Forme di intervento nonviolento nella lotta contro la mafia
carnefice e, se possibile, del parente della vittima.
supplemento domenicale de "La nonviolenza è in cammino" n 62 - 26 febbraio 2006
[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi@lycos.com ) per averci
messo a disposizione il seguente intervento, apparso su "Narcomafie",
ottobre 2005. Augusto Cavadi, prestigioso intellettuale ed educatore,
collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di
Palermo, e' impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di
risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano
di problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia.
Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della
consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a
questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo,
Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad.
portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera,
Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad.
portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico,
ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa
puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, nuova
edizione aggiornata e ampliata Dehoniane, Bologna 2003; Il vangelo e la
lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A
scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze
didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1994; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza
cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain
fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo.
Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di
documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce
"Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie,
Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici.
Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000;
Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Volontariato
in crisi? Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003; Gente
bella, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Strappare una generazione alla
mafia, DG Editore, Trapani 2005. Vari suoi contributi sono apparsi sulle
migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito:
http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa)]
Il tema del convegno (Palermo, 21-22 maggio 2005) e' sembrato ad alcuni
talmente provocatorio che si sono rifiutati non solo di parteciparvi, ma
anche solo di esaminare le carte preparatorie (raccolte nel volume a piu'
mani, curato da Vincenzo Sanfilippo, Nonviolenza e mafia. Idee ed
esperienze per un superamento del sistema mafioso, DG, Trapani 2005, pp.
158, euro 14). E, ovviamente, non mi riferisco a borghesi benpensanti del
partito "i-delinquenti-andrebbero-tutti-giustiziati": no, mi tornano in
mente alcune persone - per lo piu' donne, per essere sinceri e precisi - di
formazione democratica e di indubbio impegno civile. Le loro ragioni sono
facilmente sintetizzabili: i mafiosi non sono fuorilegge comuni, illudersi
di poter confrontarsi con loro in prospettiva riconciliativa e' fare del
buonismo irrispettoso delle vittime e dei loro familiari.
Non c'e' dubbio che queste e simili obiezioni meritano d'essere ascoltate
col massimo rispetto intellettuale e morale: altrimenti la discussione
sull'applicabilita' dei metodi nonviolenti alla lotta contro il sistema di
dominio mafioso scade a slogan manieristico, piu' o meno modaiolo. Solo una
considerazione attenta delle obiezioni puo' spingere a formulare in maniera
sempre piu' corretta le ipotesi, teoriche ed operative, su cui ci siamo
basati gli organizzatori del convegno (e su cui, prima ancora, si e' basato
quel gruppo di lavoro che da circa due anni si riunisce a Palermo per
esplorare tale prospettiva).
Dico subito - a scanso di equivoci - che ci muoviamo in un ambito
problematico dove persino fra i promotori della ricerca/azione si e' molto
lontani dall'aver raggiunto l'omogeneita' di angolazione, di vocabolario e
di orientamenti: dunque un ambito in cui chi prende la parola, lo fa a
proprio nome e senza coinvolgere nessun altro compagno di strada. Piu' per
precisare le domande ancora sul tappeto che per configurare le risposte.
Tra i pochi punti abbastanza condivisi, mi sembrerebbe di poter evidenziare
l'opportunita' di distinguere nell'universo mafioso delle situazioni che
sarebbe deleterio continuare a confondere. La condizione oggettiva di chi e'
interno a Cosa nostra (e, in quanto organico a questa o a simili cosche, si
e' macchiato personalmente di gravi reati) non e' identica alla condizione
di quell'ampia fascia sociale di collusi che spalleggiano e sostengono le
attivita' criminali degli "uomini d'onore". Ancora diversa, poi, e' la
situazione di tutte quelle persone (adulti maschi, ma anche donne e
adolescenti) che non hanno compiuto una chiara opzione preferenziale per
Cosa nostra e neppure per la sua area di riferimento abituale, ma che vivono
comunque sulla tenue linea di confine fra il sistema di potere mafioso e
altri mondi vitali considerabili - grosso modo - legali e civili.
