La banca dei siciliani
Scampata al sacco perpetrato nell’ultimo decennio dai maggiori gruppi del paese, la BAPR è oggi la banca più facoltosa fra quelle che recano il centro decisionale nell’isola. E’ fra le prime cinque popolari in Italia. E’ la diciottesima banca nazionale per ROE, reddito netto rapportato ai valori patrimoniali. Viene ricondotta alle prime venti banche italiane per solidità, rating e rischio. Per capitalizzazione risulta fra le prime trenta banche italiane in termini assoluti. Si tratta evidentemente di un istituto ricco, dai cui dati di bilancio emerge un andamento di costante crescita, fino agli ultimi del 2004, che attestano un patrimonio di 447 milioni di euro, una raccolta di 2.404 milioni, impieghi creditizi per 1.726 milioni, un utile netto di 30 milioni, infine sofferenze al 4 per cento quando il dato medio nazionale si situa oltre il 15.
La banca guidata da Giovanni Cartia, ultima voce di una dinastia di banchieri ragusani, può compiacersi per altro di esibire una immagine storica di rango, con oltre un secolo di vita vissuta da protagonista e con slanci sorprendenti, a dispetto delle traumatiche vicende del paese: due guerre devastatrici, il ventennio fascista, gli anni della ricostruzione. Basti dire che dal 1945 al 1947, anni fra i più drammatici del dopoguerra, ha registrato il raddoppio del capitale sociale e realizzato addirittura utili. E proprio il dato della stabilità, del riuscire a progredire in situazioni pressoché impossibili, le ha garantito un ruolo non secondario nei processi territoriali, fino a farne, in coerenza con i rilanci del sud-est, agricoli e non solo, un mito forte dell’economia dell’isola.
Nel 2002 la BAPR ha coniato uno slogan che ne riassume le proiezioni effettive e le intenzioni: “Il nostro barocco è patrimonio dell’umanità, la nostra banca è patrimonio dei siciliani”. In effetti, sin dai primi anni novanta, malgrado siano stati tentati in tutti i modi, Cartia e i suoi collaboratori hanno deciso di rimanere autonomi e si sono trovati nella necessità di crescere per cercare di fronteggiare in modo idoneo la concorrenza invasiva dei gruppi nazionali. Se sono riusciti a consolidare tuttavia le posizioni in tutta la linea jonica, da Pachino a Messina, con l’aggiunta di decine di agenzie, frutto pure di acquisizioni di banche locali, sono stati fermati lungamente nel centro-ovest dell’isola. Non sono riusciti ad acquisire la Banca del Popolo di Trapani, finita poi all’industriale veneto Zonin, malgrado lo zelo profuso nelle trattative da Salvatore Inghilterra e Vincenzo Spata, fra i massimi dirigenti della BAPR. Non sono riusciti ad aggiudicarsi una ventina di sportelli centro-occidentali posti in vendita, per ordine dell’Antitrust, dal Banco di Sicilia, prima che questo si ritrovasse integrato nella vicenda Capitalia.
Qualcosa è andato movendosi comunque nel 2004 quando la BAPR ha acquistato a Palermo ai numeri 453-461 della centralissima via Roma un immobile di circa 700 metri quadrati per quasi due milioni di euro. Si è trattato del primo passo per l’apertura, ormai imminente, di una sede nella capitale siciliana, che sarà sicuramente propedeutica al posizionamento strategico nel centro-ovest. Dopo il posizionamento a Milano, dove la BAPR ha acquisito negli anni novanta la Concordia Sim dalla famiglia Negri, società di gestione di patrimoni che non ha mai finito di registrare perdite, il disegno espansivo degli anni novanta va quindi a compiersi, dietro garanzie e “nulla osta” difficilmente definibili. E la cosa può leggersi in un certo modo se si considera che da varie prospettive, più o meno in ombra, può essere avvertito come vantaggioso il contatto forte con l’unico istituto di nome che non ha demandato ad altri, lontani dall’isola, le proprie facoltà decisionali.
