Condanna al primo processo per la Mafia del Ponte
Giuseppe "Joseph" Zappia, l'anziano ingegnere italo-canadese accusato di aver fatto da "schermo" ad una delle più imponenti operazioni di riciclaggio della storia di Cosa Nostra, il tentativo d'investire 5 miliardi di euro nella progettazione e nei lavori di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, è stato condannato dal Tribunale di Roma a tre anni e sei mesi di reclusione e a due anni di libertà vigilata. Nel riconoscere Zappia responsabile del reato di associazione per delinquere, la Corte lo ha però assolto dall'accusa di turbativa d'asta relativamente alla partecipazione alla gara di pre-qualifica per la scelta del general contractor dell'opera di collegamento stabile tra Sicilia e Calabria.
Da lì l'arresto di Zappia per estorsione e truffa. Scarcerato dietro cauzione, nell'aprile 1980 l'ingegnere decideva di lasciare il Canada per trasferirsi negli Emirati Arabi, ove concorreva alla realizzazione di importanti opere civili e perfino dei campi base utilizzati dalle forze armate USA per sferrare l'attacco all'Iraq durante la prima Guerra del Golfo. Dopo la caduta del muro di Berlino, Giuseppe Zappia si era inserito nel mercato dell'edilizia privata e delle reti infrastrutturali in Cecoslovacchia, Polonia e Russia. Il professionista sbarcava pure nelle isole delle Bermude, dove in società con il locale governatore John Swan, insediava alcuni complessi turistico-immobiliari. Proprio nelle Bermude l'ingegnere Zappia aveva l'opportunità di conoscere l'allora costruttore-tele editore Silvio Berlusconi, proprietario di una villa nella parte più esclusiva dell'arcipelago.
L'ingegnere, tuttavia, non era riuscito a sfuggire alla sindrome che colpisce tanti degli emigranti e dei figli di emigranti. Il timore, cioè, di morire senza radici, soli, lontani. E il sogno di fare qualcosa di grande, di eterno, per la terra propria e degli avi. «Mi ricordo - ha raccontato Zappia - che quand'ero ragazzo la gente anziana, emigrata in America nei primi anni del 1900, mi ripeteva che un giorno anche Calabria e Sicilia verranno unite da un ponte come quello di Brooklyn. Ho deciso di concludere la mia vita qui e vorrei tanto veder realizzato quel ponte sullo Stretto di Messina». Un desiderio-aspirazione che lo spingeva a farsi in quattro in vista del preannunciato bando per la scelta del soggetto unico a cui affidare, chiavi in mano, progetto, finanziamento e lavori. Per concorrere alla fase di preselezione, Zappia fondava una modestissima società a responsabilità limitata (appena 30 mila euro di capitale), la Zappia International, la cui sede veniva fissata a Milano negli uffici dello studio legale Pillitteri-Sarni, titolare Stefano Pillitteri, consigliere comunale di Forza Italia e figlio dell'ex sindaco socialista di Milano, Paolo. Collega di studio del Pillitteri, Cinzia Sarni. Era a lei che Giuseppe Zappia confidava i suoi propositi. «È al corrente che io voglio fare il ponte di Messina?», rivelava l'ingegnere in un colloquio telefonico del 13 giugno 2003. «Io se faccio il ponte lo faccio perché ho organizzato 5 miliardi di euro... e questi 5 miliardi furono organizzati da tempo, mi comprende? Da tempo!».
Contemporaneamente l'ingegnere italo-canadese allestiva un team di professionisti internazionali che lo affiancavano nella gestione degli aspetti economici e finanziari dell'operazione. Veniva nominato consulente legale il noto avvocato romano Carlo Della Vedova, mentre i contatti con i potenziali finanziatori esteri venivano affidati ad un mediatore cingalese. Per stringere relazioni e alleanze con ministri, sottosegretari e imprenditoria capitolina, Zappia avrebbe ottenuto la collaborazione di un ex attore televisivo di origini agrigentine, Libertino Parisi, noto al grande pubblico per aver fatto l'edicolante nella trasmissione Rai I fatti vostri. Parisi diventava l'uomo di fiducia dell'ingegnere Zappia. Con lui venivano programmati appuntamenti e riunioni ai massimi vertici istituzionali, finanche con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e con il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi.