Ebbene, se questa tipologia molto approssimativa puo' servire per un primo
orientamento, potremmo chiederci in che senso, e in che modo, sia possibile
mutuare dalla tradizione nonviolenta alcune indicazioni di metodo.
Mi pare chiaro che il settore su cui dovrebbe essere piu' facile accordarsi
e' il terzo: l'area dei cittadini a rischio di contaminazione mentale e
pratica. Il piccolo scippatore di borgata, la ragazza della media borghesia
alla ricerca di un'occupazione remunerata, il docente universitario in
attesa di stabilizzazione: ecco - quasi citate a caso - alcune figure
sociali potenzialmente cooptabili da Cosa nostra e da organizzazioni affini.
(Notare: le esemplificazioni random non riguardano solo le fasce
economicamente disagiate e/o culturalmente deprivate, come usa la
letteratura ancora convinta che la popolazione "a rischio" viva
esclusivamente nei quartieri degradati del centro storico o delle
periferie). Con loro e' necessaria ed urgente un'opera di informazione, di
sensibilizzazione e di formazione etica che le renda avvertite del prezzo da
pagare nel caso che, per alleviare i propri disagi esistenziali o per
accelerare la carriera, dovessero decidere di cercare - o di accettare se
offerta - la protezione dei mafiosi. Nessuno potrebbe essere cosi' cieco da
non vedere l'inopportunita' - o per lo meno l'inadeguatezza - di sventolare
davanti agli occhi di questi soggetti, a scopo preventivo, lo spauracchio
delle incriminazioni giudiziarie e delle possibili pene detentive. Di
contro, alcune recenti vicende - se, come sembra, le confessioni di una
collaboratrice di giustizia corrispondono a verita' - confermano questa
convinzione: una donna di mafia ha abbandonato l'organizzazione, sollecitata
dalle figlie adolescenti ad intraprendere la via della dissociazione e della
legalita'. A loro volta, le ragazzine erano state messe in crisi da
stimoli - mirati - ricevuti nell'ambito della scuola.
Piu' problematico e' invece il consenso sul secondo settore: l'area dei
cittadini contigui con le organizzazioni mafiose e che hanno gia' attivato
con esse rapporti stabili (dallo spacciatore di stupefacenti al bancario
riciclatore di denaro sporco, dall'assessore che pilota l'assegnazione degli
appalti pubblici all'avvocato-parlamentare che propone leggi a misura dei
propri clienti in stato di detenzione). Non c'e' dubbio che con questi
soggetti, navigati ed incalliti, la scommessa si fa piu' ardua. Qui piove
dunque a proposito l'avvertenza di fondo che sottende tutta questa
iniziativa sperimentale: non si tratta di negare nulla, tanto meno la forza
dissuadente della Magistratura e delle Forze dell'ordine, ma di affermare
una risorsa in piu'. Le quattro marce del motore tradizionale,
istituzionale, vanno adoperate tutte: si tratta di attivare una quinta
marcia, la leva tipica della societa' civile, della scuola,
dell'associazionismo laico, delle comunita' religiose (non solo cattoliche).
Nessuna illusione illuministica, per carita': si puo' benissimo spiegare ai
fiancheggiatori dei mafiosi che stanno facendo un affare apparentemente
conveniente, alla distanza disastroso, senza per questo convincerli
dell'errore. In ogni caso, la convinzione mentale non significa
automaticamente decisione di troncare rapporti, relazioni, patti che - in
cambio della liberta' - assicurano piu' denaro e soprattutto piu'
possibilita' di incidere nei meccanismi maggiori e minori del potere.
Eppure, la carta del confronto dialettico va tentata: con i pochissimi
interlocutori che accettassero di confrontarsi, con i molto piu' numerosi
che restano nell'ombra ma a cui certi messaggi arrivano comunque. Non so se
questa strategia implica una fede nell'uomo, nella sua umanita' sepolta
sotto un cumulo di pregiudizi e di ambizioni corrotte: ma se di fede si
tratta, non e' necessariamente una fede teologica. Tanto meno confessionale.