Forte di una capitalizzazione in crescita, che richiama principalmente le risorse dell’agricoltura trasformata e del terziario, oltre che di alcune linee imprenditoriali catanesi e messinesi, la BAPR evolve comunque in tutti i sensi, su piste che hanno fatto la fortuna di altre Popolari, sull’esempio magari della Bipielle di Fiorani, balzata in pochi anni, di trama in trama, sulla scena più convulsa della finanza nazionale. Al confronto con altre esperienze, le sue risorse in gioco permangono beninteso contenute, dovendo scontare una difficile condizione di terreno, nel sud estremo del paese, ma gli orientamenti sono chiari. Il gruppo di Ragusa va assumendo partecipazioni a largo raggio. Oltre che la milanese Concordia Sim, divenuta poi Finsud, ha incorporato la Banca Popolare di Augusta, la Banca di Credito Cooperativo di Linera e la omologa di Belpasso. Reca partecipazioni azionarie di qualche peso alla Italease, a Centrobanca, all’IRFIS e in numerose altre società. E in virtù di tali presenze, come della considerazione di cui gode l’istituto, Giovanni Cartia si ritrova nel consiglio di amministrazione di Centrobanca e del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, mentre ricopre cariche sociali all’IRFIS ed è vice presidente dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari.
Tali processi espansivi hanno avuto un protagonista motivato nel direttore generale Vincenzo Spata, che pure non ha mancato di contestare, più o meno cautamente, la linea autonomistica di Cartia e del vice direttore generale Salvatore Inghilterra. Un particolare rilievo ha assunto comunque il lavorìo del trapanese Francesco De Stefano, chiamato a dirigere l’Ufficio Finanziario, in virtù delle esperienze maturate in istituti internazionali come Banque Indosuez e la giapponese Yamaichi. De Stefano è stato in effetti l’artefice indiscusso dell’operazione Concordia Sim, quindi dell’insediamento milanese della BAPR. E non mancano su tale linea aspetti singolari.
Ufficialmente Concordia è stata acquisita per creare a medio-lungo termine una rete commerciale incentrata su negozi finanziari “in tutta la Sicilia”, come ebbe a dichiarare De Stefano nel giugno 2000, e per creare una “testa di ponte in Lombardia”. Ma si dà il caso che finora ha registrato solo deficit: di oltre 800 milioni di lire nel 1991, di oltre 3 miliardi nel 2002 e nel 2003, di 240 mila euro nel 2004. Qual è allora la sua funzione reale? Come mai dopo cinque anni di perdite, dovute anzitutto agli ingenti costi di gestione, viene mantenuta? Evidentemente, non può essere scartata l’ipotesi che in tale società, in cui convergono patrimoni di differenti aree siciliane possano esistere dei fondi sottintesi. E le condotte mosse del De Stefano, negli anni di permanenza alla BAPR, potrebbero esserne un correlato.
Il trapanese è stato il responsabile materiale di talune equivoche negoziazioni in titoli effettuate nel 1999 dall’istituto siciliano, di concerto con la sede di Londra di una banca giapponese, la Industrial Bank of Japan, dove lavorava un amico fidato, il napoletano Gennaro Buonocore. In sostanza diverse partite di titoli strutturati, cioè non quotati in borsa, sono state acquistate dalla BAPR a un prezzo assai superiore a quello di mercato. E nessuno, ovviamente, è riuscito a spiegarne le ragioni. Non solo: la conseguente minusvalenza, multimiliardaria, è stata dolosamente nascosta in sede di bilancio, con l’avallo della società di revisione Arthur Andersen, per evitare che venisse incrinato il rapporto “fiduciario” con gli azionisti. Nell’aprile 2001 De Stefano ha potuto congedarsi comunque dalla BAPR con una buonuscita di mezzo miliardo di lire, a fronte di un paio di anni di servizio, e, per motivi impliciti, una aggiunta di 270 milioni “fuori sacco”. E pare sia stato netto nell’avvertire che, nel caso fossero stati compiuti atti a suo danno, non avrebbe esitato a mandare in galera i vertici della BAPR, a partire dal Cartia. Si è riposto quindi in gioco già dal luglio 2001 quale gestore responsabile per il mercato obbligazionario di Gestione di Patrimoni Sim di Milano, controllata dal gruppo elvetico Gestion de Patrimoines, che fa capo all’imprenditore Roberto Villa.
