Una Cartagine da ritrovare

Alla ricerca della civiltà nordafricana che diede il primo fondamentale contributo alla creazione delle basi economiche e culturali dell'Occidente mediterraneo. Riflessione a partire dal libro "Viaggio a Cartagine" firmato dall'autore e da Carlo Ruta per le Edizioni di storia e studi sociali.
12 luglio 2018
Francesco Tiboni (archeologo e docente universitario)

 

Tra le conseguenze più importanti ed allo stesso meno evidenziate della distruzione di Cartagine da parte dell’allora neonato potere romano vi è, senza dubbio, una sorta di damnatio memoriae della grandezza di questa civiltà, un silenzio secolare rispetto all’influenza che la civiltà punica, e più ancora quella fenicia, hanno avuto sullo sviluppo delle diverse civiltà del Mediterraneo, in primis proprio di Roma, ma anche della grande Grecia.

La caduta di Cartagine, con il conseguente instaurarsi di una supremazia romana sul Mediterraneo Occidentale, e la ricerca presso la Grecia e la sua storia delle radici culturali di quella che sarà la Roma Imperiale, hanno di fatto determinato l’oscuramento dell’apporto dei cartaginesi e dei fenici nei diversi aspetti della cultura dominante. Un po’ come, nel pieno del medioevo, accadrà con la cultura araba saracena.

Qualcuno ritiene questa subalternità fenicio-punica esito di un vero e proprio pregiudizio al punto che, come ben sottolinea Carlo Ruta nelle sue interessantissime e dense pagine di questo testo, possiamo quasi dire che l’idea che oggi abbiamo di Cartagine e dei Cartaginesi, complice anche la propaganda romana, è una vittima innocente della storia, per parafrasare Franco Battiato.

Viaggio a Cartagine di Ruta e Tiboni

C’è però un campo in cui, fin dall’antichità, ai Fenici ed ai cartaginesi si riconosce una sorta se non di primato, quantomeno di primogenitura parziale: la navigazione, soprattutto commerciale ma, come ho cercato di spiegare, partendo da dati oggettivi, anche la marineria da guerra.

Se sfogliamo le preziose pagine della Naturalis Historiae di Plinio il Vecchio, ammiraglio della flotta romana di Miseno che perse la vita nei drammatici attimi dell’eruzione di Pompei, nel tentativo di salvare quanti più uomini poteva per mare – tema drammaticamente di attualità, nonostante sia da secoli fissato nella storia – non possiamo non notare alcuni passaggi chiave su questi temi.

Il primo, che riguarda il commercio. Plinio il Vecchio ci dice infatti che i Fenici inventarono il commercio via mare e la nave da commercio. E che i fenici fossero abili commercianti ce lo ricordava già Omero nei suoi poemi, dove descrive questo popolo come il popolo dei navigatori, dei mercanti di metalli e dei truffatori. Cosa che non deve stupire, se pensiamo che già nei testi Ugaritici della metà del secondo millennio avanti Cristo, più volte mercanti delle terre che saranno poi le terre dei fenici vengono descritti come commercianti di metalli che, al servizio di principi e popoli del Mediterraneo orientale, non solo pagano tributi e commerciano metalli per conto dei diversi luoghi sottomessi ai sovrani di Ugarit, ma sono anche soliti, come diremmo oggi, “fare la cresta” su tali pagamenti. Recenti studi, poi, sembrano non solo confermare che i fenici fossero in grado di commerciare ai massimi livelli, ma anche che, come ci dice ad esempio il professor Dickinson, proprio i fenici erano gli assoluti signori del commercio dei metalli nel Mediterraneo tra la fine del secondo e l’inizio del primo millennio avanti Cristo. Del resto, nei primi secoli dell’ultimo millennio prima di Cristo, anche la Bibbia, nel libro di Ezechiele, ci ricorda di come questo popolo fosse famoso, o potremmo dire famigerato, nel Mediterraneo per la sua abitudine al commercio via mare, con navi cariche di beni preziosi, tra cui proprio la Porpora, il bene cui, secondo alcuni studiosi, si deve il nome con cui i Greci identificarono questo popolo di commercianti e navigatori: Phoenikes.

Ma, come si evince da queste poche note, tra gli elementi che maggiormente caratterizza la capacità e l’importanza dei Fenici nel quadro della storia del Mediterraneo vi è, senza dubbio, un secondo aspetto oltre il commercio. Un aspetto grazie al quale la memoria Fenicia non si è mai perduta: la navigazione. Sgombriamo subito il campo da un grande equivoco che, ancora oggi, aleggia nella mitologia della navigazione antica, ovvero l’idea che i fenici abbiano inventato la bussola. Non avendo conoscenza alcuna in merito al campo magnetico terrestre ed al funzionamento, quand’anche empirico – come sarà invece presso i cinesi – , dei metalli ad esso sensibili, non poterono certo inventare questo strumento, che rimase estraneo al Mediterraneo ed alla sua navigazione ancora per molti secoli. Sappiamo per certo, invece, che fu propria dei fenici la capacità di orientarsi nel mare per mezzo delle stelle. Come ci ricorda ancora una volta Plinio il Vecchio, infatti, SYDERUM OBSERVATIONEM IN NAVIGANDO PRIMIS PHOENICES, ossia i Fenici furono i primi ad introdurre l’osservazione nelle stelle durante la navigazione.

