Un volontariato diverso in cui puoi “fare la differenza”: l'osservatore elettorale internazionale
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Chi è quella figura misteriosa – l'osservatore elettorale internazionale – così spesso citata dai nostri giornali quando criticano o elogiano un'elezione tenutasi in qualche paese remoto? Come viene scelta e formata? Che poteri ha – può convalidare o annullare i risultati di una elezione a propria discrezione? Si tratta di un volontariato che potrebbe interessare anche i lettori di PeaceLink?
La risposta all'ultima domanda è senz'altro “sì”, anche i lettori di PeaceLink possono ambire a diventare un International Election Observer. Nel corso di questo articolo verrà descritto un seminario di addestramento – concepito proprio per chi non ne sa nulla in partenza e non ha nessuna esperienza pregressa – che si terrà a Venezia la prima metà di novembre. Ma attenzione: le iscrizioni agevolate scadono il 15 settembre.
In quanto alle altre tre domande poste nel primo paragrafo, rispondiamo con ordine.
Anzitutto, per sapere cosa sono gli osservatori elettorali internazionali, è sufficiente consultare il breve articolo, su Wikipedia di lingua inglese, intitolato Election monitoring (non esiste la relativa voce su Wikipedia italiana). Si tratta, spiega l'articolo, di volontari che, sotto l'egida di un organismo internazionale, osservano e registrano la regolarità delle elezioni tenute in un determinato paese straniero.
In quanto ai loro poteri reali, va subito detto che un osservatore elettorale internazionale non può né convalidare né invalidare il risultato di uno scrutinio. Le sue due armi sono essenzialmente morali: il suo potere di denuncia, che serve da deterrente contro i tentativi di frode elettorale più clamorosi, e le sue conoscenze giuridiche internazionali e del paese in cui opera, grazie alle quali può sbugiardare i contendenti elettorali quando cercano di giustificare pratiche fraudolente o di rivendicare diritti inesistenti.
Esistono diversi enti che offrono corsi di formazione per diventare un osservatore elettorale internazionale, tra cui l'EIUC, il Centro Interuniversitario Europeo per i Diritti Umani e la Democratizzazione che offre il seminario di novembre a Venezia. Neanche a dirlo, questi corsi sono quasi sempre a pagamento (ma esiste anche un corso on-line gratuito, riconosciuto). Non solo, ma la formazione conseguita prepara per un volontariato che, purtroppo, offre possibilità di carriera stipendiata molto limitate. In compenso, le spese di viaggio e di soggiorno per le missioni svolte all'estero vengono interamente coperte dall'ente governativo che le organizza. Inoltre, l'esperienza acquisita all'estero come osservatore elettorale costituisce un sicuro atout lavorativo nell'odierna economia globalizzata.
E dopo la formazione? Bisogna iscriversi ad un albo, per essere poi selezionati dal Ministero degli Affari Esteri o da qualche altro ente governativo nazionale o europeo, interessato a controllare gli esiti di una determinata elezione.
E qui casca l'asino: gli sponsor di un monitoraggio in un determinato paese sono spesso governi con interessi economici o geostrategici in quel paese. Esiste dunque il rischio concreto che il lavoro dei “loro” osservatori venga pilotato o strumentalizzato allo scopo di controllare un esito elettorale e quindi la politica interna ed estera del paese. Se una elezione viene vinta da un leader inviso all'Occidente, gli sponsor del monitoraggio possono incoraggiare i “loro” osservatori a denunciare ogni singola irregolarità, grande o piccola, allo scopo di invalidare lo scrutinio presso l'opinione pubblica locale ed internazionale. Se, al contrario, vince un candidato ben visto dall'Occidente, possono cercare di convincere i “loro” osservatori a sdrammatizzare gli “inevitabili” brogli riscontrati e a rinunciare alla denuncia.
Ma proprio perché gli osservatori, non essendo stipendiati, non sono “loro”, questi sponsor non sempre riescono a dare loro il là. Inoltre i monitoraggi vengono condotti di regola da molteplici attori, tra cui alcuni enti sinceramente impegnati a far emergere le verità elettorali in maniera non strumentale e a promuovere meccanismi per ridurre il rischio di manipolazione del ruolo degli osservatori elettorali (vedi quest'articolo al riguardo).
