Marescotti: "Ho lottato 16 anni, ora la sentenza sull'Ilva conferma le mie ricerche"
Per una vita, il professore che parlava di inquinamento e Ilva con numeri e dati difficili da capire si è sentito dare dell'allarmista, del pazzo, uno che esagerava troppo. Diceva che a Taranto c'era un problema diossina, di morti, di campi e ambiente avvelenati, di cibo e formaggi zeppi di inquinanti. Lo diceva, eppure per molto tempo non è stato creduto. Dal 2005 ad oggi però ha continuato a combattere "me lo ha detto mio padre, di combattere sempre, lui che era un partigiano" e decine di comitati ambientalisti, genitori e cittadini si sono uniti alla sua stessa battaglia.
Oggi, sedici anni dopo l'inizio delle sue denunce, Alessandro Marescotti, insegnante, fra i fondatori di Peacelink, pioniere della battaglia ambientale e attivista che collabora con le varie associazioni tarantine in difesa del territorio, di fronte alla sentenza sull'Ilva parla finalmente di "vittoria, giustizia, verità. Noi abbiamo mostrato solo la punta dell'iceberg dei problemi che questa azienda ha portato in questa città e altri ancora sono da affrontare. Per i cittadini di Taranto quella odierna è una sentenza importante, ma la battaglia non è ancora finita".
La sentenza ha riconosciuto il "disastro ambientale" dell'Ilva e inflitto dure condanne agli ex proprietari. Che sensazione ha provato alla lettura?
"La sensazione è di aver fatto una lotta durata 16 anni e finalmente di averla in parte vinta. All'inizio quando mi incontravano io per tutti ero l'allarmista, quello che esagerava sui mali dell'Ilva. A scuola c'era chi mi diceva: non ti hanno ancora arrestato? Beh, è stata una battaglia difficile, lunga, dove per me e Peacelink, e poi tutti coloro che si sono uniti, è sempre stato complesso comunicare tanti dati e argomenti tecnici. Ma quei dati, seppur difficili, andavano tutti in direzione della stessa tesi: quella di una azienda che avvelenava la città. Avevamo ragione e lo abbiamo dimostrato usando la precisione, la divulgazione e una narrazione a cui nel tempo si sono uniti sempre più cittadini e comitati. E quello che abbiamo scoperto tutti insieme alla fine era solo una piccola parte, la punta dell'iceberg del problema".
Come è nata la vostra indagine sul potenziale disastro ambientale?
"Sono da sempre appassionato di internet, anche quando ancora lo usavano in pochi. Nel 2005 come Peacelink abbiamo iniziato a indagare, grazie alle prime ricerche fattibili in rete, su alcune questioni di Taranto. Prima sulla base Nato, poi abbiamo cominciato ad accumulare dati in campo ambientale, scoprendo la storia della diossina. Allora sindacati o enti locali non parlavano mai di diossina. Era più facile conoscere i dettagli segreti della Nato piuttosto che quelli sull'Ilva".
E sulla diossina cosa avete scoperto?
"Ci siamo chiesti: se a Taranto c'è l'8,8 % della diossina industriale europea, come questa diossina può incidere su ambiente e salute? Così per scoprirlo pensammo alle pecore che pascolano, chiedendoci se erano contaminate. Facemmo analizzare i formaggi di un pastore, che poi morì per cancro. Volevamo capire gli effetti su persone e natura. I valori trovati di diossina erano preoccupanti, eppure nessuno fece nulla. Sapevamo del problema diossina già dal 2001 però sembrava non interessare".
Forse per quella scelta impossibile che ha sempre connotato Taranto, quella fra "salute o lavoro"?
