Revisionismi e neofascismo

Viale Giorgio Almirante 98100 Messina

Messina potrebbe intitolare un lungo viale al fondatore dell'Msi Giorgio Almirante. La richiesta è unanimamente condivisa dai consiglieri della 2^ circoscrizione. L'anima nera della città commemora le trame neofasciste e le bombe nell'università.
19 settembre 2011

 

Di vie “Giorgio Almirante” ce ne sono a Foggia, Lecce, Ragusa, Francavilla Fontana (Br), Locorotondo (Ba), Praia a Mare (Cs), San Severo (Fg) e Santa Caterina Villarmosa (Cl). A Viterbo esiste una “circonvallazione Giorgio Almirante” e a Corato (Ba) finanche una piazza. Ma sino ad oggi nessuno ha intitolato un intero viale all’ex repubblichino di Salò, fondatore del primo dei partiti neofascisti, il Movimento sociale italiano (Msi). Quattro anni fa, in verità, i nostalgici militanti de La Destra di Francesco Storace insieme ai post-fascisti di Alleanza Nazionale avevano apposto provocatoriamente alcune targhe “viale Giorgio Almirante” nella grande arteria romana dedicata al leader del Partito comunista Palmiro Togliatti, dopo la bocciatura da parte del Campidoglio della richiesta d’intitolare una via all’intrepido Almirante. Se tutto andrà però come previsto, in Italia ci sarà presto un lungo asse stradale in sua memoria. A Messina, la città del ponte senza ponte, sventrata dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, il consiglio della 2^ circoscrizione ha approvato con il voto unanime di centro-destra e centro-sinistra una delibera che chiede all’amministrazione comunale d’intitolare il “grande viale nella parte alta del villaggio Minissale” al fondatore del partito-movimento disciolto da Fini ma che oggi rivive grazie all’ultranazionalista messinese Gaetano Saya, per sua diretta ammissione fascista, agente segreto Gladio e massone alla corte del venerabile Licio Gelli. “Il consiglio circoscrizionale – recita una nota a firma del presidente Giovanni Di Blasi - ha valutato la bontà di tale iniziativa ritenendo che Giorgio Almirante, come si evince dalla biografia, debba ritenersi non solo un politico, ma soprattutto un uomo che ha lasciato un segno tangibile nella storia recente italiana”. Chi si attendeva a Messina una mezza sollevazione popolare o perlomeno le proteste delle forze politiche e sociali antifasciste, si è dovuto ricredere. La delibera, pubblicata sul quotidiano locale, è passata inosservata e le voci critiche, come sempre, sono meno delle dita di una mano. “Nella città del primo parlamentare siciliano comunista, l’avvocato Francesco Lo Sardo, che morì nelle galere di Mussolini, apprendiamo sbalorditi e indignati che il fascista Giorgio Almirante sarebbe stato una delle figure di spicco della politica italiana del dopoguerra”, commenta con amarezza il professore Citto Saija, critico cinematografico ed ex segretario provinciale di Democrazia proletaria. “Se si volesse sottilizzare potremmo tacciare l’iniziativa della circoscrizione di “apologia di fascismo”. Purtroppo tantissimi eredi della subcultura fascista, sdoganati anche dai partiti del cosiddetto centro-sinistra, imperversano nelle nostre amministrazioni a cominciare dal Comune di Messina. Mi chiedo a questo punto cosa intenda fare il Partito democratico all’opposizione o come intendano muoversi i sindacati e i partiti della Sinistra radicale. L’università vuole dire qualcosa? Esistono intellettuali di sinistra o liberali o solo democratici che intendono opporsi all’assurda provocazione?”