«Ho parlato con quelle persone che erano molto interessate del fatto che un'impresa con capitali arabo-canadesi intende costruire il ponte finanziando l'opera per intero», rivelava confidenzialmente l'ingegnere a Libertino Parisi, in una telefonata del 5 marzo 2004. «Ho ricevuto indicazioni di mandare un fax con la proposta alla segreteria del Presidente della società Stretto di Messina». Il 24 marzo, giorno in cui il consiglio d'amministrazione della Stretto Spa approvava il bando di gara proposto dall'amministratore delegato Pietro Ciucci per la selezione del general contractor, l'ingegnere era intercettato mentre dava le ultime istruzioni a Parisi in vista di una riunione con i vertici della concessionaria per il collegamento stabile Calabria-Sicilia. Un mese più tardi Zappia informava l'avvocato Dalla Vedova dell'esito di una lunga riunione con gli ingegneri e gli avvocati della Stretto di Messina e di un'altra riunione con Salvatore Glorioso, segretario particolare del ministro Enrico La Loggia ed assessore provinciale di Forza Italia a Palermo. L'ingegnere spiegava: «Sono già stato alla sede romana della Stretto di Messina. Non ti posso riferire adesso quello che ci siamo detti in quelle ore, ma hanno deciso che l'uomo che farà il ponte sarò io perché posso gestire i problemi in quell'area del Paese. Sono calabrese!».
L'essere calabrese, il sapersi muovere in un ambiente notoriamente "difficile", la disponibilità di grandi capitali da offrire per i lavori del Ponte, evidentemente facevano di Giuseppe Zappia un uomo fermamente convinto di poter imporre le proprie regole, senza condizionamenti di sorta. Del resto società concessionaria e potenziali concorrenti manifestavano già qualche difficoltà a reperire i fondi necessari per avviare il progetto. «Il bando di concorso: chi vuole partecipare deve pagare sei milioni di euro. Una cosa ti posso dire, che loro hanno duecento... due miliardi e mezzo. E quelli lì non bastano per fare il ponte», spiegava Zappia al solito Parisi. Zappia provava comunque a tessere possibili alleanze con alcune grosse società di costruzioni, italiane ed estere. Il 26 giugno 2004 l'ingegnere e Parisi si soffermavano su un articolo apparso sul quotidiano "Il Messaggero" nel quale erano indicate alcune società in gara per la realizzazione del Ponte di Messina. L'articolo riportava, tra l'altro, che la società francese Vinci, dopo aver dato la propria disponibilità a partecipare al consorzio guidato dall'azienda romana Astaldi Spa, aveva preferito alla fine la partnership con la concorrente Impregilo di Sesto San Giovanni. «Questi Vinci, sono pronti a venire con me, ma credo che non li prenderò», commentava astiosamente Zappia. «Perché loro vogliono venire a mettere moneta e della loro moneta non ne abbiamo bisogno. Vinci, lo può fare da solo. Questo te lo posso dire io soltanto: Vinci non ha il segreto mio».
