Acqua pubblica, privati e mafia in Sicilia prima della Legge Galli. Prima parte

Finché c’è Cosa Nostra non basterà un referendum per salvare l’acqua dei rubinetti siciliani

L’Eas, i potenti di Sicilia e lo scandalo dell’Ancipa. Ecco un esempio di passato che è utile ricordare, perché la pubblicizzazione delle risorse idriche, nel caso in cui si vinca il referendum, non rinnovi, nelle terre di mafia, gli abusi della prima Repubblica.
12 ottobre 2010
Carlo Ruta
Fonte: DomaniArcoiris

Le trame sull’acqua, contro cui si levano oggi proteste da tutto il paese, recano un passato lungo. Su tale risorsa naturale ben prima dell’avvento della legge Galli si sono incardinati infatti business di rilievo colossale. Ne costituisce un po’ l’emblema l’industria dell’imbottigliamento, che se ha fatto la fortuna di marchi come Ferrarelle, Sangemini, Fiuggi, Acqua Marcia e numerosi altri, ha reso e continua a rendere allo Stato poco o nulla, giacché le tasse pagate dalle società concessionarie in larga misura restano simboliche. Come in altre aree del sud, in Sicilia l’interesse privato, prima ancora che con l’imbottigliamento, si è espresso comunque in altri modi: soprattutto con il controllo delle fonti e dei torrenti, che ha permesso guadagni enormi con la vendita di acqua alle municipalità, il rifornimento delle condotte pubbliche, la contrattazione con gli Enti di bonifica e con l’Eas, Ente acquedotti siciliani. Negli anni settanta il comune di Palermo pagava 800 milioni di lire annui i proprietari delle fonti, fra cui spiccavano note famiglie criminali, come i Greco di Ciaculli e i Teresi. Si trattava di una tradizione, con radici addirittura ottocentesche.

La Costituzione e le leggi della Repubblica consentono che un bene possa essere espropriato per necessità pubbliche. Ma i poteri pubblici siciliani si sono guardati bene dal sottrarre le fonti d’acqua ai privati, trovando più utile scendere a patti con i medesimi. Anche quando l’acqua in Sicilia era gestita dalle municipalità e da enti regionali, essa si trovava quindi al servizio di interessi parassitari, estranei alle collettività. Un analogo compromesso vigeva d’altronde a valle, con imprese interessate alla realizzazione di acquedotti, dighe, impianti, canali, infrastrutture. Le spostamento di risorse nell’isola, che avveniva attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, istituita nel 1948 con il fine formale di sostenere le aree depresse, costituiva per taluni un business irrinunciabile. Lo era, soprattutto, per costruttori di un certo tipo, che non disdegnavano il superamento del limite, come i Cassina e i Vassallo di Palermo, i Graci, i Rendo e i Costanzo di Catania, i Lodigiani e i Ligresti dell’area milanese. Gran parte di essi, come è noto, avrebbero animato, specie negli anni conclusivi della prima Repubblica, le cronache giudiziarie. In sostanza, le amministrazioni dell’isola, a direzione democristiana, che avrebbero dovuto preservare l’autonomia della cosa pubblica dal gioco degli interessi, si sono trovate a fare parte comune con ambienti discussi, e perfino con consorterie criminali che, su uno sfondo di tradizioni feudali condivise da tutti i contraenti, hanno potuto influire in modo determinante sulla vita delle città.

Ai partiti che esercitavano il potere tutto questo garantiva sacche di voti non indifferenti. Si trattava quindi di un sistema “perfetto”, che reggeva su tre pilastri: il mutuo interesse dei contraenti; la fedeltà dei maggiori livelli istituzionali; il consenso strategico nelle città, corroborato dalle politiche clientelari, che trovavano i maggiori punti di condensazione nel parastato e negli enti pararegionali. E in tale quadro si è trovato a ricoprire un ruolo strategico l’Ente Acquedotti Siciliani, cui era demandata la gestione materiale una parte cospicua del patrimonio idrico dell’isola. Istituito nel 1942 al fine di garantire un uso razionale della risorsa acqua, nel secondo Novecento tale ente, dipendente prima dal Ministero ai Lavori Pubblici, poi, a partire dal 1977, dall’Assessorato regionale ai Lavori Pubblici, ha realizzato, con l’intervento appunto della Cassa, i maggiori acquedotti dell’isola, dall’Alcantara al Favara di Burgio, dall’Ancipa al Fanaco. Ma ha realizzato tanto di più. Prima di essere posto in liquidazione, nel settembre 2004, controllava 11 sistemi acquedottistici, 3 impianti di potabilizzazione, 1160 chilometri di condotte idriche, 175 impianti di pompaggio, i 3 invasi artificiali di Fanaco, Leone e Scanzano, circa 40 chilometri di gallerie. Gestiva altresì le reti idriche di 111 comuni e ne approvvigionava di acqua altri 66. Nei decenni della prima Repubblica l’Eas costituiva in sostanza un efficace strumento di controllo delle città, a uso della DC di Salvo Lima, ma pure di altre componenti di governo, come il partito repubblicano, che in Sicilia operava sotto l’egida di Aristide Gunnella, parlamentare di lungo corso della Repubblica.

L’acqua pubblica in Sicilia si traduceva allora in una sequenza surreale di affari e sprechi, di abusivismi colossali, di illeciti di ogni tipo, infine di scandali. Tanti fatti andrebbero rivisitati. Ma per evidenziare come l’avvento del privato, sancito dalla legge Galli, piuttosto che aprire una discontinuità, si sia innestato su una tradizione solo formalmente pubblica, in realtà privatistica e attraversata dall’ipoteca criminale, basta evocarne uno, che rimane fra i più rappresentativi. È quello dell’Ancipa, che si è snodato fra ultimi anni Ottanta e i primi anni novanta, quando la politica italiana era finita in uno strano tunnel, che secondo gli strateghi avrebbe dovuto consolidare gli affari e gli stili della prima Repubblica, con l’elevazione di Giulio Andreotti a presidente della Repubblica: a dispetto delle scosse geopolitiche provocate dal 1989. Erano appunto gli anni del CAF.