. E in un accorato appello apparso sul quotidiano on line Il nuovo Soldo, Citto Saija ha chiesto alla commissione toponomastica e alla Società messinese di Storia patria di “bloccare sul nascere l’evidente rigurgito neofascista”. “A razzisti e boia non si dedicano strade”, ha prontamente risposto Giuseppe Restifo, docente di Storia moderna dell’Università di Messina e membro della commissione toponomastica. “Da storico nato nello stesso anno della Costituzione repubblicana, voglio ricordare che nel 1942 Almirante scriveva “Esclusivamente e gelosamente fascisti noi siamo nella teoria e nella pratica del razzismo”, un teorema che per tre anni ancora avrebbe messo in pratica, con estrema coerenza. Il ruolo di tenente della brigata nera del Minculpop lo portò a essere fucilatore di partigiani e complice della deportazione degli Ebrei. Momenti emblematici che hanno segnato la giovinezza del fondatore dell’Msi, di cui però non si fa cenno alcuno nell’edulcorata biografia allegata alla delibera della 2^ circoscrizione”. La “biografia” che tanto ha impressionato i consiglieri è lunga poco meno di una paginetta ed elenca solo gli incarichi professionali e parlamentari ricoperti da Almirante. “Nato a Salsomaggiore, fondò l’Msi nel 1946. Iniziò la sua carriera come cronista presso Il Tevere e allo scoppiare della seconda guerra mondiale fu arruolato, combattendo nella Campagna di Nordafrica”, vi si legge. Sul suo rapporto organico con il fascismo si ricorda appena che “alla creazione della Repubblica Sociale Italiana, egli si arruolò nella Guardia Nazionale Repubblicana e successivamente ricoprì il ruolo di Capo gabinetto del Ministro della Cultura popolare di Mussolini”. “Si distinse in diverse battaglie per la difesa dell’italianità sul territorio nazionale, pronunciando discorsi-fiume (anche di nove ore) a favore del ritorno all’Italia di Trieste”, il gran “merito” (l’unico) assunto dai consiglieri circoscrizionali a giustificazione della delibera. In Internet, wikipedia ricorda ben altre gesta di Giorgio Almirante. “Firmatario nel 1938 del Manifesto della razza, dal 1938 al 1942 collaborò alla rivista La difesa della razza come segretario di redazione. Su questa rivista si occupò di far penetrare in Italia le tesi razziste provenienti dalla Germania nazista, che già avevano portato all’approvazione nel 1938 delle leggi razziali fasciste”. “A Salò, si arruolò nella Guardia nazionale Repubblicana con il grado di capomanipolo. Successivamente passò al ruolo di tenente della brigata nera dipendente dal Ministero della Cultura Popolare. In questa veste, al pari delle altre camicie nere, si impegnò nella lotta ai partigiani in particolare in Val d’Ossola e nel grossetano. Qui, il 10 aprile 1944, apparve un manifesto firmato da Almirante in cui si decretava la pena della fucilazione per tutti i partigiani che non avessero deposto le armi e non si fossero prontamente arresi. Nel 1971 il manifesto - ritrovato nell’archivio comunale di Massa Marittima, pubblicato da l’Unità il 27 giugno 1971 e poi riconosciuto come autentico in sede giudiziale - susciterà roventi polemiche per via della feroce repressione antipartigiana compiuta dai fascisti in quelle zone: a titolo di esempio basti ricordare che nella sola frazione di Niccioleta, a Massa Marittima, tra il 13 ed il 14 giugno 1944 vennero passati per le armi 83 minatori”. Wikipedia riporta pure integralmente, il comunicato emesso dalla Questura di Roma nell’autunno del 1947 in cui si segnala il deferimento di Giorgio Almirante, “segretario della giunta esecutiva del Movimento Sociale italiano”, alla Commissione Provinciale per il confino “quale elemento pericoloso all’esercizio delle libertà democratiche, non solo per l’acceso fanatismo fascista dimostrato sotto il passato regime e particolarmente in periodo repubblichino, ma più ancora per le sue recenti manifestazioni politiche di esaltazione dell’infausto ventennio fascista e di propaganda di principi sovvertitori delle istituzioni democratiche ai quali informa la sua attività, tendente a far rivivere istituzioni deleterie alle pubbliche libertà e alla dignità del paese”. L’anima nera di Messina e provincia ha i suoi buoni motivi per commemorare ed onorare questa “figura di spicco della politica italiana”. Negli anni della strategia della tensione e della controffensiva reazionaria contro le trasformazioni sociali e democratiche dell’Italia repubblicana, il cuore di migliaia di messinesi batteva per Almirante e i proconsoli locali dell’Msi, premiati con valanghe di voti alle elezioni amministrative e nazionali. Tanti a Messina ricordano