Un segreto dunque. L'asso nella manica che concerne forse l'aspetto finanziario, i soci ancora "occulti" dell'imprenditore e della sua organizzazione. Senza più il tempo di tentare nuove alleanze il gruppo Zappia decideva di andare da solo alla preselezione per il general contractor. Era Libertino Parisi a redigere la lettera con cui la Zappia International avanzava la sua proposta di partecipazione alla prequalifica. Tre cartellette dattiloscritte che pare abbiano lasciato un po' perplessi gli esaminatori della società Stretto di Messina. Non solo per la loro lunghezza. Il piano tecnico-finanziario di Zappia & Soci prevedeva infatti un costo per la realizzazione dell'opera variabile tra i tre e i quattro miliardi di dollari e la consegna del Ponte nell'arco di tre anni grazie all'impiego di turni di lavoro notturno. La società "a capitale italo-arabo-canadese" si impegnava ad eseguire i lavori con costi e tempi tecnici di realizzazione inferiori del 50%, assemblando pezzi prefabbricati all'estero e senza ricorrere a subappalti. Per tutelare i cantieri e scongiurare eventuali reazioni delle cosche di mafia, si proponeva infine l'intervento dell'Esercito.
Il successivo 28 ottobre la Commissione di valutazione emetteva il suo verdetto. L'offerta del gruppo Zappia veniva respinta perché non rispondente ai requisiti richiesti nel bando di gara. Analoga esclusione veniva sancita per una cordata composta da imprese del Mezzogiorno. Quella che però doveva rappresentare l'uscita di scena di Zappia e del suo "segreto", si rivelava invece una tappa importante nel tentativo di partecipare direttamente alla realizzazione del Ponte. Sono le telefonate effettuate subito dopo l'ufficializzazione dell'esclusione a indicare che Zappia aveva partecipato alla gara pur sapendo di non possedere i requisiti richiesti. Era però riuscito a mettersi in contatto con le imprese concorrenti di ben più solida competenza tecnico-organizzativa, proponendosi come indispensabile finanziatore dell'opera. I nomi delle società con cui l'ingegnere italo-canadese aveva preso contatti "diretti" o "indiretti" sono elencati nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dai magistrati romani: ancora una volta Vinci (in associazione con Impregilo), la francese Bouygues (partner di Strabag), «nonché la società Fincosit in A.T.I. con Astaldi».
«Non avevo né ho bisogno del finanziamento della mafia italo-canadese per costruire il ponte sullo Stretto di Messina», ha dichiarato l'anziano professionista all'Ansa nel febbraio 2005. «Avevo altri canali perfettamente leciti che nulla hanno a che fare con la presunta organizzazione. E si tratta di finanziamenti che vengono da canali bancari italiani di istituti di primaria grandezza, ma anche di finanziamenti di aristocratici arabi». Il Ponte con i dollari del petrolio dunque. Questo secondo Zappia, sollevando più di un'obiezione della Direzione distrettuale antimafia romana, che pur ritenendo plausibile la figura di un finanziatore arabo, ha enfatizzato la «contestuale presenza di interessi mafiosi».
Che Zappia conoscesse il leader criminale d'oltreoceano e la stessa entità criminogena del Ponte di Messina lo prova il contenuto di una sua conversazione con un collaboratore, il primo agosto 2003. In essa di parla apertamente di don Vito Rizzuto. «Io non posso farmi vedere con lui, mi capisci?», dichiara l'ingegnere. «Sì, anche se io vengo a Montreal non posso rischiare di farmi vedere, perché una volta che mi vedono con lui, la mia reputazione è finita». Poi una nota di entusiasmo: «Se tutto va bene io farò il ponte di Messina e quando farò il ponte, l'amico lo faccio ritornare. Sì, quando farò il ponte, con il potere politico che avrò io in mano, tornerà lui qui. Perché lì si deve fare il ponte tenendo contenti tutti quelli della Sicilia, la gang, capisci? In questo affare c'è moneta per loro. Ti dico un'altra cosa: è che c'è un lato la mafia, la Sicilia. Di quell'altro posto c'è la 'ndrangheta. La 'ndrangheta calabrese è più forte della cosa siciliana, sì, basata su attività di costruzione e di attività anche di influenza politica. Sono più organizzati i calabresi che i siciliani. Allora la 'ndrangheta è più forte della mafia...».
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