Qualità della Vita e Strategia di Coping di una Comunità Contaminata. Il caso di Taranto.
A quanto pare però, il progresso non ha mantenuto la promessa di prosperità e sviluppo tanto bramata, questa totale fiducia che la nostra società ha riposto nella tecnologia ha portato a conseguenze tragiche per l'ambiente e si è arrivati ad assistere a incidenti che ricreavano dei veri e propri scenari apocalittici. Basta pensare alle conseguenze che ha avuto il disastro di Chernobyl per la salute di chi ha vissuto l'accaduto ma incredibilmente anche per chi è nato successivamente all'incidente. In Italia il disastro di Seveso o il caso Eternit sono delle testimonianze dirette e lampanti di come una visione non lungimirante del rapporto tra sviluppo industriale, sociale e sostenibilità ambientale non possa che portare col tempo a danni esorbitanti.
L'attenzione sul caso di Taranto viene dall'esigenza di contribuire alla diffusione di conoscenza di una situazione ormai inconfutabilmente critica, ma volutamente occultata alla coscienza collettiva. Attualmente (grazie all'azione dei cittadini) le conseguenze dell'esposizioni agli agenti inquinanti dell'Ilva sono - in parte - conosciute. Inoltre, a livello legislativo, per la prima volta dopo 60 anni, sembra verosimile che qualcuno paghi per i danni inflitti alla popolazione tarantina.
Non è però allo stesso modo plausibile credere che una punizione possa alleviare il dolore di chi ha perso un proprio caro a causa di un tumore ai polmoni, o delle mamme che non hanno potuto allattare i propri figli a causa del latte contaminato, o degli allevatori che hanno dovuto abbattere il proprio bestiame distruggendo il lavoro di una vita, o che si possa cancellare il malessere di una città messa in ginocchio da oltre sessant'anni da dinamiche subdole di ricatto occupazionale, una città che ha dovuto piegarsi, abbassare il capo e chiudere gli occhi, per assicurare un piatto di pasta ai propri figli.
Tutto questo dolore, questo malessere, non si può pensare che non abbia avuto delle ripercussioni sul piano psicologico di ogni singolo abitante della città; da questa riflessione ho sentito la necessità di avviare questa ricerca e creare un questionario che indaghi la qualità della vita e le modalità con cui si fa fronte agli stress (strategie di coping) della popolazione tarantina, e in particolare di chi vive nelle zone più a rischio d'inquinamento (Tamburi, Paolo VI, Statte, Città vecchia), e di chi ha vissuto da vicino il ricatto occupazionale, ossia i famigliari dei lavoratori Ilva.
Sono numerosi gli studi che dimostrano una correlazione positiva tra il disastro tecnologico e le psicopatologie come depressione, disturbo post-traumatico da stress, ansia e attacchi di panico. Ho volutamente evitato di ricercare disturbi psicologici nella popolazione tarantina, in quanto mi è sembrato più utile, in un momento come questo, oltrepassare il concetto di malattia per ricercare invece un modello di benessere bio-psicosociale a cui tendere; ossia, attraverso il mio questionario, ho preferito riconoscere le risorse presenti nella popolazione, utili a pensare e progettare un cambiamento, un miglioramento della qualità della vita di una popolazione contaminata.
Effettivamente i risultati mostrano che la cittadinanza tarantina esprime una sofferenza proprio in rapporto all'ambiente circostante, soprattutto per chi vive in zone più a rischio. Paradossalmente però nonostante Taranto sia un luogo potenzialmente minaccioso e pericoloso per i suoi abitanti, i risultati del questionario dimostrano che essa continua a essere un oggetto di attaccamento pregnante e denso di significato per gli individui. Un forte attaccamento al luogo può essere una risorsa per la popolazione: l'azione è mossa da una forte motivazione al cambiamento e dall'esigenza di salvaguardare il proprio habitat e le proprie abitudini. Inoltre, i cittadini dichiarano di utilizzare delle strategie positive di fronteggiamento agli stress e soprattutto volte all'azione costruttiva; queste risultano essere ottime risorse per riuscire a sopravvivere in una realtà così al limite come quella Tarantina.
