione non era stata ancora sperimentata, per questo rimasi sorpreso quando nell’aprile 2000 Noan Chomsky affermò, durante una conferenza a Boston, che negli anni Settanta, nonostante gli sforzi suoi e di altri, era stato difficile convincere l’OLP a dare inizio ad una campagna in difesa della pace negli Stati Uniti. Arafat pensava che avere l’Unione Sovietica dalla parte della Palestina fosse abbastanza.

Io penso che allora sia stato un errore, e che sia cruciale oggi iniziare a lavorare con gli Stati Uniti. Come nel caso del boicottaggio del Sud Africa, c’è bisogno di iniziare dalla base, e coinvolgere gli ambiti d’azione delle organizzazioni non governative con la speranza di raggiungere alla fine i più alti livelli politici. Anche con un successo parziale, tuttavia, c’è molto da guadagnare nel costruire una tendenza che metta al bando la presenza ufficiale di Israele all’estero. Questo può rafforzare l’opposizione interna all’occupazione, persuadere le voci più esitanti e forse convincere più giovani ad unirsi al movimento di obiezione dei soldati e dei riservisti.

Ciò mi riconduce alla domanda relativa ad un boicottaggio più specifico del mondo accademico israeliano. Penso che da questo momento sia chiaro che un’azione così determinata ha valore solo se fa parte di un appello alla pressione esterna nell’ambito di una campagna complessiva. In un tale appello non ha senso, per un attivista come me, invocare sanzioni o pressioni sugli affari, sulle industrie, sulle manifestazioni culturali etc…, e nello stesso tempo chiedere l’immunità per i miei pari e per il mio ambito di lavoro, quello accademico. Sarebbe disonesto. Bisogna far notare che anche gli attivisti del boicottaggio possono soffrire se la campagna per la quale fanno appello ha successo. In effetti, ha molto più senso tentare di colpire le élites economiche, politiche, culturali ed accademiche in vista di un cambiamento politico. Le realtà socio-economiche sono tali che se si influenza la vita di chi è ricco ed influente, si ottengono dei risultati, non se si aumenta la miseria di quanti sono già svantaggiati ed emarginati.

Come esattamente gli accademici di tutto il mondo dovrebbero mostrare il loro…sgomento di fronte sia alla politica di Israele, sia alla mancanza di coraggio morale nel mondo universitario israeliano di fronte alle ripetute atrocità, è una domanda che dovrebbe essere rivolta a coloro che desiderano prendere la decisione di farlo. Noi per primi in Israele dobbiamo farci portavoce del nostro sostegno morale per un tale atto. Questo è il significato di aggiungere un nome, come ho fatto, ad una lista di accademici europei che fanno appello perché la Comunità Europea riconsideri lo status privilegiato concesso agli accademici israeliani. Senza dubbio, è paradossale che uno inviti a boicottare se stesso. Un appello dall’interno di Israele è semplicemente un’affermazione che ai nostri occhi, in quanto ebrei israeliani, si tratta di un movimento legittimato ed eticamente apprezzabile, anche se può colpirci in quanto membri delle Università israeliane.

Sottoporre la questione alla scelta degli altri

La mia amica Mona Baker ha deciso di mostrare il proprio supporto al movimento prendendo come obiettivo due israeliani nel suo immediato ambito di lavoro. Ha pensato che questo fosse il modo migliore di far passare il messaggio rapidamente ed efficacemente. Senza dubbio, la sua decisione ha posto la questione all’attenzione della stampa nazionale in Inghilterra. È il suo diritto morale di scegliere quello che ai suoi occhi è il modo migliore di prendere parte ad una campagna più vasta, per porre fine alla più grave occupazione militare della seconda metà del Ventesimo secolo.

Io stesso penso che sia importante distinguere tra le istituzioni e gli individui. Penso anche che sia più ragionevole un’azione graduale che esamini ad ogni fase l’efficacia della campagna. Il suo scopo basilare non deve essere dimenticato: far arrivare, il più rapidamente possibile ed a più israeliani possibile il messaggio che la comunità internazionale non tollererà più l’occupazione (ricordando che se non fosse stato Israele, o un altro ‘procuratore’ americano, lo Stato ebraico avrebbe rischiato di subire delle azioni militari, se tutti gli altri mezzi per costringerlo a terminare l’occupazione militare avessero fallito).

Concludo tornando alle considerazioni un po’ banali d’apertura. Certo, è difficile fare appello ad una tale mobilitazione. Non dobbiamo stupirci che soltanto sei accademici israeliani abbiano approvato una tale azione. Ma per noi che ci troviamo in Israele, a dispetto delle accuse di tradimento e peggio che ci sono state rivolte, si tratta del solo modo efficace per esprimere il nostro totale rifiuto delle quotidiane crudeltà imposte del nostro governo ai palestinesi. Questo è un modo molto chiaro e convincente di tentare di far capire il messaggio che si stanno commettendo dei crimini contro l’umanità in nostro nome, e che noi desideriamo unire le nostre forze con tutti quelli che vogliono porre fine a tutto ciò, senza violenza o terrore, ma attraverso la pressione e la persuasione.

Note: Ilan Pappe* è un attivista di sinistra e un accademico. Attualmente è docente di scienze politiche all’Università di Haifa, e Direttore Accademico dell’Istituto di Ricerca per la Pace a Givat Haviva.
Traduzione di Susanna Valle per PeaceLink
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