Il coming out di un campione
Il percorso introspettivo alla scoperta di me stesso è iniziato nella mia città natale, Los Angeles, e mi ha accompagnato durante due campionati scolastici, i quarti di finale e la semifinale del campionato NCAA e nove playoff in dodici stagioni del campionato NBA.
Ho giocato in sei squadre professionistiche e partecipato a due finali NBA. Su questa mia presenza in diverse squadre è stato persino creato un gioco di società, Three Degrees of Jason Collins (I tre gradi di Jason Collins): se sei nella lega e non sono stato un tuo compagno di squadra, di sicuro lo sono stato di un tuo compagno o di un compagno di un tuo compagno.
Ora sono un giocatore libero, in tutti i sensi; ho raggiunto quello stadio invidiabile in cui posso fare praticamente ciò che voglio. E quello che voglio è continuare a giocare a basket. Continuo ad amare questo sport e ho ancora qualcosa da offrire. I miei allenatori e compagni di squadra lo sanno; ma allo stesso tempo voglio essere sincero e trasparente.
Perché sto uscendo allo scoperto proprio ora? In realtà ho iniziato a pensarci nel 2011, quando il campionato NBA venne sospeso a causa dello sciopero che coinvolse noi giocatori. Io sono una persona abitudinaria; quando la stagione termina mi dedico immediatamente alla preparazione per l’autunno seguente, ma la sospensione del campionato ha sconvolto le mie abitudini costringendomi a confrontarmi con me stesso e a chiedermi cosa voglio realmente. Con la stagione rimandata, mi sono allenato ma mi mancava quella distrazione che il basket mi aveva sempre fornito.
Il primo familiare con cui mi sono confidato è stata mia zia Teri, giudice della Corte Suprema di San Francisco. La sua reazione mi ha sorpreso: “Sapevo da anni che eri gay”, ha detto. A partire da quel momento mi sono sentito a mio agio con me stesso. Con lei sono riuscito a non censurarmi; mi ha supportato. Mi sono sentito sollevato. È stata come una dolce liberazione. Immaginate di essere dentro un forno, ad arrostire. Alcuni di noi accettano subito la propria sessualità, altri invece hanno bisogno di più tempo per cuocere. Ora lo so: sono rimasto a cuocere per 33 anni.
Quand’ero più giovane sono uscito con delle donne. Mi sono persino fidanzato. Pensavo di dover vivere in un certo modo; credevo di aver bisogno di sposare una donna e crescere dei figli insieme. Continuavo a ripetermi che il cielo era rosso, ma in realtà sapevo che era blu.
Ho capito di doverlo rendere pubblico quando nel 2012 Joe Kennedy, il mio vecchio coinquilino a Standford (ora parlamentare nel Massachusetts), mi disse di aver marciato al Gay Pride di Boston. Raramente sono geloso di qualcuno, ma sentire ciò che Joe aveva fatto mi ha riempito di invidia. Ero orgoglioso di lui per avervi partecipato, ma allo stesso tempo ero arrabbiato perché la segretezza della mia omosessualità mi impediva persino di fare il tifo come spettatore per il mio amico “normale”. Se me l’avessero chiesto, avrei inventato mezze verità. Che pena mentire proprio durante una manifestazione in cui si celebra la fierezza. Voglio fare la cosa giusta e smettere di nascondermi. Voglio marciare in favore della tolleranza, dell’accettazione e della comprensione. Voglio prendere posizione e dire: “Anche io”.
Il recente attentato alla maratona di Boston ha rafforzato la mia idea di non dover aspettare il momento perfetto per dichiarare la mia omosessualità. Le cose possono cambiare in un istante, perciò perché non vivere la vita con sincerità? Quando, poche settimane fa, ho detto a Joe di essere gay, era felice che mi fossi fidato di lui. Mi ha chiesto di accompagnarlo nella prossima manifestazione. L’8 giugno marceremo insieme.
