PeaceLink compie 25 anni
L'annuncio pubblico della nascita della rete venne dato il 28 ottobre 1991. "Singolare iniziativa denominata PeaceLink", titolò un giornale locale tarantino.
Venne consegnata una password a 22 scuole per collegarsi, e anche all'arcivescovo.
Quello che vedete qui a destra era il logo di allora, molto rudimentale, disegnato da me, prima che venisse rifinito e migliorato da Enrico Marcandalli, grafico e attivista di PeaceLink qualche anno dopo.
Era il 28 ottobre 1991 e avevamo l'entusiasmo dei trent'anni. Nell'aula magna dell'Ipsia Archimede in via Lago Trasimeno, alle ore 17, si tenne il fatidico incontro per illustrare il "progetto" PeaceLink. Il tema era: l'informatica e la telematica per una cultura della pace e della solidarietà". Ci sforzavamo di chiarire: "Cosa significa PeaceLink? Tradotto letteralmente in italiano può significare 'collegamento di pace', ma anche 'legame di pace'. Ventidue scuole di Taranto e provincia hanno ricevuto una password (parola di accesso) con la quale possono inserirsi nella rete telematica".
L'accoglienza? Freddina.
Una collega di scuola mi disse subito: "Ma perché avete scelto un nome in inglese?"
Un'amica pacifista, di fronte al mio entusiasmo nello spiegare che non ci saremmo dovuti necessariamente spostare da Taranto per andare a Roma, commentò: "E' mostruoso". Nessuno dei presenti ci avrebbe aiutato.
Vennero un po' di persone solo per una questione di cortesia, ma scoprimmo che il giorno dopo c'erano zero collegamenti alla rete. E neanche un mese dopo avremmo avuto una mano da chi conoscevo e pensavo - illudendomi - che avrebbe collaborato. E neanche tre mesi dopo. E neanche un anno dopo. Potevi dire che era gratis, che era efficiente, che era il futuro. Niente. L'idea venne snobbata sia dai pacifisti, sia dalle scuole, sia dai "compagni". E ci ritrovammo a costruire PeaceLink con un gruppetto di smanettoni, di tecnici, di entusiasti. Senza coloriture ideologiche. Ci sentivamo solo accomunati dall'entusiasmo di avere a che fare con il futuro. Incompresi ma pieni di vitalità.
E così rompemmo il giaccio che ci avrebbe fatto subito morire se non avessimo avuto dentro di noi il fuoco dell'utopia.
Un quarto di secolo fa nasceva PeaceLink in questo strano modo. Eravamo nel millennio precedente, precisamente nel 1991. Una distanza siderale separano i 2400 bit/secondo della mia prima connessione telematica di allora dai 30 milioni di bit/secondo con cui comunico oggi. Nel 1991 era appena finita la prima guerra del Golfo e andai in vacanza con l’amaro in bocca per la sconfitta che l’intero movimento pacifista aveva subito. Erano decollati aerei italiani per bombardare l’Iraq. I mensili nowar non riuscirono a pubblicare il secondo numero che già gli americani avevano vinto. Occorreva una comunicazione più veloce, una rete. Mi portai nello zainetto delle vacanze un vocabolario di inglese e un fascicolo di fotocopie che venivano dalla Gran Bretagna e dagli USA. Avevo letto da qualche parte che si poteva creare una rete telematica gratuita o a basso costo. Ma sui giornali italiani non trovavo nulla. Neppure in libreria. Tornai dalle vacanze e, aprendo il Manifesto, lessi che nasceva la rete telematica di Rifondazione Comunista. Delusione cocente. I comunisti sceglievano infatti il costosissimo e inefficiente Videotel della SIP, che si rivelò un flop tremendo. “Spenderemo solo diciassette milioni”, dichiarò entusiasta Lucio Libertini, un ingegnere comunista. In quella frase - “spenderemo solo 17 milioni” - si riassumeva tutta la distanza che ci separava: e chi li aveva 17 milioni da spendere per creare una rete telematica per la pace? Decidemmo allora di creare una rete spendendo duecentomila lire, comprando un modem velocissimo in confronto al Videotel. Connessioni al costo di 200 lire, il prezzo di uno scatto telefonico di allora, mentre con il Videotel ogni connessione a tempo costava almeno dieci volte di più. Cominciò così - mentre Rifondazione inaugurava una rete che nessuno avrebbe usato - la telematica per la pace. Una rete aperta e libertaria, oltre che economica ed efficiente. L’idea ci venne da un anarchico omosessuale americano che - capelli viola e skateboard sotto la scrivania - aveva sviluppato un software gratuito (che tutti potevano liberamente copiare) per connettere i personal computer grandi, medi, piccoli e persino i Commodore 64, allora diffusissimi anche se sul viale del tramonto. Creammo un gruppo di lavoro di tecnici smanettoni, solo alcuni erano pacifisti, altri erano solo entusiasti dell’idea. Spiegare al “popolo della pace” perché era utile creare una rete telematica fu una fatica. Allora andava di moda il fax, costoso, oltre che lento e inefficiente. Inviare un libro di duecento pagine per fax era improponibile, mentre è normale allegarlo in una email.
Difficile fu la scelta del nome: PeaceLink. Collegamento (link) di pace (peace).
Ricordo le lunghe discussioni sul fatto che un network (oggi diremmo un social network) permette la comunicazione orizzontale molti-a-molti, mentre il fax era uno-a-uno e il Videotel era piramidale: uno-a-molti. Ma PeaceLink venne considerata da alcuni un’idea improponibile e senza futuro, la pensata di un gruppo di tecnici illuministi fuori della realtà. Le obiezioni: non tutti avrebbero avuto un computer, la posta elettronica l’avrebbero usata solo in pochi, costava troppo, e via discorrendo. Grillo in quel periodo non amava la telematica: su Youtube si trova un filmato del 2000 in cui prende a martellate un personal computer.
Per fortuna Alex Zanotelli venne dalla nostra parte. Caddero tanti pregiudizi. Valorizzammo la novità “social” della rete rispetto al computer visto come “personal”. Mettemmo al centro la cittadinanza attiva, il software gratuito. Non esisteva Internet allora. O meglio, non arrivava nelle case. Internet solo nelle università. Ma noi volevamo una tecnologia che arrivasse ovunque. Volevamo superare il digital divide. La scelta fu quella di Fidonet, creata da quel bizzarro anarchico dai capelli viola di cui sopra. Lavorammo poi su un “gateway” con Internet. Ricordo la dedizione di chi passava le notti gratis a fare del suo meglio.
I primi tempi ci si svegliava la mattina trepidanti per vedere se arrivava qualche messaggio di posta elettronica. Oggi è il diluvio. Oggi che la rivoluzione “iper-tecnologica” è diventata merce e che i social network sono stati inglobati in un gigantesco chiacchierificio, cosa è rimasto del sogno di allora? Tutto è stato realizzato tecnicamente e cosa altro resta da fare?
Che senso ha predicare la telematica per la pace quando tutti sono connessi, anche troppo?
Quello che è rimasto è l’idea di una cittadinanza attiva di nuovo tipo. Intelligenza sociale, reti di competenza, specialismi critici raccolti in rete, alfabetizzazione al giornalismo di base, alla verifica delle fonti. Quello che rimane da fare è un lavoro culturale, non più tecnologico.
Occorrono informazione dal basso, attivisti che verifichino le fonti. Ci attendono scuole di giornalismo partecipativo da creare. Un tempo si diceva: l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani. Anche la telematica è fatta, bisogna costruire i cybercittadini che sappiano coltivare il senso del dubbio, della ricerca e della verifica.
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