L’acquedotto dell’Ancipa ha costituito una delle maggiori opere abusive del paese. Con l’avallo dell’assessorato regionale ai Lavori Pubblici e i finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno, per 430 militardi di lire, l’opera nel 1988 era stata appaltata dall’Eas all’imprenditore milanese Enrico Lodigiani e alla Cogei del catanese Mario Rendo. E, per le atmosfere che vigevano in quegli anni, l’operazione sarebbe potuta andare in porto se nel 1989 due dirigenti di Legambiente, l’avvocato Giuseppe Arnone e Angelo Di Marca, non avessero scoperto che la megastruttura attraversava il parco dei Nebrodi, sottoposto a vincoli di salvaguardia ai sensi della Legge Galasso. L’associazione ambientalista documentava, in particolare, la presenza abusiva di due canali sopraelevati, che si stendevano per chilometri al centro della riserva naturale, di tale ampiezza, spiega Arnone, da essere utilizzati da bande catanesi per custodirvi automezzi rubati. Sequestrati i lavori con atto del 28 giugno 1989 del pretore di Bronte, Minneci, i responsabili delle due imprese, che avevano operato in assenza di autorizzazioni urbanistiche e ambientali, sono finiti allora sotto processo, per essere infine condannati, con sentenza definitiva della Cassazione del 21 dicembre 1993, alla demolizione delle opere e al ripristino dei luoghi. La vicenda ha avuto tuttavia, prima che un seguito, un iter complesso, in relazione soprattutto all’attività dell’Eas, investito dallo scandalo.

Centrale nelle prime fasi della vicenda è stata la figura di Ninni Aricò, segretario provinciale del Pri e consigliere comunale di Palermo, ma soprattutto presidente dell’EAS. Nell’affare dell’Ancipa era, per forza di cose, l’interlocutore chiave Lodigiani e Rendo. Costituiva altresì, come si dirà meglio più avanti, il tramite fra i due imprenditori e istituzioni di governo. Le dimissioni del medesimo, una volta scoppiato lo scandalo, documentato con particolare dovizia in Sicilia da “L’Ora” di Palermo, sono state quindi inevitabili. Ma non è venuta meno la trama, perché si riprendessero i lavori dell’acquedotto, a dispetto delle misure giudiziarie. È stata effettuata in effetti una operazione ad hoc, con il conferimento della guida dell’Eas al primo presidente in carica della Corte d’appello di Palermo, Carmelo Conti, che si era dimesso per pensionamento qualche mese prima della scadenza del suo mandato. Come spiega Giuseppe Arnone, che ha seguito l’intero processo quale patrocinatore di Legambiente, costituitasi parte civile, «con tale atto il governo della Regione, presieduto da Rino Nicolosi, voleva garantire se stesso, mostrando di voler dare risposte adeguate alle richieste di legalità che venivano dall’opinione pubblica, mentre si operava, da più parti, in senso contrario». Ma l’operazione è stata infruttuosa, perché anche Conti, proiettato appunto al ripristino dei lavori, è finito sotto processo. Alla commissione parlamentare d’inchiesta istituita dalla Regione e presieduta da Lucio Libertini, il medesimo ha proposto, in particolare, una versione dei fatti che non è stata ritenuta veritiera, sostenuta peraltro da documenti di uffici che risultavano coinvolti nella vicenda.

Le reazioni nei riguardi di Legambiente sono state durissime. Basti dire che Arnone, quale responsabile dell’associazione in Sicilia, è stato citato per danni da Rendo e Lodigiani, per 2 miliardi di lire complessivi. Non sono mancati altresì tentativi di condizionamento nei riguardi della Commissione d’indagine, che tuttavia, in virtù soprattutto dell’attivismo di Franco Piro e dello stesso Libertini, ha contribuito in modo decisivo alla definizione degli illeciti. Il momento di svolta, sotto il profilo giudiziario, è avvenuto comunque nel 1993, quando la procura di Palermo ha firmato l’ordine di arresto per i maggiori interpreti della trama, Ninni Aricò, Enrico Lodigiani, Mario Rendo, e l’ex ministro Gonnella. Lodigiani, già in carcere per altre vicende, aveva confessato di aver erogato, tramite Aricò, tangenti all’esponente repubblicano per 150 milioni di euro. E una analoga ammissione, per una cifra minore, è venuta poi da Mario Rendo. In definitiva, nel clima convulso di quegli anni, quando, con le inchieste di Mani Pulite cominciavano a cedere le architravi politiche della prima repubblica, la vicenda veniva immessa nell’alveo più conseguente. Ma il percorso del processo si è presentato sin da subito difficile, per ragioni di competenza territoriale.

Come si diceva, gli arresti erano stati ordinati dalla procura del capoluogo siciliano. Ma tale competenza è stata contestata da Caltanissetta, perché fra gli imputati era compreso Carmelo Conti, alto magistrato appunto di Palermo. Prima che la cosa si definisse, a favore del tribunale nisseno, sono trascorsi perciò anni, fino ad arrivare al 2000, in piena seconda repubblica, quando la legge Galli, varata un anno prima, aveva lanciato il paradigma della privatizzazione, in un quadro del tutto mutato nelle forme, ma non nelle sostanze, nelle logiche, negli interessi. E in tale quadro, destinato a rimanere convulso, finivano con il trovare posto altre realtà economiche, in sintonia con i tempi.

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