Nessuno vuole vivere nella paura. Ho sempre avuto paura di dire la cosa sbagliata. Non dormo bene. Non ho mai dormito bene. Ma ogni volta che lo dico ad un’altra persona mi sento più forte e dormo un po’ meglio. Custodire un simile segreto richiede un enorme dispendio di energia. Ho sopportato anni di sofferenza ed enormi sacrifici per vivere una bugia; ero sicuro che il mio mondo sarebbe crollato se qualcuno avesse saputo. Eppure, quando ho compreso la mia sessualità, mi sono sentito completo per la prima volta. Continuavo ad avere lo stesso senso dell’umorismo, gli stessi comportamenti e i miei amici il mio supporto.
Che lo crediate o no, la mia famiglia ha subito shock più grandi. Può sembrare strano oggi, ma i miei genitori aspettavano un solo bambino nel 1978. Me. Quando sono venuto fuori (per la prima volta nella vita) i dottori si sono congratulati con mia madre per il suo sano maschietto di tre chili e duecento grammi. “Aspettate!” aveva gridato un’infermiera, “ce n’è un altro!”. L’altro, arrivato otto minuti più tardi e più pesante di quasi cento grammi, era Jarron. Da allora mi ha sempre seguito, a Standford e all’NBA, e in qualità di fratello un pochino maggiore mi sono sempre preso cura di lui.
Ho avuto un’infanzia felice nella periferia di Los Angeles. I nostri genitori ci hanno insegnato ad apprezzare la storia, l’arte, ma soprattutto la celebre etichetta discografica Motown. Fino ai 12 anni a me e Jarron non fu permesso di ascoltare musica rap. Dopo il nostro dodicesimo compleanno mi sono precipitato a comprare l’album di Dj Quik, Quik is my name. Ho imparato a memoria ogni singolo verso. È stato intorno a quel periodo che ho iniziato a notare delle sottili differenze tra me e Jarron. Non eravamo più in sincronia; non mi sentivo attratto dalle ragazze, al contrario di lui.
Mi sento fortunato ad aver riconosciuto il mio orientamento sessuale. Nonostante io abbia represso i miei impulsi durante il liceo, sapevo che quando fossi stato pronto avrei avuto qualcuno a cui rivolgermi: mio zio Mark a New York. Sapevo che avremmo potuto parlare senza che mi giudicasse e l’abbiamo fatto la scorsa estate. Zio Mark è gay; lui e il suo compagno hanno sempre avuto una relazione stabile. Quale miglior esempio di amore e compassione, per un ragazzo confuso come lo ero io?
Non l’ho confessato a mio fratello sino all’estate scorsa, mentre facevamo colazione. La sua reazione è stata completamente diversa da quella di zia Teri. Era totalmente stupito; non l’aveva mai sospettato. Alla faccia della telepatia dei gemelli. Ma a cena, quella stessa sera, era pieno di amore fraterno. Per la prima volta nella nostra vita, voleva intervenire e proteggere me.
Mia nonna materna era preoccupata per la mia intenzione di dichiarare la mia omosessualità. È cresciuta nella Louisiana rurale ed è stata testimone degli orrori della segregazione razziale. Durante il movimento per i diritti civili aveva assistito a grandi atti di coraggio nel mezzo delle peggiori bruttezze dell’umanità. Si preoccupava del fatto che la mia dichiarazione mi avrebbe esposto al pregiudizio e all’odio, ma le ho spiegato che, in un certo senso, la mia rivelazione era preventiva. Non dovrei vivere nella costante paura che qualcuno mi “scopra” e riveli pubblicamente la mia sessualità; dovrei essere io a prendere questa decisione e non qualche rivista di gossip.
La parte più difficile di tutto questo è rendersi conto che la mia famiglia sarà coinvolta in questa decisione. Ma i miei parenti mi hanno ripetuto in continuazione che mi sosterranno finché sarò felice. Vedo mio fratello e i miei amici del college mettere su famiglia. Cambiare pannolini è un duro lavoro, ma i bambini portano così tanta gioia! Sono pazzo dei miei nipoti e non vedo l’ora di avere una famiglia tutta mia.
