Mafia e brigantaggio in Sicilia: discussioni dopo l'unità d'Italia.

8 gennaio 2008
Carlo Ruta

L'unificazione del paese, con i suoi controversi risvolti, crea le condizioni perché erompano e assumano una inedita visibilità il malessere e i bubboni sociali delle regioni meridionali, e della Sicilia in particolare. E se i nuovi saperi sociologici, con l'ausilio degli strumenti statistici, consentono di rilevare meglio che in passato le differenze territoriali, il consolidamento di una informazione che s'interessa costitutivamente dell'intero paese, servita dall'agenzia Stefani, contribuisce in modo risolutivo alla elaborazione di conoscenze che potevano riuscire poco componibili agli osservatori della Sicilia prima del 1860.

A sollecitare l'attenzione verso le cose dell'isola concorrono le difficili situazioni di terreno, come il brigantaggio, la renitenza alla leva, l'insofferenza diffusa verso le nuove potestà, che erompe sovente in rivolta. L'impressione di un largo distinguo siciliano, più o meno compatibile in una chiave strategica con le movenze istituzionali dell'italia sabauda, viene corroborata comunque da una serie di eventi specifici, alcuni dei quali particolarmente clamorosi, come l'eccidio palermitano dei pugnalatori, l'assassinio del generale garibaldino Giovanni Corrao, il rapimento dell'industriale britannico John Forester Rose da parte del brigante Antonino Leone, che apre un vero e proprio scontro diplomatico fra il governo inglese e quello italiano, sospettato di complicità con la Sicilia fuorilegge.

Sul campo, una radicalità del tutto inedita assume poi la sfida del procuratore del re a Palermo Diego Tajani, di provenienza calabrese, quando si rende conto che il questore Giuseppe Albanese e lo stesso prefetto Luigi Medici si servono di bande di malfattori per eliminare boss irriducibili e, addirittura, oppositori politici di parte democratica. Il caso giunge comunque al culmine nel luglio 1871, quando il procuratore ordina l'arresto di Albanese, accusandolo di aver fatto assassinare un malandrino di Monreale. Inaugurando una tradizione, Tajani finisce con il pagare il suo gesto temerario con le dimissioni dalla magistratura dopo l'ovvia assoluzione del questore per insufficienza di prove, ma le sue requisitorie, fatte circolare ampiamente in opuscoli, e i discorsi parlamentari, dopo che viene eletto deputato nel collegio di Amalfi, sicuramente slargano l'orizzonte conoscitivo delle "società di malfattori".

In via ufficiale, intorno alla metà degli anni settanta la situazione viene affrontata a vari livelli. La destra ne approfitta per emanare, a firma del ministro degli Interni Girolamo Cantelli, una serie provvedimenti straordinari, che finiscono con l'incentivare nelle aree interessate la repressione indiscriminata. L'opposizione censura le misure del governo, ma, come danno conto anni di dibattito in parlamento, si mostra determinata nel riconoscere e denunziare la drammaticità della questione. I due schieramenti concordano in ogni caso sulla necessità di investigare la sostanza del bubbone, che intanto viene doviziosamente rapportato, nelle province centro-occidentali dell'isola, dai prefetti Rasponi, Berti, Fortuzzi, Cotta Ramusino.

La commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni della Sicilia istituita nel 1875 alimenta ovviamente delle aspettative importanti. Chiusi però i lavori l'anno successivo, con la relazione ufficiale del deputato di destra Romualdo Bonfadini, gli esiti appaiono deludenti. Non si giunge a definire cosa sia realmente la mafia, né si osa chiarirne i punti di contatto con i ceti dirigenti, benché si abbia alle spalle la vicenda Albanese-Medici, portata all'evidenza dal Tajani. Non c'è comunque tempo per lamentare l'occasione perduta perché nello stesso 1876 esce per la casa editrice Barbera un'inchiesta che non reca l'imprimatur dello Stato, e che segna nondimeno una vera e propria svolta. Ne sono autori gli aristocatici toscani Raimondo Franchetti e Sidney Sonnino.

La mafia viene rappresentata come industria del delitto, espressione di un ceto medio di facinorosi che non riconosce di fatto il monopolio della forza esercitato dallo Stato. Ne vengono spiegate le compenetrazioni con i poteri ufficiali, portando a esempio la vicenda Albanese-Medici, e non solo. Con una doviziosa analisi del latifondo e delle sue fosche consuetudini, viene illustrato quanto la modernizzazione della Sicilia si sia dovuta fermare davanti al prepotere del ceto dominante, l'unico a far arrivare la sua voce fuori dall'isola arrogandosi di rappresentarla tutta. Viene contestata la tesi sull'ingovernabilità dei siciliani per una loro supposta insularità d'animo, imputandola invece alle condizioni d'indigenza in cui è ridotta, per interessi dolosi, gran parte della popolazione. Viene denunziato lo sconcio del carusato nelle miniere dello zolfo. Sulla linea del trascorso illuminismo meridionale, viene chiarito quanto le defezioni dei ceti borghesi e, in particolare, degli uomini di legge aiutino a perpetuare le calamità dell'isola.

In Italia e all'estero il lavoro di Franchetti e Sonnino riscontra un credito larghissimo, tanto da divenire un riferimento d'obbligo per tutti coloro che vanno occupandosi dei bubboni del sud. Numerosi viaggiatori stranieri arrivano addirittura a correggere il tradizionale tour per poter conoscere di persona, nelle miniere dell'entroterra agrigentino, la condizione dei carusi. Ma la reazione del ceto dirigente è furibonda. I due libri, concessi in pubblicazione alla stampa locale, vengono considerati romanzi fantastici, lesivi all'onore dell'isola e dei suoi abitanti. E di lì in avanti uguale considerazione finisce con il ricevere ogni altra esposizione che si ponga nella prospettiva della denunzia. Si apre in definitiva un iter lungo di rifiuto, cui finiscono con l'aderire, a beneficio delle classi conservatrici, nomi illustri della letteratura nazionale, come Luigi Capuana e Giovanni Verga.

Il verismo siciliano, cui non spetta beninteso la certificazione e la chiarificazione del fenomeno mafioso, di certo contribuisce a rendere visibili i contrasti sociali e la condizione dei diseredati, ma diversamente dal realismo francese, zoliano in particolare, stenta a esondare, quale atto d'accusa, dalla letteratura alla vita civile. Le opere verghiane della maturità riescono a restituire in sostanza l'humus profondo della Sicilia. Al pari di quelle del Capuana, appaiono quindi consonanti alle inchieste sociali e agrarie del secondo Ottocento, come è del resto nei codici delle narrative realistiche. Nel passaggio dalla letteratura al concreto si ravvisano tuttavia gesti inconseguenti, come possono esserlo il silenzio e, più ancora, l'invettiva sicilianistica, che porta il narratore di Mineo a censurare le maggiori investigazioni sull'isola quali concentrati di luoghi comuni, più o meno interessati.

Tratto da "La Sicilia e il brigantaggio" di Luigi Capuana a cura di Carlo Ruta, Edi.bi.si., Messina.

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