E la mafia incendia il campo di calcio del centro di don Puglisi
«Sono appena tornato dal convegno delle Acli a Orvieto sui luoghi dell'abitare dove abbiamo parlato tanto di sicurezza, e mi hanno appena comunicato che qui a Palermo hanno incendiato il campo da calcio del nostro centro. Ma dov'è la sicurezza?». E' un commento amaro quello di Antonino Di Liberto del centro Padre Nostro fondato da don Pino Puglisi, il prete siciliano ammazzato il 15 novembre 1993 dalla mafia.
E' successo poco prima delle cinque di ieri pomeriggio, mentre a Palermo si svolgeva la manifestazione contro la mafia per esprimere solidarietà al giornalista dell'Ansa Lirio Abbate, minacciato dopo la pubblicazione del libro «I complici» in cui si denunciano gli appoggi politici di cui ha goduto il boss Provenzano. E a pochi giorni dall'apertura della settimana in memoria di don Puglisi per il quattordicesimo anniversario della sua uccisione. Qualcuno, pare, ha dato fuoco a dello sterco. L'incendio si è mangiato 500 metri quadrati del campo da calcio in cui gli operatori del Padre nostro portano a giocare i bambini. E' la seconda intimidazione in pochi giorni: l'altro ieri mani anonime hanno tagliato alcuni alberi in un terreno del centro. Un'éscalation partita a luglio, quando il responsabile del centro ricevette una telefonata anonima: «Ti ammazziamo». La notizia finì sul tiggì. Il giorno dopo, furono tagliate le quattro ruote di uno dei pulmini usati dagli operatori.
Sta succedendo qualcosa? «Dopo quello che è accaduto all'imprenditore di Catania, dopo quello che sta accadendo qui, dico che questi segnali vanno attenzionati. Se abbiamo paura? Sarei ipocrita a dire di no. Ma non è la prima volta che siamo bersaglio di attentati, eppure la nostra attività non ha mai indietreggiato. Perché questo centro non è mica fatto da me, o dal responsabile, o dagli operatori. Ci sono centinaia di persone che partecipano e tengono viva la nostra attività. Qui nessuno indietreggia». Eppure le intimidazioni continuano: «Quello che facciamo dà fastidio. Perché noi ci siamo. Perché siamo punto di riferimento per le famiglie e per i bimbi del quartiere Brancaccio. E lo sa perché siamo noi i punti di riferimento? Perché non ce ne sono altri».
E' da qui che parte Di Liberto per parlare di «sicurezza» «Non si può parlare di sicurezza in generale, io non ci sto. E' chiaro che qualsiasi persona vuole avere la certezza di arrivare a casa incolume. Ma quello che serve a Padova, a Firenze, a Palermo o a Reggio Calabria, è diverso». Per Di Liberto, per esempio, c'è poco da fare: «Qui a Palermo ci vuole l'esercito». Una proposta forte: «Chi dice di no, mi deve proporre un'alternativa seria. Perché qui il controllo del territorio non ce l'ha lo Stato, ce l'ha qualcun altro. Serve un presidio istituzionale. Ma serve uno Stato che non sappia solo essere repressivo. Per i bambini del Brancaccio lo sbirro è quello che alle cinque di mattina bussa a casa per portargli via il padre. E allora ci vuole anche un volto dello Stato che sappia aiutare, sostenere, offrire attività sociali, fare cultura».
E' preoccupato Di Liberto per un dibattito sulla sicurezza «fatto a sproposito. Bisogna stare attenti a fare proclami. Se la prendono con i rom, con gli immigrati, con i lavavetri, ma questo è pericoloso. Perché da un lato crea ancora più insicurezza nelle persone. Non trasmette il messaggio che lo Stato sa colpire chi commette reati, come mandare i bambini a fare l'accattonaggio, non i rom in generale. Dall'altro perché la politica usa i paroloni, i "faremo" e poi non fa, dando l'immagine di un'istituzione immobile, incapace. E' proprio così: lo Stato usa il futuro, la mafia invece il presente. C'è, qui e ora». Così succede «che la gente si chieda chi è lo Stato, dov'è. Capita anche a me. Sarò volgare, ma a me sembra che tutti questi paroloni alla fine vanno in culo alla povera gente». Tra cui ci sono anche gli abitanti del Brancaccio, il quartiere dove era nato don Puglisi e anche il suo assassino, Salvatore Grigoli. «L'altro giorno, quando siamo arrivati con la polizia nel luogo in cui erano stati segati gli alberi, dove nessuno ha sentito niente, la gente ci ha detto "che ci fate qui?" Succede ancora questo. Eppure questo è un quartiere di gente per bene, che manda i figli nel nostro centro, perché crede in una speranza. Quella di don Puglisi che diceva: non facciamo delle cose per cambiare il mondo, ma per offrire una testimonianza a chi di dovere che si può».
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