Provengo da una famiglia molto unita. I miei genitori mi hanno trasmesso i valori cristiani; insegnavano alle scuole domenicali e mi piaceva dar loro una mano. Prendo sul serio gli insegnamenti di Gesù, soprattutto quelli che parlano di tolleranza e comprensione. Durante i viaggi di famiglia per i miei genitori era importante farci conoscere nuove cose, religioni e culture. Nello Utah visitammo il tempio mormone di Salt Lake e ad Atlanta la casa di Martin Luther King. Questa precoce esposizione alla diversità mi ha reso una persona capace di accettare chiunque in maniera incondizionata.
Sto imparando ad accettare le mie mille sfaccettature. Dopo essere stato venduto dai Boston Celtics ai Washington Wizards a febbraio, mi sono preso il tempo per andare a vedere il monumento in memoria di Martin Luther King. Mi sono sentito umile e allo stesso tempo ispirato. Onoro il fatto di essere afro-americano e le sofferenze del passato, i cui segni sono evidenti ancora oggi, ma non lascio che il colore della mia pelle definisca chi sono, così come non voglio che lo faccia il mio orientamento sessuale. Non voglio essere etichettato e non posso nemmeno lasciare che l’etichetta di qualcun altro definisca la mia persona.
Sul campo mi è stato dato questo pseudonimo, “il professionista dei professionisti”, e io l’ho accettato volentieri, per via del mio coraggio e dell’impegno verso i miei compagni di squadra. Prendo il comando e faccio fallo, questo è il mio forte. Infatti, durante la stagione 2004/2005 sono stati i miei 322 falli a dominare l’NBA. Entro in campo sapendo di averne sei a disposizione prima di venire espulso. Sfrutto i miei 2,13 metri di altezza e 116 kg per fare da barriera e marcare giocatori come Jason Kidd, John Wall e Paul Pierce. Mi sacrifico per gli altri giocatori, mi prendo cura dei miei compagni di squadra come farei con mio fratello minore.
Non ho paura di affrontare alcun avversario; amo giocare contro i migliori. Sebbene Shaquille O’Neal faccia parte della Hall of Fame, non mi sono mai sottratto alla sfida di metterlo in difficoltà. (Per Shaq: le mie simulazioni non hanno niente a che vedere con l’essere gay). Il paradenti è al suo posto e i polsi fasciati. Avanti, colpisci, mi rialzerò. Odio doverlo dire, e non ne vado fiero, ma una volta ho commesso un fallo talmente pesante che il giocatore ha dovuto abbandonare il campo su una barella.
Sono l’esatto contrario dello stereotipo gay e credo sia per questo che molti giocatori ne rimarranno scioccati: “quel ragazzo è gay?!” Ma sono sempre stato un giocatore aggressivo, persino al liceo. Sono così duro per dimostrare che essere gay non rende deboli? Chi lo sa? È compito dello psicologo rispondere a questa domanda. Le mie motivazioni, così come il mio contributo, non appaiono nelle tabelle dei punteggi e, ad essere sincero, non mi importa delle statistiche. Vincere è ciò che conta. Voglio essere giudicato per il mio gioco di squadra.
La vera ragione per la quale non mi sono dichiarato prima è la lealtà verso la mia squadra. Quando ho firmato il contratto come free agent con i Boston Celtics, lo scorso luglio, ho deciso che mi sarei impegnato al massimo per la squadra senza che la mia vita personale diventasse una distrazione. Quando sono stato venduto ai Wizards, ho realizzato l’importanza che avrebbe avuto la mia dichiarazione. Ero pronto a parlare con la stampa, ma dovevo aspettare che la stagione terminasse.
