Cinema e rivoluzioni private. I fatti di Avola

1 gennaio 2008
Giovanni Di Maria

Una sera d'autunno del 1969 il cinema "Cappello" di Avola dava Sotto il segno dello Scorpione di Paolo e Vittorio Taviani. Il film, usando un linguaggio sperimentale non privo di riferimenti a Brecht e Godard, raccontava, in un'ambientazione e in un tempo imprecisati, ma con richiami a un Mediterraneo ancestrale e a rituali arcaici del mondo pastorale sardo, lo scontro senza storia tra due gruppi tribali: l'uno conservatore, l'altro rivoluzionario e votato all'utopia.
La pellicola, quell'anno, piacque molto a Parigi. Molto meno ai braccianti avolesi che, come ogni sera, affollavano il più frequentato cinema del paese, oggi sede di una banca.
Il film - a pochi mesi di distanza dalle proteste culminate nell'eccidio del 2 dicembre 1968 - diede l'avvio ad un ulteriore, piccolo e fortunatamente meno drammatico, episodio di sollevazione popolare: dopo un quarto d'ora del secondo tempo, i primi spettatori cominciarono ad essere infastiditi dalla trama della pellicola (c'era evidente la narrazione di un conflitto, ma non si definivano ruoli precisi e non si andava verso un climax); qualcuno del pubblico cominciò ad alzare la voce chiedendo (a quei tempi era un fatto comune) la restituzione dei soldi del biglietto; le lamentele aumentarono montando in una protesta generalizzata. Il film dei Taviani continuava a scorrere implacabile tra i fischi e le urla degli spettatori: i più esasperati cominciarono a staccare le prime poltroncine dal pavimento; l'intervento della maschera (il signor Dugo che aveva una magnifica faccia da western classico) rese la protesta ancora più violenta. Qualche sedia, oramai divelta, volò in aria. Il cinema stava ormai per essere smantellato quando arrivò, chiamato d'urgenza, Giovanni Cappello, il proprietario della sala, il quale, con invidiabile autocontrollo, propose una soluzione negoziale: come risarcimento sarebbe stata immediatamente fermata la proiezione del film dei Taviani e, di seguito, si sarebbe proiettato Gringo con Giuliano Gemma. La proposta venne accolta con entusiasmo, e andò così che il cinema Cappello fu salvato dalla distruzione.
Il destino avolese del film di Paolo e Vittorio Taviani mi ha fatto pensare spesso allo scollamento tra le proteste del sessantotto in provincia di Siracusa, culminate nella tragedia dell'uccisione di due lavoratori, e i fermenti che in quegli anni animavano il mondo intellettuale italiano ed europeo, le rivendicazioni studentesche e operaie, il mito dell'immaginazione al potere, i movimenti che stavano interessando quasi l'intero pianeta. A distanza di anni, si riesce forse a comprendere meglio come i morti di Avola - benché avessero contribuito ad alimentare un clima generale di lotte e progetti politici di vasta portata - fossero legati a quei fermenti e a quelle utopie solo in piccola parte.
Avola, dopo le lotte bracciantili, lungi dal diventare uno dei poli effettivi di questi movimenti - il laboratorio cioè di un cambiamento sociale, culturale e politico - era rimasta, negli anni immediatamente successivi al '68, essenzialmente un simbolo, abilmente usato nel giuoco (già "mediale") della grande politica nazionale, nelle suggestioni della propaganda d'opposizione, nella negoziazione di vertice e nelle elucubrazioni degli intellettuali. Credo che nessuno, nei partiti e nei movimenti della sinistra nazionale e locale, dopo i Fatti del 2 dicembre, sia riuscito a interrogarsi davvero sul senso effettivo di quegli avvenimenti - sul loro carattere radicale e insurrezionale - e abbia cercato una risposta locale a una forma di lotta che aveva espresso un'istanza di cambiamento molto più profonda di quanto allora si era voluto credere.
Durante lo sciopero, gli schemi della mera rivendicazione salariale in realtà erano saltati, non solo perché alla fine c'erano stati dei morti di mezzo, ma, probabilmente, per il significato che la virulenza delle rivendicazioni aveva assunto dal punto di vista degli scioperanti: il paese per alcuni giorni era stato davvero in mano ai braccianti che stavano dando una palese dimostrazione di forza e consapevolezza, mostrando, senza equivoci, un cambiamento irreversibile della loro mentalità e il rifiuto netto di rimanere ancora legati a un ruolo arcaico e subalterno.