E' dunque a questo punto che può fare tutta la differenza, la presenza, nelle fila degli osservatori elettorali, di persone indipendenti e coraggiose. Ne bastano poche – anzi, a volte basta una sola persona retta e determinata – per smuovere la coscienza degli altri osservatori e rendere difficile qualsiasi tentativo, da parte dei capi, di dipingere la realtà diversamente da come la si è riscontrata sul terreno.
I lettori di PeaceLink avranno visto, su questo giornale, diversi articoli dedicati a Rita Atria, ai Testimoni di Giustizia e alle iniziative dell'Associazione Libera a sostegno di coloro che hanno osato denunciare i misfatti gravi ai quali hanno assistito – in un luogo di lavoro o nel proprio quartiere. E molti lettori avranno sicuramente ammirato queste figure. Ebbene, fare l'osservatore internazionale è un volontariato perfetto per chi condivide questi ideali, per chi non esita a dire le verità scomode nonostante le forti pressioni a tacere. Infatti, chi partecipa ad una missione di monitoraggio elettorale, è facilmente sottoposto a molte pressioni, a 360°: da parte delle forze politiche che contendono le elezioni ed i loro sostenitori, fino ai pubblici ufficiali che dovrebbero invece essere imparziali; dai propri compagni e superiori nel programma di monitoraggio, ognuno con la propria agenda, fino alla dirigenza dell'ente occidentale che ha voluto e pagato il monitoraggio.
Si tratta, dunque, di un lavoro che richiede molta fortitudine e una grande integrità morale. Qualità che sicuramente hanno, appunto, i lettori di PeaceLink.
Ecco perché abbiamo detto che quello dell'osservatore elettorale internazionale è un volontariato diverso che potrebbe interessare proprio loro.
Chi vuole saperne di più può consultare questo sito per avere tutte le informazioni sul seminario di formazione di novembre a Venezia – dal 7 al 9.11.2016 per il primo modulo e dal 10 al 12.11.2016 per il secondo. Quest'ultimo modulo fornisce informazioni complementari, quindi è possibile seguire solo il primo per avere una formazione di base minima.
Il costo è di 450 euro per modulo, con una riduzione del 10% per chi si iscrive prima del 15 settembre. Purtroppo non sono previste borse di studio o altre agevolazioni.
A parte il seminario di novembre a Venezia e il già menzionato corso on-line gratuito, esistono anche altri canali formativi, come i corsi di alta formazione di Sant'Anna di Pisa. Inoltre, è facile documentarsi sul ruolo degli osservatori elettorali internazionali leggendo sia i manuali ufficiali on-line, come questo o questo, sia le guide pratiche, come questo, sia i resoconti di esperienze reali sul campo, come l'opuscolo che PeaceLink ha pubblicato qui, realizzato da Beati i costruttori di pace.
Un’ultima osservazione.
Poc'anzi si è detto che il lavoro di osservatore elettorale internazionale richiede fortitudine e integrità morale. Ma richiede anche una grande sensibilità interculturale – ossia, il saper dislocarsi nel mondo di valori dei propri interlocutori e mediare, con loro, dall'interno di quel mondo. All'osservatore internazionale serve questa sensibilità per poter svolgere i propri compiti in controtendenza – ossia, per poter rivedere e reimpostare il proprio lavoro alla luce dei veri bisogni della popolazione con la quale si interagisce.
Perché, in effetti, è necessaria una reimpostazione. L'osservatore internazionale scopre ben presto, per l'appunto, che i suoi compiti ufficiali – quello di “insegnare le regole della democrazia” e quello di “farle osservare” – hanno un risvolto occulto che invece andrebbe senz'altro contrastato: quello di colonizzare mentalmente le popolazioni del terzo mondo. Questo risvolto è insito nella stessa pretesa di imporre a tutte le popolazioni del pianeta le “regole elettorali dell'Occidente” ed i valori culturali sottostanti – ad esempio, il valore dell'individualismo (un uomo, un voto) invece del valore del collettivismo (il voto come consenso familiare o tribale).
Non solo, ma il volontario scopre anche che le giustificazioni che vengono date per imporre le “regole elettorali dell'Occidente” – persino alle popolazioni che le considerano aliene – sono del tutto ipocrite e perciò andrebbero contestate. Si pretende, infatti, che quelle regole siano “neutre” ed “internazionalmente riconosciute”, mentre, in realtà, esse esprimono una cultura locale ben precisa (il liberismo calvinista per lo più anglosassone) in cui si riconosce solo una piccola minoranza delle popolazioni della Terra – circa il 13%. Naturalmente, si tratta di una minoranza che, essendo di gran lunga la più ricca e potente del pianeta, riesce ad imporre la propria visione delle cose nei consessi internazionali e quindi a far passare i propri particolarismi come universali. Almeno, per ora. Ma fischia il vento.