Un mio compagno di università cercò di convincermi a dichiararmi subito, ma ancora non potevo. Il mio unico e piccolo gesto di solidarietà è stato indossare una maglia con il numero 98, prima nei Celtics e poi nei Wizards. Questo numero ha un profondo significato per la comunità gay; risale infatti al 1998 uno dei più famosi crimini dettati dall’omofobia: Matthew Shepard, uno studente dell’Università del Wyoming, venne rapito, torturato e frustato mentre era legato ad una staccionata; morì cinque giorni dopo il suo ritrovamento. Nello stesso anno fu fondata la Trevor Project, un’organizzazione no-profit che fornisce aiuto in situazioni di crisi e prevenzione dei suicidi nei ragazzi che attraversano problemi legati alla loro identità sessuale. Credetemi, conosco quella loro lotta interiore. Ho lottato con qualche logica folle. Quando ho indossato la maglia stavo facendo una dichiarazione a me stesso, alla mia famiglia e ai miei amici.
Nascondere la mia sessualità è diventato quasi insostenibile a marzo, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti stava valutando le argomentazioni a favore e contro i matrimoni omosessuali. A meno di 5 km dal mio appartamento, nove giuristi discutevano sulla mia felicità, sul mio futuro. Era l’occasione per essere ascoltato, ma non potevo dire nulla; non volevo dover rispondere a delle domande e attirare l’attenzione su di me. Non mentre stavo ancora giocando.
Sono contento di averlo fatto nel 2013 e non nel 2003. Il clima è cambiato; l’opinione pubblica è cambiata. Eppure abbiamo ancora così tanta strada da fare. Tutti sono spaventati da ciò che non si conosce, ma la maggioranza di noi non vuole ritornare al tempo in cui le minoranze venivano apertamente discriminate. Sono rimasto colpito dalle dichiarazioni in favore dei gay degli atleti professionisti eterosessuali Chris Kluwe e Brendon Ayanbadejo. Più persone si schierano apertamente, meglio sarà, etero o gay che siano, a cominciare dal presidente Barack Obama, che nel suo secondo discorso di insediamento ha fatto riferimento alle rivolte di Stonewall del 1969, dalle quali nacque il movimento per i diritti omosessuali, fino ad arrivare alle scuole, dove gli insegnanti incoraggiano i propri studenti ad accettare ciò che ci rende diversi dagli altri.
A causa della sua natura, la mia doppia vita mi ha impedito di avvicinarmi davvero ai miei compagni di squadra. All’inizio della mia carriera ho lavorato duramente per fingere di essere eterosessuale e col tempo mi sono sentito sempre più a mio agio con quella maschera: fingere non è stato più così difficile. Ultimamente, però, c’erano ben poche differenze tra il Jason con la maschera e il Jason senza. Personalmente, non mi piace soffermarmi sulla vita privata degli altri e spero che giocatori e allenatori mostrino lo stesso rispetto nei miei confronti. Quando sono con la mia squadra penso solo a lavorare sodo e a vincere. Un buon compagno di squadra ti sostiene sempre e comunque.
Mi è stato chiesto come avrebbero reagito alle mie dichiarazioni gli altri giocatori. La risposta è semplice: non ne ho idea. Sono pragmatico; spero per il meglio ma mi preparo al peggio. La preoccupazione maggiore sembra essere quella che i giocatori gay si comportino in maniera poco professionale negli spogliatoi. Credetemi, ho fatto un mucchio di docce in 12 stagioni. Il mio comportamento non è stato un problema prima e non lo sarà adesso. Il mio atteggiamento non cambierà; continuerò a rispettare il detto “ciò che accade nello spogliatoio resta nello spogliatoio”. Continuerò ad essere un modello di discrezione.
Mentre scrivo questa lettera, nessuno nell’NBA è a conoscenza della mia omosessualità. Non so cosa dicono di me gli altri giocatori. Forse Mark Miller, il mio vecchio compagno a Memphis, starà ricordando le volte in cui passavo a casa sua, in Florida e dirà “sono contento di essere stato suo compagno di squadra e di avergli venduto un cane”. Spero che i giocatori si raccontino storie come queste. Forse parleranno del mio carattere e del tipo di persona che sono.
