La mia sfida col computer alla mafia e al terrorismo
PALERMO - La sua battaglia la combatte con una risata. Irriverente e provocatoria. Registrata sulla segreteria telefonica alla fine di una frase in siciliano stretto, da caricatura mafiosa. Perchè Gioacchino Genchi, superesperto informatico della procure di mezza Italia, l'ha capito da un pezzo che Cosa Nostra è meglio combatterla così. Almeno da quando scoprì che dietro le stragi di Capaci e di via D'Amelio c'erano tracce che portavano lontano, fuori dalla Sicilia, vicinissimo ai poteri forti del Paese, forse non solo del nostro. E oggi dice: «Dopo vent'anni ho capito è che la cosa più importate è non perdere mai il senso dell'ironia. Spesso noi investigatori, per enfatizzare il nostro lavoro, abbiamo finito per enfatizzare anche il lavoro dei mafiosi. Spesso siamo stati noi a fornire le credenziali con le quali certi mafiosi sono diventati capi, senza neanche rendercene conto. Il modo migliore per combattere la mafia è quello di ironizzarci sopra. Perché il giorno in cui noi avremo la capacità di ridicolizzare Cosa Nostra, avremo vinto veramente la guerra a Cosa Nostra. Nel mondo di Internet, nella coscienza dei giovani d’oggi non c’è più spazio per soggetti così goffi e per la loro pseudo cultura».
Per ora la trincea di Genchi è fatta di computer. Ne ha tre sul tavolo, davanti a lui; «ma tra un mese saranno cinque, mi stanno costruendo il supporto per montarli vicini». Da quelle macchine escono perizie, mappe geografiche, tabulati telefonici, persino considerazioni filosofiche sui sistemi investigativi. Sono documenti che planano sui tavoli delle procure più importanti d'Italia, ai quali spesso viene cambiata l'intestazione. E diventano pezzi di sentenze decisive, che raccontano i misteri d'Italia. Come quella per la strage di via d'Amelio, che elenca uno per uno tutti i punti ancora oscuri di una delle pagine più drammatiche della storia d'Italia. E' un poliziotto, anche, Gioacchino Genchi. Ma la calibro nove l'ha restituita anni fa, quando chiese l'aspettativa al Viminale dopo averlo servito per quindici anni: «La Polizia non l'ho lasciata e non intendo lasciarla. Io sono in aspettativa non retribuita; è una scelta di tipo deontologico: io faccio un lavoro per il quale percepisco già una retribuzione, e non è giusto che ne percepisca due. Ma siccome non intendo abbassare di un solo punto la qualità del mio lavoro di consulente dell’autorità giudiziaria, ho preferito lavorare da privato. Perché per dare il massimo nelle indagini tecniche ci vuole una disponibilità immediata di risorse scientifiche che i legacci della pubblica amministrazione non riescono a garantire se non con tempi lunghi. La mafia e la criminalità dispongono di mezzi tecnologici e risorse finanziarie incommensurabili. Non si può pensare di inseguire chi corre alla velocità di una gazzella restando in groppa ad un elefante».
La sua "scienza", Genchi la mette a disposizione di tutti i magistrati che lo chiamano; siano essi i pm di punta dell'Antimafia o i sostituti di prima nomina, alle prese con il delitto cittadino, che non porta gli investigatori agli onori della cronaca. Molti lo considerano il migliore nel settore delle investigazioni tecnico-scientifiche, alcuni lo temono, addirittura. Perchè Gioacchino Genchi ha messo il naso negli affari più oscuri della Repubblica, con l'autorizzazione delle Procure di mezza Italia. Li ha scandagliati e li ha letti in maniera analitica, scoprendo talvolta verità inconfessabili. Lui si schernisce; si definisce un artigiano delle indagini che sa fare discretamente tre cose insieme; mentre gli altri, di norma, fanno benissimo una sola cosa per volta: «Nel mio lavoro c'è la sintesi di tre professionalità, che devono convergere: quella tecnico-informatica, che è indispensabile per raccogliere in maniera scientifica ed elettronica gli elementi che compongono il grande puzzle dell'indagine; poi una certa arguzia investigativa, per saperne cogliere gli spunti; e infine una discreta preparazione giuridica, perchè l'indagine va calata nel processo e il processo è fatto di regole».
Si occupa di pentiti, anche. Come di quel Francesco Campanella che con le sue rivelazioni sta facendo tremare i polsi a mezza Sicilia. Però li prende con le pinze: «L'approccio deve essere il più laico e distaccato possibile. Servono elementi di verifica su ciò che il collaboratore dice». E ancora: «Spero che l'epoca dai processi fatti solo con i pentiti non ritorni mai più - dice Genchi - Abbiamo visto dei processi che erano dei copia e incolla delle dichiarazioni dei collaboratori, in cui si è quasi svilita l'intelligenza degli investigatori e si è pure abbassato il livello della loro professionalità. Ma sono tempi passati».
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