ancora la giornata del 9 aprile 1972 quando al comizio di Almirante in piazza Università, accorsero oltre quindicimila persone. Alla fine, centinaia di giovani in camicia nera e bastoni diedero vita ad un tetro corteo per le vie principali al grido “il comunismo non passerà”. Qualche giorno più tardi si sarebbe votato per il rinnovo del Parlamento italiano: per l’Msi fu l’apoteosi, il 23,5% dei consensi al Senato e il 23,9% alla Camera dei deputati, il secondo partito più votato in città dopo la Democrazia cristiana. Fu eletto a palazzo Madama l’industriale Uberto Bonino, editore della Gazzetta del Sud, già parlamentare Pli e dei monarchici. Due seggi a Montecitorio per il consigliere provinciale Giuseppe Tortorella e l’oncologo Saverio d’Aquino (poi sottosegretario agli interni dal 1987 al ‘94), intoccabile politico e onnipotente docente universitario “grazie anche al ruolo di sostituto procuratore della Repubblica ricoperto dal fratello Luigi d’Aquino che, caso unico in tutta Italia, esercitava le sue funzioni in un distretto che coincideva con il collegio elettorale del fratello on. Saverio”, come sottolinea il Comitato messinese per la pace e il disarmo unilaterale nel prezioso volume Le mani sull’Università. Borghesi, mafiosi e massoni nell’Ateneo messinese (Armando Siciliano editore, 1998). “L’anno del trionfo della fiamma tricolore è anche quello delle bombe neofasciste all’università di Messina”, aggiungono i pacifisti peloritani. “L’osmosi tra gli estremisti di Ordine Nuovo e i camerati in doppio petto dell’Msi era ben visibile. I militanti del Fuan e delle cellule ordinoviste condividono le stesse sedi”. Il team di Ordine Nuovo nello Stretto era uno dei più agguerriti del paese al punto di richiamare l’attenzione del pubblico ministero romano Vittorio Occorsio, poi assassinato da elementi provenienti da ambienti massomafiosi e dell’estrema destra. Poco prima della sua morte, il magistrato si recò a Messina per interrogare una ventina di neofascisti locali, compreso il commissario della federazione provinciale dell’Msi, Oscar Marino, uomo di fiducia dell’onorevole D’Aquino e speaker-presentatore dell’oceanico comizio di Giorgio Almirante il 9 aprile 1972. “Che gli anni ‘70 abbiano rappresentato per l’università di Messina il luogo di socializzazione criminale per gli estremisti di destra e per i giovani della ‘ndrangheta è ormai un fatto storico-giudiziario”, si legge ancora nel volume del Comitato per la pace. “Fondamentale è stata la fase in cui Reggio Calabria fu sede dell’aspra rivolta dei boia chi molla, quando molti dei mafio-fascisti calabresi operavano a Messina nelle inedite e poco probabili vesti di studenti universitari. È così che la città dello Stretto viene utilizzata dai gruppi neofascisti quale avamposto per una serie di attentati eseguiti in Calabria nel corso dei moti per Reggio capoluogo”. Tra i protagonisti delle incursioni armate all’interno dell’ateneo messinese c’erano, tra gli altri, due personaggi che avrebbero assunto un ruolo strategico di congiunzione tra gli ambienti criminali e l’estrema destra, l’allora vicesegretario del Fuan Rosario Cattafi e Pietro Rampulla. Secondo il boss Angelo Epaminonda, negli anni ‘80 Cattafi avrebbe gestito per conto del clan Santapaola la scalata al casinò di Saint Vincent. Condannato a undici anni e sei mesi per la vicenda dell’autoparco della mafia di via Salomone a Milano, Cattafi è stato poi “graziato” da una sentenza della Cassazione che ha annullato il processo per incompetenza territoriale. Oggi viene indicato da alcuni collaboratori di giustizia come il “capo dei capi” di Cosa nostra nel messinese. Pietro Rampulla, originario di Mistretta, verrà invece condannato con sentenza passato in giudicato per essere stato l’artificiere della strage di Capaci, quando furono assassinati il giudice Falcone, la moglie e i poliziotti di scorta. Nella provincia dello Stretto, la criminalità organizzata ha chiare e profonde matrici di estrema destra.

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