L'insostenibile pesantezza di certe consulenze

Thyssen Krupp, oltre a una perizia

13 maggio 2009


Il processo Thyssen procede. Qualche testata aggiorna i lettori riportando la cronaca delle numerose fasi dibattimentali. Molte si limitano ad aspettare la sentenza, dopo aver riportato i punti salienti dell'inizio processuale, l'orrore delle testimonianze e le ricostruzioni video degli arsi vivi. L'attenzione si concentra più sul raccapriccio che sull'analisi di un evento da considerarsi tragedia nazionale, "scandalo della democrazia", come la definisce il sociologo dell'industria Luciano Gallino e possiamo pure comprendere che per vendere giornali occorra parlare di ciò che più acchiappa. Il fatto di cronaca in sè è stato ampiamente sviluppato. Resta carente la riflessione sulla vicenda e gli umani che ogni giorno proseguono a morire sul (per) lavoro lo dimostra.
Abbiamo letto la perizia depositata dal perito Ing. Massimo Zucchetti*. Ha ricevuto l'incarico da una quarantina d'operai Thyssen che si sono costituiti in giudizio. Un gruppo è stato trasferito a Terni, una parte ha trovato lavoro in altre aziende e la restante è in cassa integrazione. Tutti appartengono all'associazione 'Legami d'Acciaio' **così come i familiari delle sette stelle rosse (Antonio, Giuseppe, Rocco, Roberto, Angelo, Bruno, Rosario) uccise da una morte tra le più orribili, una dopo l'altra. Il documento di Zucchetti è un'ampia raccolta di dati tecnici perchè stiamo parlando di macchinari da processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in movimento: mostri giganteschi che per non far danni abbisognano di sofisticate manutenzioni ordinarie e straordinarie in sinergia con la totale concentrazione dell'uomo capace a conviverci. Gli chiediamo di accompagnarci nella lettura del documento. I dati evidenziano come tutta la linea del macchinario avrebbe dovuto essere e come invece era ridotta quella della Thyssen. Il perito è costretto ad andare oltre, sempre nell'ambito del suo incarico, perché l'oltre è legato alla capacità dell'uomo, capace si di lavorare con la macchina in perfetto stato e che ben conosce, ma impotente e costretto a improvvisare se quella macchina è minacciata da una serie di agguati. Infatti per gli operai della linea 5 l'ordinaria amministrazione consisteva nell'usare estintori manuali per spegnere i numerosissimi (ordinariamente assurdi) incendi. Al momento del rogo non bastarono anche perché molti erano pressoché scarichi, nonostante le continue ricariche. Il tutto senza mai interrompere la produzione. Concetto profondamente radicato da precise indicazioni al riguardo, era l'indispensabile bisogno di proseguire sempre, mai azionare il pulsante d'emergenza: sopperire autonomamente a qualunque problema. Le squadre di sicurezza e antincendio erano insufficienti o inesistenti, costitute da personale che non aveva completato l’addestramento antincendio previsto dalla legge. Quegli uomini sono stati lasciati soli, soli con quella macchina e sono morti insieme a lei.
Chiediamo a Zucchetti quante perizie ha redatto nella sua carriera. Risponde che, nell'ambito della sicurezza sul lavoro, almeno dieci anche come consulente tecnico del giudice istruttore. Tutte si basavano su minuziosi particolari tecnici al fine di accertare le eventuali colpe oggetto di causa. Il caso Thyssen è assolutamente a se stante. Le colpe trattano d’imperizia, di negligenza, d’imprudenza. Per la Thyssen si va oltre: non si poteva non sapere che il tutto avrebbe ucciso. “Una strage più che annunciata, voluta” risponde cercando le parole, ma gli vengono solo queste. L’unica risposta che Zucchetti non si riesce a dare è come l’evento si sia manifestato con tale ritardo, viste le condizioni, in evidente e persistente violazione di ogni norma di sicurezza, in cui funzionava tutto l’impianto. http://staff.polito.it/massimo.zucchetti/Relazione_Thyssen_Zucchetti.pdf

Ci confida che ciò che ha trovato è inimmaginabile, piazzabile giusto tra gli incubi peggiori. Mostra le foto, ha ritenuto assolutamente inutile corredarle di didascalia, parlano da sole. Una ci colpisce in modo particolare. Un armadietto giallo, sopra sta scritto "attrezzatura antincedio". E’ chiuso da un lucchetto. Nessun operaio aveva la chiave. Qualcuno (forse Boccuzzi) ha cercato prima di sfondarlo a pedate, poi con un muletto, mentre i suoi compagni urlavano avvolti dalle fiamme. Siccome quell'armadio opponeva resistenza, ha dovuto lasciar perdere. Quell’armadio sta ancora lì, ammaccato e contorto, ma con un lucchetto intatto. Un altro armadio della vergogna? Dentro c’era l’attrezzatura antincendio, come nel nostro Paese ci sono le leggi salvavita. Se i nostri lavoratori continuano a morire vuol solo dire che la chiave non si trova.

Note: *http://staff.polito.it/massimo.zucchetti/Relazione_Thyssen_Zucchetti.pdf
** http://www.legamidacciaio.it/

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