La propaganda e i media del tempo preferirono, invece, spostare l'enfasi sui morti, sulla violenza di Stato, sul dolore, sulle eterne ferite del sud, e scordarsi della vitalità e dell'entusiasmo dei giorni che avevano preceduto l'eccidio. I protagonisti orgogliosi di una rivolta erano diventati vittime innocenti; il proletariato meridionale ritornava così ad essere inerme e umiliato. Ogni cosa era tornata al suo posto e si poteva riaffermare una visione del mondo bracciantile siciliano che, a questo punto, serviva a tutti tranne che ai diretti interessati. Certo, secondo la logica del conflitto, quei morti non furono inutili se anche da quelle vittime, oltre che dagli scioperi nelle fabbriche del nord nel 69, scaturì in Italia una normativa nuova e più avanzata in materia di tutela del lavoro come lo "Statuto del lavoratori". Il bracciantato di Avola, tuttavia, non avrebbe smesso di aspirare a un potere effettivo né avrebbe abbandonato le proprie spinte a un'emancipazione piena che andava al di là della mera tutela sindacale. Avrebbe semplicemente trovato un altro percorso, si sarebbe staccato dalle ideologie correnti della sinistra per seguire un'altra politica trovando una vocazione propria, efficace e tremendamente pragmatica, che avrebbe portato comunque a una maggiore partecipazione democratica di un ceto fino ad allora condannato - nell'interesse di molti - a rimanere subalterno.
Dopo il 2 dicembre del '68 il paese delle mandorle e dei braccianti assassinati non fu più lo stesso, ma non nel modo delle lotte bracciantili emiliane, dell'affermarsi della cooperazione e del diffondersi di una coscienza sociale guidata dagli intellettuali del P.C.I.
Avola cambiò radicalmente, ma a modo suo.
I ceti subalterni, che in pochi anni erano usciti da una condizione arcaica di sudditanza ed erano insorti guadagnandosi una visibilità mondiale, sparirono presto dalla scena politica locale e dall'immaginario della sinistra intellettuale come un'ultima proiezione di quelle "masse" contadine meridionali che occupavano le terre chiedendo pane e lavoro (e alle quali, per tutta risposta, le prime riforme agrarie del dopoguerra avevano assegnato minuscoli, siccitosi, inutili terreni, ubicati nelle zone più impervie dell'Isola e impossibili da coltivare). I braccianti avolesi delle barricate e degli scioperi ad oltranza si dissolsero come gruppo socialmente omogeneo: nel corso di pochi anni, dalla massa bracciantile emersero singoli individui pragmaticamente impegnati nell'agricoltura, nel commercio, nell'assicurare istruzione e redditi adeguati ai propri figli; persone pronte anche a tuffarsi nei commerci più spericolati e negli intrighi della politica clientelare, ma comunque non più disponibili a delegare il potere ad altri. Gente insomma che non voleva ancora aspettare un progetto di sviluppo locale fondato sull'equità sociale (che peraltro non sarebbe mai arrivato) o l'ancora più improbabile avvento di una rivoluzione mondiale e la nascita di una società nuova che avrebbe stabilito, una volta per tutte, la giustizia su questa terra.
Non più subalterno per mentalità (i fatti di Avola furono un'evidente prova di coraggio, di forza e d'indipendenza) il proletariato avolese seppe trovare delle soluzioni immediate e concrete (poteva fare qualcos'altro?) confrontandosi subito con i poteri costituiti del tempo, con quell'ameba sorniona che era la Democrazia Cristiana nell'Italia degli anni '70 la quale, da parte sua, seppe cogliere il significato di un cambiamento irreversibile avvenuto nell'economia agricola locale dove, ormai, si erano aperte delle consistenti brecce nel muro che divideva i proprietari dai braccianti. D'altra parte l'economia locale favoriva questo progressivo affrancamento del lavoro, essendosi sviluppata, più che sul latifondo, sui piccoli proprietari, sui terreni presi in affitto, su una pletora di figure intermedie e di intermediari che la piazza del paese, la sera, mostra ancora in un caleidoscopio di attività, vendite, scambi, accordi, talvolta di piccola entità ma comunque espressione di un'autonomia e di una economia "in proprio".
Oggi tendiamo a ricordare i fatti di Avola come un momento del '68, come l'espressione di un periodo pieno di fermenti nel quale tutto sembrava potesse accadere, anche il miracolo di una ricucitura tra i bisogni del bracciantato meridionale e le spinte culturali, intellettuali, artistiche che, contraddittorie finché si vuole, influenzarono il costume e la politica in mezzo mondo.