Detto questo, è importante anche sottolineare come in realtà chi vive in zone particolarmente a rischio ha meno preoccupazioni in generale (per la propria salute, dei propri cari, etc), anche riguardo alla contaminazione. Questo risultato sarebbe un controsenso se non fosse che, come abbiamo potuto osservare dai dati del questionario, chi vive in queste zone ha più probabilità di avere un famigliare impiegato nell'azienda e quindi è legato economicamente a essa. Alla luce di questi risultati possiamo affermare che l'esposizione a rischi ambientali non si traduce necessariamente in una percezione del rischio più elevato. Possiamo quindi ipotizzare che chi è coinvolto emotivamente e economicamente all'industria ha una percezione soggiogata dalla sua dipendeza economica.
Diversi sono gli studi che dimostrano che la classe operaia ha difficoltà nel percepire gli effettivi pericoli che corre, questa discrepanza tra dimensione oggettiva del pericolo e la percezione soggettiva degli operai proviene dalla rappresentazione positiva delle proprie abilità lavorative individuali, e dalla convinzione che le istituzioni effettuano i dovuti interventi per fissare la soglia di pericolosità e si adoperano per verificarne la sua applicazione . Questo fenomeno di delega decisionale avviene in quanto gli esseri umani agiscono non tanto come individui isolati ma come esseri sociali, che hanno internalizzato pressioni sociali. Gli operai controllano le situazioni di pericolo come meglio possono e poiché non conoscono i rischi con cui si confrontano, seguono regole sociali rispetto a quali rischi ignorare: le istituzioni sono gli strumenti di cui dispongono per la semplificazione dei problemi.
Inoltre le ripercussioni della sottovalutazione dei rischi che l'individuo affronta, comportano un mancato comportamento sicuro sul lavoro, prova delle innumerevoli morti bianche che avvengono entro i recinti dello stabilimento.
Questa riflessione rende l'istituzione ancora più responsabile di quello che si può immaginare, il potere che essa possiede nel decidere della vita di ogni individuo viene spesso sottovalutato. Bisogna infatti comprendere che la modalità ottimale per far fronte a situazioni di stress ambientale comporta il rinforzo del sistema di rete dei rapporti tra individui, famiglie, gruppi e sistemi sociali, in generale.
Un individuo riesce a superare gli ostacoli della vita grazie sia alle sue abilità di resilienza, sia attraverso il sostegno dei sistemi a cui egli appartiene. Risulta determinante favorire i rapporti collaborativi tra sistemi informali (legami famigliari, amicali, persone con cui si ha un alto grado di confidenza e di condivisione) e sistemi formali (istituzioni, sistemi di cura, forze dell'ordine), permettendo una co-operazione delle risorse comunitarie a livello sociale, politico ed economico.
Questa co-operazione sembra tanto lontana a causa della sfiducia che si è sviluppata negli anni, in quanto proprio chi era addetto alla salvaguardia e alla tutela dei cittadini, adesso è indagato per essere coinvolto nel processo “Ambiente svenduto”.
Tuttavia la popolazione tarantina ha dimostrato in diverse occasioni di avere le risorse e la volontà di immaginarsi diversa e reinventarsi, se le istituzioni accompagnassero per mano questa voglia di riscatto e di rinascita, non potrebbe che venire fuori qualcosa di positivo per i cittadini. La crisi e la sofferenza potrebbero acquisire nuovi significati, ossia potrebbero essere un'opportunità per l'individuo e la comunità di ri-conoscersi e di ri-mettersi in gioco.
Non sembra utile illudersi di poter ritornare a una vita passata continuando a rincorrere un equilibrio utopistico perduto ormai anni addietro, ma riuscendo a ri-costruire nella tragedia con ciò di cui si dispone oggi per uno sviluppo umano, comunitario ed anche economico.
Enrica Conte
Sociale.network