Kant parlerebbe di una fede filosofica, di una fede razionale.
Se qualche problema in piu' pone il settore dei collusi, ancora piu' gravi
sono gli interrogativi davanti alla proposta di applicare i metodi gandhiani
al rapporto con gli uomini e le donne che sono entrate a far parte
organicamente di Cosa nostra (o di altre organizzazioni di stampo mafioso) e
che si sono resi responsabili di abbondanti delitti occasionali e
sistematici. Siamo in un campo cosi' minato che risulta quasi impossibile
evitare di sbagliare per una parola in piu' o in meno. La parola in piu'
l'hanno pronunziata, a mio sommesso avviso, quei preti che - in varie
circostanze, fra cui un recente sondaggio - hanno dichiarato che per la
Chiesa cattolica c'e' una differenza irriducibile fra "reato" e "peccato":
poiche' il primo e' misurabile e giudicabile dalle istituzioni statali ed il
secondo solo dall'Onnipotente, i pastori dovrebbero prescindere dalle
valutazione giudiziarie e rapportarsi con i mafiosi come con qualsiasi altra
persona potenzialmente convertibile alla grazia divina (per esempio
recandosi nei loro rifugi di latitanti e amministrando i sacramenti). Al di
la' delle lodevoli intenzioni soggettive di chi sostiene simili prospettive,
non si puo' accettare una frattura cosi' netta fra la logica civile e la
logica ecclesiale. Il "peccatore" davanti a Dio e' tale anche davanti ai
fratelli: che sono fratelli in senso religioso, ma anche e prima ancora
concittadini. Una eventuale conversione interiore non puo' dunque
"bypassare" la necessita' di chiedere, preliminarmente e pubblicamente, il
perdono della comunita' offesa (comunita' ecclesiale ma anche e prima ancora
civile) nonche' di far di tutto per rimediare ai danni procurati (almeno sin
dove cio' e' possibile: nessuno puo' far risuscitare le vittime che ha
assassinato) e per evitare (mediante la piu' ampia collaborazione con le
istituzioni statali) che i propri complici nel crimine continuino a
perpetrare altri danni.
Ribadita con tutta l'energia opportuna la necessita' di non separare
schizofrenicamente il punto di vista etico da quello giuridico, va pure
riconosciuto il pericolo opposto: la riduzione del reo al reato, la
cancellazione di ogni barlume di dignita' e di ragionevolezza dall'immagine
che i "buoni" si fanno dei "cattivi". Lo Stato, probabilmente, deve
privilegiare il caso giudiziario (astratto) rispetto alla storia individuale
(concreta): ma lo Stato non si identifica tout court con la societa'. I
giudici hanno il diritto, e in alcuni casi il dovere, di chiudere in gabbia
Riina o Bagarella e di gettare la chiave in mare: ma l'associazionismo,
laico e religioso, ha il diritto, e in alcuni casi il dovere, di tuffarsi in
mare per ripescare la chiave. Per aprire le porte delle carceri: non certo
per far uscire chi vi e' dentro dopo regolare processo (con tutti i limiti
inevitabili ad ogni giustizia mondana), ma per far entrare chi abbia voglia
e competenza per attivare un dialogo con i detenuti. Le risorse della
nonviolenza non hanno di mira sconti di pena o indulti (che appartengono
comunque alla logica giuridico-istituzionale), quanto promuovere la pace del
carnefice e, se possibile, del parente della vittima. La pace del carnefice
se accetta di prendere consapevolezza delle ferite inferte, se accetta di
fare della propria detenzione un'occasione di espiazione e possibilmente di
testimonianza sociale (qualche camorrista "pentito" ha provato per esempio a
dissuadere i giovani del quartiere dall'intraprendere la stessa strada); la
pace del parente della vittima se accetta - sulla base di argomentazioni
religiose o semplicemente etiche - di liberarsi lentamente da ogni
comprensibile sentimento di odio e desiderio di vendetta.
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