L’esperienza rutilante del De Stefano presso il gruppo siciliano si è collocata evidentemente in un preciso sfondo. E serie anomalie emergono pure dai bilanci precedenti e successivi. Grazie alle denunce presentate nel 2001 da due soci storici, il ragusano Alfredo Garozzo e il catanese Enrico Lentini, i falsi in bilancio dell’esercizio 1999 riescono a ricevere comunque la prima certificazione giudiziaria, seppure con significative incoerenze. Dal PM Marco Rota e dal giudice Vincenzo Saito del tribunale di Ragusa è stato riconosciuto in particolare che la dirigenza Cartia ha tradito la fiducia di migliaia di soci, quando il travisamento dei conti costituiva in sé, senza limite alcuno, un gravissimo reato. L’esito è stato però quello di un’archiviazione che non fa giustizia, consentita dalle norme in materia introdotte dal governo Berlusconi.
Una banca fascista
Nata negli ultimi anni dell’Ottocento, ufficialmente per sostenere la piccola proprietà contadina, la Banca Popolare Cooperativa di Ragusa, come si chiamava in origine, divenne rapidamente la cassaforte degli agrari, che nei primi anni venti costituirono in Sicilia la quintessenza della reazione fascista. Retta da Luigi Cartia e poi dal nipote Giovambattista, fece quindi affari d’oro durante il ventennio. Sospinta dalle leggi che incentivavano la riunione degli sportelli di tipo cooperativo, nel 1935 si fuse con altre tre realtà presenti nel territorio ragusano: la Banca Popolare Agricola Cooperativa, legata al gerarca Filippo Pennavaria, la Banca Popolare Agricola Commerciale e la Banca Agraria e Commerciale. Negli anni trenta la comunione fra l’istituto con il regime divenne assoluta. Numerosi azionisti e dirigenti si trovarono a occupare infatti cariche nel PNF o negli enti locali, a partire dal federale Giorgio Turlà, esponente fra i più inquietanti del fascismo sud-orientale, che fu socio di spicco, insieme con il padre, della banca e direttore dell’unica agenzia di Modica, a quel tempo la città più popolosa degli Iblei.
La banca e la vittima del racket
Un imprenditore vittoriese, Giovambattista Gulino, vittima dei racket estorsivi, spiega il suo rapporto con la BAPR.
Quali rapporti ha avuto con la Banca Agricola Popolare di Ragusa?
Sono stato correntista di questa banca per cinque o sei anni. Fino a un certo punto tutto è andato bene perché non ho avuto bisogno di chiedere nulla. A causa di alcuni eventi negativi mi sono trovato poi a chiedere un piccolo prestito, che mi è stato negato. Ho dovuto ricorrere allora a un alto esponente delle istituzioni, il quale, compresa la gravità del mio caso, ha telefonato alla BAPR, e le porte, fino a quel momento chiuse, si sono improvvisamente aperte. Ho ottenuto un prestito di quindici milioni di lire, che ho restituito in cinque mesi. Da quel momento i rapporti con la banca sono però cambiati. Si sono accorti che avevo bisogno, hanno quindi abbassato il tasso attivo a una percentuale ridicola, coincidente quasi con lo zero, mentre hanno portato quello passivo al 13-14 per cento. Si trattava di un sopruso, ma non potevo reclamare alcun diritto perché mi sentivo il coltello in gola, capivo che non avevo vie d’uscita. Quindi, come accade con gli usurai, dovevo far finta di non leggere, di non capire quei numeri.
Ritiene che si sia un nesso fra usura propriamente detta e certi modi d’essere delle banche, nella fattispecie della BAPR?
Sì, riscontro che c’è un nesso diretto. Frequentemente ci si ritrova sotto usura proprio perché sospinti da funzionari e avvocati delle banche, da individui in grado di ridurre cittadini perbene a larve, perché non permettono di pensare, di ragionare, in grado di perseguitare con telefonate a tutte le ore, con telegrammi, per imporre di risolvere le cose in tempi impossibili. Riferendomi alla BAPR, posso dire che ho riscontrato in numerosi funzionari una assoluta mancanza di pudore, un fare laido quanto quello degli estorsori, malgrado di compiacciano di indossare giacca e cravatta.
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