"Non dobbiamo rassegnarci a convivere con il male"
Esattamente dieci anni fa – più o meno di questi tempi – il nostro primo viaggio in camper alla scoperta dell’Italia che Cambia raggiungeva la Puglia e in particolare Taranto. Arrivavo da mesi di interviste quotidiane. Incontravo ogni giorno storie di cambiamento positivo tra le più disparate e non ero pronto a scoprire quella che sarebbe diventata una pietra miliare nel mio cuore.
Di Taranto sapevo poco. Certo, conoscevo già allora le vicende dell’Ilva e le sue emissioni. Lo avevo letto sui giornali. Non conoscevo però il suo meraviglioso, struggente e semi-abbandonato centro storico. Non sapevo che Taranto ospitasse l’università, che fosse una città antichissima e gloriosa, che avesse esperienze di eccellenza nello studio dei cetacei, un’agricoltura e una pesca importanti e una stagione culturale ricca e varia.
O almeno, alcune di queste cose le aveva prima. Prima che l’Ilva cominciasse a mietere vittime e che i divieti limitassero pesca, allevamento e agricoltura per colpa della diossina imperante e degli altri mille inquinanti emessi dallo stabilimento e dalle strutture che lo circondano. A cambiare per sempre la mia percezione di Taranto – nel bene e nel male – e a inserire nel mio cuore la pietra miliare di cui sopra, furono le parole di Alessandro Marescotti e le “urla” di Piero Mottolese, che non si limitarono a raccontarci cosa avveniva a Taranto, ma ci portarono a vedere le emissioni dell’ex-Ilva da trenta “punti di vista” diversi.
I racconti di Pietro – a cui hanno trovato tracce di piombo nel sangue e nell’urina –, la sua disperazione per l’indifferenza dello Stato, la sua passione nel cercare di mostrare al mondo quanto stava accadendo a Taranto le ricordo oggi come ieri. A fare quasi da contrappunto, le parole pacate e super-competenti di Alessandro, che con la sua PeaceLink ha deciso di portare avanti una battaglia costante e determinata per la verità utilizzando ricerca scientifica, analisi, approfondimenti
Ma facciamo un passo indietro. Qualche settimana fa, attraverso un articolo di Benedetta Torsello e un video di Paolo Cignini, vi abbiamo raccontato la storia di Alessandro e di PeaceLink. Se non l’avete vista è il momento di farlo! Articolo e video si fermavano al momento in cui Alessandro, durante una conferenza sull’uranio impoverito a Taranto, fu apostrofato da una persona: «Tutto giusto quello che dite, ma perché non vi occupate di Taranto?», gli venne chiesto.
Sul momento Alessandro scambiò questa persona per un provocatore, ma nei suoi occhi riconobbe una richiesta di aiuto. Racconta Alessandro: «”Sapete cos’è l’Ilva?”, ci disse. “Un luogo da cui non escono le informazioni”. I lavoratori sapevano delle cose e non le dicevano. Era un grande luogo di omertà. Se parlavi, magari poi non veniva assunto tuo figlio, tuo cugino…».
E così la storia di Alessandro e di PeaceLink prende una nuova piega: «Andando sul sito dell’inventario nazionale delle emissioni delle sorgenti, in cui venivano inseriti i dati delle emissioni dell’Ilva, scoprii dati impressionanti. Tonnellate, quintali, chili. Mi dissi: “Non è possibile. Sono nato e vivo qui e di questo argomento non conosco nulla. So quanti proiettili di uranio impoveriti vengono lanciati dagli americani nel mondo, ma non so niente di Taranto”. Aveva ragione quella persona che forse era un lavoratore dell’Ilva».
Continuando ad approfondire, Alessandro e i suoi scoprirono che gli archivi degli Stati Uniti contenevano informazioni a disposizione di tutti in cui erano inclusi dati sulle emissioni dell’Ilva. Analizzandoli portarono alla luce dati tecnici apparentemente incomprensibili e poco significativi. Qualche grammo di questo o di quello. Consultandosi con gli esperti notarono invece che le percentuali di sostanze contenute in acqua, cibo e aria di Taranto erano da considerarsi letali. Da qui ha inizio una battaglia fatta di analisi scientifiche, scoperte, rivelazioni. Non la sto a ricostruire perché trovate tutta la storia nel video che vi proponiamo qui.
Tutto questo avveniva vent’anni fa. Sembra incredibile che dopo tante battaglie, cause vinte, denunce mediatiche, l’ex-Ilva continui a emettere indisturbata eppure è così. Persino l’ONU è arrivata a Taranto e ha definito la città “zona di sacrificio”. Fermatevi un attimo ad “assaporare” le parole. Zona di sacrificio. La corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’italia per non aver protetto i cittadini del quartiere Tamburi, le condanne sono molteplici.