"Quando si parla di Ilva si solleva sempre il punto o la salute o il lavoro. È una falsa questione. Perché la parte salute, parzialmente, si poteva risolvere, conservando anche il lavoro. Ilva stessa chiese una consulenza a dei tedeschi che spiegavano come avevano abbattuto le diossine in alcuni impianti negli anni Novanta, grazie a nuove tecnologie. Allora perché non lo abbiamo fatto anche qui? Il vero problema non è scegliere fra salute e lavoro, ma fra norme da rispettare e quella cattiva politica che ha costruito uno Stato parallelo: il vero problema di Taranto è lo stesso problema di Ustica, due Stati che si sono scontrati, da una parte la magistratura e dall'altra un pezzo dello Stato deviato dalla mala politica, quella che non vuole né conoscere né affrontare i problemi. I dati pubblici per capire cosa stava accadendo ci sono sempre stati: ci sono arrivato io che sono solo uno che insegna a scuola, figuriamoci cosa avrebbero potuto fare esperti e tecnici. E allora perché non l'abbiamo fatto, lasciando che altre persone morissero?".
Già, i morti.
"È difficile stabilire quanti sono connessi al disastro ambientale. Si parla di trenta decessi in media in più all'anno, a Taranto, soprattutto a Tamburi, dovuti ad emissioni industriali, ma è una stima cautelativa. Il vero problema, oltre i morti, è il calo dell'aspettativa di vita qui. Ogni anno perdiamo 1340 anni di speranza di vita all'anno rispetto a Bari".
Come fare ora per far ripartire Taranto, per rinascere?
"È una città bellissima, come ce ne sono poche. Con una storia, con delle bellezze naturali fantastiche. Se esiste un ministero della Transizione ecologica, beh esiste anche un territorio perfetto in cui questo ministero agisca: Taranto, che ne ha tanto bisogno".
E la vostra battaglia per salute e ambiente come continua?
"Noi, insieme ad altri cittadini e comitati, stiamo scrivendo un nuovo esposto alla Procura della Repubblica che riguarda il periodo dopo a quello di competenza di questa sentenza. Fatti che riguardano inquinamento e salute dal 2013 in poi, che tengono dentro anche la valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario del 2019 che accerta rischi inaccettabili nel quartiere Tamburi. Per cui la battaglia non è finita. Porteremo un esposto alla magistratura per mostrare che il problema di inquinamento non si è concluso, che anche oggi la popolazione è esposta a rischi inaccettabili. Se prima la situazione era gravissima, oggi è grave, ma ancora non accettabile. Anche dalle simulazioni sugli impatti futuri di una possibile minore produzione d'acciaio, la salute non sarebbe garantita per esempio nei quartieri vicino all'area industriale. Per cui vogliamo che la Procura apra una nuova indagine, senza più quello scudo penale che in passato ha portato ad archiviare ben 45 esposti portati da noi. Vogliamo andare avanti, avere ancora giustizia".
Crede che proseguiranno i piani attuali per l'acciaieria?
"Non credo che AcelorMittal rimarrà in queste condizioni. Vediamo ora se la politica continua ad agire come se non ci fosse stata questa sentenza oppure se si impegnerà davvero a cambiare le cose. Noi abbiamo fiducia nella magistratura, ora aspettiamo che agisca anche la politica".
Spera in un cambiamento, improntato su verde e ambiente, trainato dai giovani?
"Io insegno italiano e storia e vedo che i miei ragazzi seguono queste vicende. Non ne parlo direttamente a scuola, ma cerco di fornire loro la metodologia per indagare, scoprire le cose, fare la rivoluzione dei dettagli: ovvero partire da piccole cose per poi scoprire grandi problemi come quello dell'Ilva. Spero che così i giovani potranno costruire finestre di conoscenza. Ci sono già belle realtà a Taranto, come la rete Ecodidattica, in cui in 45 scuole i bambini vengono coinvolti nell'educazione ambientale, la sostenibilità, la cittadinanza attiva: a loro andranno date le chiavi per il futuro di questa città".
E nel frattempo lei continuerà a combattere?
"Sono figlio di un partigiano che in Emilia-Romagna ha fatto la Resistenza. Prima di morire mio padre mi ha detto di continuare, di lottare. E quindi io continuo, per Taranto: è la mia battaglia per evitare che altre persone muoiano. Sono contento per la sentenza di oggi, ma solo ieri è morto un altro operaio dell'Ilva, di cancro, e aveva 42 anni. Ecco perché dobbiamo continuare a combattere".
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