il commento

Droghe, la mortale segregazione

16 dicembre 2006
Luigi Ciotti
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Di droga, si sa, si può morire. Con la siringa nel braccio o con l'infezione che scava silenziosa e inesorabile dentro il corpo. Solo in Italia, dal 1973 al 2005, sono stati 20.101 i morti per overdose, e almeno altrettanti sono i tossicodipendenti morti per Aids. Una strage dimenticata, un eccidio di mafia di fronte al quale troppo facilmente si chiudono gli occhi. E talvolta le porte, con robusti catenacci. È quanto è successo a Mosca, lo scorso 9 dicembre: 43 giovani donne tossicodipendenti morte, assieme a due inservienti, nel rogo di una struttura somigliante più a un carcere che a una clinica o a un ospedale. Morte come i topi, chiuse a chiave nelle stanze, asfissiate dai gas tossici sprigionati dalla combustione, mentre, aggrappate alle sbarre delle finestre, cercavano una salvezza che non è arrivata. Sarebbe bastato poco, era sufficiente aprire le porte, ce n'era tutto il tempo, ma il personale non lo ha fatto; per paura e forse anche perché la logica del rinchiudere si fa lenta e restia quando si tratta invece di liberare. La porta sbarrata rassicura sul fatto che il mondo della «normalità» e quello della «devianza» sono rigidamente separati. Anche le sbarre possono uccidere, come e più della droga. Si può morire, dunque, anche per un modo sbagliato di trattare la questione delle droghe. Un modo che punta a segregare, anziché a aiutare, a nascondere invece di accompagnare quelle persone, avendone cura. E per curare non basta custodire. La parola custodia è ambivalente: richiama sia il controllo che il tenere da conto. Ma si può custodire una cosa, mentre della persona ci si deve occupare. In Russia, ma anche in altri paesi dell'Est, coloro che assistono le persone tossicodipendenti si chiamano guardiani, ma anche se si chiamassero, come da noi, operatori, non cambierebbe molto se non cambia la logica che presiede alla gestione di quelle strutture e la cultura con la quale si guarda al problema delle droghe. La libertà è terapeutica, la responsabilizzazione è una medicina più potente dei farmaci. Educare è più faticoso del punire, ma enormemente più efficace, oltre che più giusto. Questa tragica vicenda russa, che è passata fugace sulle pagine dei nostri giornali, è emblematica. Fa venire in mente situazioni simili, che abbiamo conosciuto più da vicino, come l'incendio della sezione femminile del carcere di Torino, il 3 giugno del 1989. Anche lì persone uccise dal fuoco e dal fumo, nove detenute e due vigilatrici, che si sarebbero potute salvare se le porte non fossero rimaste sbarrate. Il rogo del 9 dicembre è avvenuto tra l'altro alla vigilia della Giornata mondiale per i diritti umani, celebrando così tragicamente il loro contrario: la negazione del diritto alla cura, alla dignità, alla stessa vita. Il 9 dicembre dovrebbe allora restare nella memoria e anzi diventare anch'esso una ricorrenza, un monito a non dimenticare mai che le persone non possono essere trattate come cose, ridotte a oggetti. Mai. Perché la loro umanità è inalienabile e va difesa e riconosciuta sempre, ai deboli e ai forti, ai sani e ai malati, ai ricchi e a chi è povero. A tutti e a ciascuno. Perché l'umanità di ciascuno di noi si rispecchia in quella di ogni altro, e solo così diventa vera e piena.

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