C’è anche uno studio realizzato dall’organizzazione mondiale della sanità su richiesta della regione Puglia che analizza tre scenari per l’Ilva:
- scenario senza interventi di modifica degli impianti;
- scenario di transizione (che stiamo vivendo adesso) con interventi su impianti e adozioni di migliori tecnologie disponibili;
- futuro scenario quando saranno completamente installate queste tecnologie e sarà realizzata l’autorizzazione integrata ambientale in maniera completa.
Alessandro ci racconta come sia rimasto colpito dal terzo scenario: «Tralasciando il primo e secondo scenario – che comportano tassi altissimi di mortalità – mi ha colpito che persino in quello futuro che prevede il ricorso alle migliori tecnologie vi sarebbero, nei dieci anni successivi all’adozione, tra le 50 e le 80 morti premature evitabili». La morte a Taranto conta meno: dieci, cinquanta, ottanta morti sono considerati probabilmente un “danno collaterale accettabile”. Nessuno immagina davvero quelle decine di esseri umani ammalarsi e morire. Nessuno immagina lo strazio dei loro cari. Nessuno immagina che per uno che muore, altri dieci si ammalano, ricorrono a chemioterapia, dolore, sofferenza, paura.
«Immaginate di avere un ponte pericolante – spiega Alessandro – e che le stime prevedano che nei prossimi dieci anni su quel ponte ci potrebbe essere un incidente in cui moriranno tra le 50 e le 80 persone. Di fronte a una previsione di questo genere quel ponte verrebbe subito bloccato. Invece qui, pur sapendo che si verificheranno queste morti premature evitabili, nessuno prende l’iniziativa. Questo è l’aspetto drammatico».
In questi anni è successo di tutto. Da un lato il movimento delle eco-sentinelle, dall’altro l’iniziale mancanza di azione delle grandi associazioni ambientaliste. Da un lato i sindacati e le amministrazioni – che non solo non avevano i dati delle emissioni, ma nemmeno li capivano –, dall’altro la magistratura che ha affiancato PeaceLink nella lotta e a un certo punto ha cominciato a produrre ricerche e dati ancor più approfonditi (e gravi) di quelli dell’associazione. Da un lato i Riva – gli ex proprietari dell’Ilva – che mobilitarono i lavoratori in difesa dell’acciaieria, dall’altra un ripensamento di parte del mondo sindacale che piano piano è passato dalla parte degli attivisti».
Certo, se i sindacati e gli operai stessi si fossero mossi compatti le cose sarebbero potute andare diversamente. Spiega Alessandro: «La classe operaia, con le rappresentanze sindacali e politiche, avrebbe dovuto svolgere la funzione di sentinella avanzata andando a controllare l’organizzazione del lavoro, il processo produttivo, le condizioni di salute in fabbrica. C’erano le leggi per farlo, come ad esempio la 626. La classe operaia avrebbe potuto proteggere sé stessa e la città».
Purtroppo ci fu una forte tendenza all’omertà, «un fatto sconcertante che non aveva giustificazione perché i Riva facevano profitti elevatissimi e se la classe operaia attraverso le proprie rappresentanze ne avesse parlato, invece di andare a finire nei paradisi fiscali tali profitti sarebbero andati a beneficio di tutti!», prosegue Alessandro. «La città avrebbe potuto respirare meglio, non ci sarebbe stato l’eccesso di tumori infantili. C’erano i soldi per fare investimenti di carattere ambientale, c’era la possibilità di trasformare Taranto in una fabbrica modello, ma non è stato fatto e la responsabilità è ovviamente dei Riva, ma anche di coloro che avrebbero potuto proteggere i lavoratori e la città e non lo hanno fatto».
Oggi Alessandro teme che ci possa essere una sorta di “abitudine” e che allo slancio che c’era prima di cambiare le cose subentri una muta rassegnazione. «Da meridionale questa cosa la percepisco come estremamente grave. Mi riferisco all’idea che un fatto anomalo possa essere considerato cronico. Questa idea di rassegnarci al peggio, a quelle che sono le vergogne della nostra storia, è la vera sciagura».
«Ci rassegniamo a essere la città della diossina in cui non si può pascolare in certe aree, in cui il mar piccolo è contaminato e in quel punto pure le cozze lo sono. Ci rassegniamo a vivere nella città in cui bambini del quartiere Tamburi possono essere in pericolo e in cui le persone che vivono nei tre quartieri più vicini all’area industriale abbiano una speranza di vita più bassa. Rassegnarci a questo significa rassegnarsi al male. Noi non vogliamo arrenderci. Il nostro lavoro invece è proprio quello dei portatori di speranza».
E il nostro lavoro è dare forza e visibilità a questa sacrosanta e necessaria missione. Non arrendiamoci al dolore, al dolore che non muore.
Video con la testimonianza di Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink
Video teatrale su Piero Mottolese, ex operaio ILVA e oggi ecosentinella di PeaceLink
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