Permettetemi di riflettere con voi ad alta voce su questa frase che, in poche parole, riassume una svolta epocale per la navigazione antica, togliendo per così dire anche la terra sotto i piedi ad alcune delle considerazioni che ancora oggi rendono problematica la piena comprensione dei sistemi di navigazione in uso nell’antichità. Se diamo credito a quanto riportato dall’autore antico, infatti, e non possiamo dimenticare che Plinio è ancora oggi ricordato come uno dei più grandi ammiragli della storia, al tempo di Roma era ormai prassi navigare di notte, unico momento del giorno – permettetemi il gioco di parole – in cui gli astri possono effettivamente essere una guida. Pertanto, non possiamo più accettare l’idea, anche in questo caso spesso tenuta in considerazione quando si parla di navigazione antica, che i romani o i greci fossero soliti interrompere la navigazione nelle ore notturne, rimessando le proprie imbarcazioni sulla spiaggia. Questa cosa, peraltro, non solo non sarebbe stata vantaggiosa per le imbarcazioni che, nate per rimanere in acqua e sopportare il peso del proprio carico anche grazie alla spinta idrostatica che il mare esercita sullo scafo evitandone la distruzione sotto il peso del carico, avrebbero subito ingenti danni da una prassi di questo tipo, ma non sarebbe stata fisicamente possibile, dato il peso di ogni imbarcazione, sia a pieno che vuota, che avrebbe reso necessario non soltanto l’impiego di un cospicuo numero di uomini, ma anche l’impiego di sistemi di alaggio, come rulli e carrucole, non certo comodi da trasportare ed installare ogni notte. Ma, accanto a questo elemento, la frase di Plinio ci fornisce anche un secondo punto chiave per la valutazione dell’importanza dei fenici nell’evoluzione delle tecniche di commercio via mare: la conoscenza delle stelle e della loro posizione nel cielo che, come sarà nel caso dei viaggi oltre l’equatore che proprio i Fenici compiranno, sia ad Ovest – oltre le colonne d’Ercole – sia ad Est, partendo dal mar Rosso per circumnavigare l’Africa agli ordini di Nechao, si dimostrerà un elemento chiave per alcuni dei peripli più importanti della storia.

Didone, regina di Cartagine, ed Enea

Non solo Plinio, ma anche altri storici antichi non potranno fare a meno di celebrare, a volte indirettamente, la grandezza di questo popolo di navigatori. E lo faranno ad esempio Strabone che riporta i viaggi di Eudosso di Cizico narrandoci della capacità dei Fenici di Navigare oltre Gibilterra e lungo le coste dell’Africa, o il grande Erodoto, che per negare la circumnavigazione dell’Africa ai tempi di Nechao ce ne fornisce invece prova inconfutabile parlando dell’incredibile ed assurdo capovolgersi degli astri per i naviganti.

Il mare, quindi, come campo in cui la storia sembra aver ristabilito i suoi valori. E’ per questo motivo che, da archeologo navale, è stato per me un grande piacere poter dedicare parte del mio dialogo con Carlo proprio al valore dei Fenici ed al loro apporto nella navigazione, anche bellica. Perché saranno loro ad insegnare ai Romani – marinai d’acqua dolce che nulla conoscevano e poco conosceranno del Mare Nostrum, pur dominandolo – come commerciare, ma anche come combattere.

La cosa che più mi preme è però che questo rapporto con il mare, per i popoli dell’antichità, non è un elemento che si limita alla sola dimensione tecnologica-navale, che pure ha la sua importanza. Certo, per noi, che oggi siamo abituati ai treni ad alta velocità, ai voli Low Cost e ad una miriade di connessioni costanti con persone che sono a migliaia di chilometri di distanza, può sembrare strano. Ma almeno fino a prima dei Fratelli Wright e dei primi voli, il mare, e solo il mare, non era un confine liquido, una terra di nessuno: il mare era la più grande via di comunicazione tra i popoli. E di gemmazione di culture.

Nel momento in cui Cartagine si affaccia sul Mediterraneo, seguendo le fondazioni delle colonie occidentali come Cadice, i Fenici erano ormai uno dei popoli che più permeava il Mediterraneo Occidentale. Con avamposti nelle isole maggiori italiane e in diversi tratti della costa iberica, dialogavano con i popoli che in queste terre erano nati e si erano sviluppati ormai da secoli. Non dobbiamo intendere questi rapporti come una diffusione di conoscenze da oriente verso occidente, cosa che per molti decenni è stata ritenuta quasi un fondamento dello studio dell’evoluzione umana. Si tratta piuttosto di un continuo dialogo tra uomini e donne, di cui rimangono resti materiali sotto forma spesso non solo di opere d’arte, ma di oggetti quotidiani.

E nel mare, sul mare, questa quotidianità e questo dialogo hanno trovato una via preferenziale. Nei momenti di pace come nei momenti di guerra. Ed anche se oggi la storia ci consegna un’idea molto distorta dei cartaginesi e dei fenici, arrivando addirittura a dire che le loro classi nobili – se così possiamo chiamarle – facevano crescere i propri figli da istitutori greci, o dichiarando che la regina dei mari, la trireme di età classica, era in tutto e per tutto un’invenzione greca, addirittura ateniese, l’archeologia, proprio partendo dal mare, sta pian piano aiutando a riportare nella giusta luce l’apporto fenicio e cartaginese all’evoluzione della storia del Mediterraneo.

Un dialogo che ben presto diventerà scontro, quando Roma capirà che il suo dominio politico non potrà più prescindere dall’annientamento di questo scomodo popolo. Un popolo che gli imperatori vorranno comunque celebrare – basti pensare alla scelta di Enea come capostipite mitologico e di Cartagine come teatro del grande amore e del grande tradimento. Un ricordo che, però, è forse uscito dai radar di quella storia “scritta dai vincitori”.

Questo saggio, questo dialogo con uno storico di livello come Carlo Ruta, così attento all’aspetto sociale spesso sottaciuto delle grandi trasformazioni della storia, vuole quindi essere un modo per cercare di ristabilire alcuni punti fermi.

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