Per quanto riguarda i tifosi, non mi importa se mi fischieranno. Mi è già successo. Ci sono state volte in cui avrei voluto fischiarmi io stesso. Ma molti dei brutti pensieri possono essere curati vincendo.
Sono un veterano e mi sono guadagnato il diritto di essere ascoltato. Darò il buon esempio e mostrerò che i giocatori gay non sono diversi da quelli etero. Posso non essere la persona più rumorosa nella stanza, ma farò sentire la mia voce quando qualcosa mi sembrerà ingiusto. E cercherò di far ridere tutti.
Non ho mai cercato la fama. Anche se mi sto dichiarando al mondo, intendo salvaguardare la mia privacy. In parte lo faccio per tenere a bada pettegolezzi ed equivoci. Spero che i tifosi mi rispettino per aver alzato la mano. Spero che i miei compagni si ricordino che non sono mai stato un tipo impudente e aggressivo. Tutto quello che dovete sapere è che sono single. Non c’è bisogno di scendere nei particolari.
Pensate a quanto è successo nelle forze armate quando è stata eliminata la regola del Don’t ask, don’t tell (“Non chiedere, non dire”, espressione con cui ci si riferiva alla linea politica americana in merito all’orientamento sessuale dei membri del servizio militare). Coloro che si dimostrarono contrari all’abrogazione di tale regola, erano convinti che i membri delle forze armate dichiaratamente gay avrebbero costituito una minaccia alla moralità e distrutto la cultura americana, ma un nuovo studio condotto da ricercatori provenienti da ogni ramo delle forze armate ad eccezione della Guardia Costiera, ha stabilito che “la coesione non è venuta meno in seguito all’adozione di questa nuova politica di apertura. Infatti, l’apertura e l’onestà risultanti dall’abrogazione della Don’t ask, don’t tell sembrano aver favorito maggior comprensione, accettazione e rispetto.”.
Lo stesso vale per lo sport. Doc Rivers, il mio allenatore nei Celtics, dice sempre “se vuoi andare veloce, vai da solo; se vuoi andare lontano, vai con gli altri”. Voglio che le persone si uniscano e vadano avanti insieme. La trasparenza forse non servirà ad eliminare i pregiudizi, ma è senza dubbio un buon punto di partenza. È tutta questione di educazione. Mi siederò a parlare con qualsiasi giocatore che si senta a disagio rispetto alla mia dichiarazione. Essere gay non è una scelta; è un’ardua strada da percorrere e spesso solitaria. Alcuni ex giocatori, come Tim Hardaway che diceva di odiare le persone omosessuali e che poi è diventato un loro sostenitore, alimentano l’omofobia. Tim è una persona adulta; ha il diritto di avere una propria opinione. Dio benedica l’America. Ma se mi ritroverò a scontrarmi con un giocatore intollerante, la mia sarà una barriera durissima contro di lui. E poi andrò avanti.
Il meglio che puoi fare è lottare per ciò in cui credi. Sono più felice da quando l’ho detto ai miei amici e alla mia famiglia; essere sincero e onesto mi rende felice.
Sono felice di non dovermi più nascondere e potermi concentrare sulla mia tredicesima stagione nell’NBA. Sono andato a correre sulle montagne di Santa Monica con indosso una canottiera di 13 kg insieme a Shadow, il pastore tedesco che mi ha venduto Mike Miller. Quando sei un giocatore professionista, più invecchi e più devi essere in forma. Durante la prossima stagione avrò molti più occhi puntati addosso e questo mi stimola a lavorare più duramente.
Alcune persone affermano di non aver mai incontrato una persona gay, ma la teoria dei tre gradi di Jason Collins dimostra che nessun giocatore dell’NBA può ancora sostenerlo. Il basket professionistico è come una grande famiglia e più o meno in ogni famiglia c’è un fratello, una sorella o una cugina gay. In quella dell’NBA io sono solo l’unico che si è dichiarato tale.
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