E' possibile che qualche riverbero di quel clima fosse giunto fin quaggiù; tuttavia, più di ogni spinta ideologica, nell'evolversi di una coscienza (non solo sindacale) tra i lavoratori avolesi, poterono di certo due indimenticabili motocicli: un piccolo e lento Motom rosso (50 c.c., tre marce) e un più sportivo e veloce Itom, in genere di colore giallo, (50 c.c. quattro marce). Senza l'adozione di questi due motocicli, essenziali ed economici, seimila lavoratori, ogni mattina all'alba, non avrebbero potuto raggiungere le campagne dove operavano le aziende più ricche e spostarsi agevolmente alla ricerca delle migliori condizioni di lavoro.
La motorizzazione, già alla metà degli anni'60, aveva assicurato ai braccianti una mobilità prima impensabile e una conoscenza diretta del mercato del lavoro che avrebbe contribuito in modo decisivo alla loro progressiva emancipazione e a un cambiamento visibile nella vita e nell'economia di Avola.
Oggi per le strade del paese non spernacchiano più le piccole, petulanti marmitte degli Itom e dei Motom dei braccianti. La motorizzazione ha l'aspetto giovanile e trionfante di grotteschi chopper Harley Davidson (e succedanei giapponesi) i cui easy riders consumano improbabili avventure in uno spazio che non supera il chilometro, mischiandosi, nel percorso di un unico breve tragitto, allo sciamare caotico di migliaia di scooter e motocicli e a centinaia di automobili che, pazientemente incolonnate, partecipano alla stessa incredibile kermesse
Si tratta di un fenomeno strano e peculiare, forse unico al mondo: per puro diporto, ogni sera, in una sola strada del paese, viene inscenato un traffico vario, confuso e intenso come quello di alcune città del sud est asiatico. Il viale Lido, avvolto in una impressionante nube tossica, viene percorso per ore, ossessivamente, più e più volte, da migliaia di ragazzi motorizzati che vi si ritrovano per condividere l'insolito piacere di creare traffico e inalarne i densi gas di scarico.
I figli e i nipoti dei braccianti di Avola - ormai confusi in una massa giovanile che sembra piuttosto omogenea - ricorrendo all'assurdo di esibire una motorizzazione sterile, che invece di assicurare loro libertà e mobilità, si esaurisce in se stessa, mandano oggi segnali oscuri, molto diversi dalle proteste esplicite dei loro genitori e dei loro nonni che, spostandosi sui Motom, avevano cominciato a capire come va il mondo.
Vi è un senso in tutto questo?
Il segno più visibile del fenomeno è di certo l'occupazione e l'espropriazione di una strada in un quartiere ritenuto borghese dove, ogni sera, puntualmente, si esibiscono la noia, il malessere e, talvolta, la rabbia delle generazioni più giovani.
Si esprime così il desiderio di appropriarsi, anche simbolicamente, di qualcosa? E' questo un segnale rivolto alla borghesia locale, provocata, turbata e disturbata nella sua "roccaforte"? Ma poi, ad Avola, ci sono davvero luoghi della borghesia e una borghesia che possa dirsi tale?
In ogni caso è il carattere squisitamente avolese del fenomeno "viale Lido" a sorprendere e far riflettere.
Forse ancora una volta, come ai tempi della rivolta al cinema Cappello, una realtà particolare può essere lontana da una cultura, condivisa, della contemporaneità. In questo senso non andrebbe trascurato il carattere specifico (una volta si diceva sottoculturale) del comportamento giovanile locale, le cui espressioni, con buona probabilità, appartengono più al disagio di un mondo rurale in evoluzione che alla crisi di valori propria della complessità che caratterizza le società post industriali. Il caso del viale Lido, probabilmente, esprime, in modo alquanto originale, una tensione interna alla comunità. Un conflitto, ancora latente e dai contorni tanto vaghi quanto surreali, che parte da un uso sconcertante del "tempo libero" nel ghetto giovanile del paese dove si inviano segnali in un linguaggio non parlato ma fatto di urla, rumori, marmitte dai decibel illegali e impianti stereo tenuti a volumi impossibili dentro auto trasformate in discoteche ambulanti.
Saprà Avola rispecchiarsi e riconoscersi in quest'incubo, coglierne il senso e cercare risposte? Trovare in esso il nucleo di un'istanza, come almeno, un tempo, seppe fare la vecchia D.C. locale coi braccianti?

Email dell'autore: giovannidimaria5@virgilio.it

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