L’Iva mossa da ragioni (il)legittime si appose al gran rifiuto…

ma la Corte Costituzionale ha detto no
14 settembre 2009

Con il D.Lgs. 22/97, meglio conosciuto come “decreto Ronchi”, anche l’Italia si adeguò alla normativa europea sui rifiuti. Il legislatore suddivise il tipo di rifiuti fornendo a ciascuno un codice, una specie di carta d’identità contenente la nascita (produzione) e la morte (smaltimento) della spazzatura prodotta dall’uomo. Fino allora il cittadino pagava un tributo per il servizio pubblico che lo Stato forniva con la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti prodotti dalla nazione, perciò veniva appalicata una tassa in tal senso. Il decreto mutò -perlomeno questo era l’obiettivo- la natura del servizio. Un po’ come dire che chi produceva rifiuti avrebbe dovuto pagare il servizio per la raccolta, lo smaltimento, il riciclaggio, la differenziazione ecc. a seconda di quanti ne avrebbe prodotti. Non più dunque una tassa comune per un servizio genericamente dovuto, un diritto come la scuola, la sanità ecc. bensì un corrispettivo legato al presupposto che produrre rifiuti non è un diritto, ma un fattore negativo per l’igiene ambientale, da qui l’incentivazione a produrne il minor quantitativo possibile. Nacque perciò la tariffa d’igiene ambientale (TIA) che sostituì gradatamente la tassa sui rifiuti solidi urbani (TARSU) e la tariffa, in quanto tale, fu soggetta all’iva del 10%.

La recente sentenza della corte costituzionale (238/09) ha ribaltato il principio dell’applicazione tariffaria sostenendo l’equivalenza tra la disciplina Tarsu e la tariffa ‘Ronchi’. Entrambi gli importi prelevati al cittadino hanno forti analogie tra loro e “identica impronta autoritativa”. I due proventi hanno “somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo”. E’ stato rilevato che l’obbligatorietà del pagamento non è data dall’effettiva produzione dei rifiuti e l’effettiva fruizione del servizio (basti pensare alle case disabitate), ma all’utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti e alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento. In sostanza non corrisponde al vero che “chi inquina paga”, è vero che ciascuno di noi paga un tributo forfetario in base a parametri stabiliti che certo non differenziano la quantità della spazzatura prodotta.

A fronte di questa sentenza l’imposta del 10% sull’importo del servizio fatturato dagli enti creditori esattori, dovrà esserci rimborsata. Secondo le stime dell’Associazione Contribuenti Italiani* è possibile dedurre che tra famiglie e imprese la partita sui rimborsi si aggirerà intorno ai 200 milioni l’anno, toccando punte di 360 euro per L'iva mossa da ragioni legittime si appose al gran rifiuto famiglia e 3.750 per l'impresa. A seguito di queste fatturazioni sono innumerevoli le imposte anticipate dai Comuni allo Stato per i contribuenti morosi. In questo periodo di bilanci disastrati non è certo confortante. Per il presidente di Contribuenti.it. Vittorio Carlomagno, il rimborso sancito dalla Corte Costituzionale dovrà essere erogato entro 30 giorni dal ricevimento dell'istanza di rimborso, in un’unica soluzione. Attenzione perché per non pregiudicare i diritti acquisiti, l’istanza in tal senso va presentata entro le ore 10 del 30 settembre 2009 allo Sportello del Contribuente della propria città. In parecchi comuni gli enti creditori stanno già distribuendo le fatture del secondo acconto e naturalmente chi applica la TIA ha gravato la fattura col 10% d’iva, pur avendo la Corte dichiarato tale imposta illegittima. E’ lo sgradevole scotto che ci tocca pagare per colpa del farraginoso sistema italico o, più semplicemente, dell’uso e consuetudine del "va avanti te che a me scappa da ridere".

Note: * http://www.contribuenti.it/news/view.asp?id=2953
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