In sostanza, l'osservatore elettorale internazionale scopre – con sgomento – che egli viene chiamato a svolgere (implicitamente) il ruolo di colonizzatore. Egli infatti deve:
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convincere le popolazioni locali, nello scegliere i propri leader, ad abiurare le loro tradizioni secolari, ossia le loro pratiche ataviche che, proprio in quanto arcaiche, mantengono intatte la loro identità di popolo e la loro coesione sociale, e
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imporre, al posto di quelle tradizioni secolari, le “regole elettorali dell'Occidente”, calate dall'alto. Regole che molto spesso neanche gli occidentali osservano: basti pensare alle squallide contese presidenziali statunitensi, assai meno dignitose (e assai più fraudolente) di una tipica investitura del capo, atavica ed arcaica, praticata nei villaggi più remoti dell'Africa o dell'Asia.
Ciò significa che l'osservatore elettorale internazionale – che ha avuto il coraggio di rivedere il senso del proprio operato – si trova davanti ad un dilemma. Deve far sì rispettare le “regole della democrazia occidentale” perché questo è il suo compito ufficiale, anche se ciò potrebbe contribuire alla colonizzazione mentale e alla disgregazione sociale della popolazione locale. Ma, nel contempo, deve saper comunicare ai suoi interlocutori indigeni il suo pieno rispetto per le loro tradizioni nel selezionare i propri capi. Tradizioni, tuttavia, che i suoi interlocutori non possono più seguire, se vogliono essere ammessi ai consessi politici ed economici dominati dall'Occidente. Come uscire da questo dilemma?
Si esce con l'intuizione che, anche se le pratiche ataviche non possono più essere seguite esclusivamente, possono pur sempre essere seguite parallelamente. Questo vuol dire che l'osservatore elettorale internazionale, se ha davvero una sensibilità interculturale, potrà, nelle sue conversazioni con i leader locali:
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escogitare con loro un “matrimonio funzionale” tra i due sistemi e poi
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permettere che questo binomio venga messo in pratica durante le elezioni che l'osservatore deve monitorare.
Si tratta, in pratica, di abbinare le “regole elettorali dell'Occidente” – che, come una foglia di fico, rimangono visibili in superficie per non scandalizzare i moralisti – alle arcaiche pratiche indigene, che permangono, non visibili, in profondità e che, perciò, determinano gli esiti reali nei processi di selezione dei capi.
I cinesi, a partire da Li Xiannian e Deng Xiaoping negli anni '80, hanno saputo realizzare proprio questo binomio per venire incontro all'Occidente – non solo nella gestione delle loro elezioni, ma anche nelle loro pratiche commerciali e nelle loro abitudini sociali. Ciò ha non solo consentito alla Cina il pieno accesso all'economia internazionale e quindi il boom economico che ha sbalordito il mondo, ma, nel contempo, ha impedito la disgregazione sociale e la colonizzazione mentale che seguono inevitabilmente l'adozione forzata ed esclusiva dei valori occidentali da parte di un paese del terzo mondo (v. Albert Memmì, Ritratto del colonizzatore e del colonizzato).
Naturalmente, la disgregazione sociale e la colonizzazione mentale che possono derivare dalla democratizzazione forzata di un popolo del terzo mondo non sono affatto sgradite ai poteri forti occidentali, promotori di quella democratizzazione. Anzi, disgregare permette loro poi di dominare più facilmente (divide et impera). Ma – almeno per quanto riguarda l'imposizione delle “regole elettorali dell'Occidente” attraverso i monitoraggi degli scrutini – i disegni dei poteri forti occidentali si rivelano vulnerabili: hanno un tallone di Achille.
Infatti, per realizzare il loro disegno, i poteri forti devono contare sui volontari che essi mandano all'estero attraverso gli enti governativi, ma che non riescono a controllare completamente. Ecco dunque uno spazio d'azione che si apre a chi vuole “fare la differenza” nel terzo mondo e trasformare una missione di colonizzazione (occulta) in un momento, per la popolazione locale:
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di consolidamento identitario e comunitario e, nel contempo,
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di acquisizione di nuove capacità per inserirsi nella comunità internazionale.
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