Scongiurare la catastrofe finale. Che fare, qui ed ora

23 marzo 2020
Carlo Ruta (Storico e saggista)

Dobbiamo prenderne atto: non esistono modelli, perché è mancata la capacità di pensarli in tempo, un attimo prima. Occorre quindi inventarseli, adesso. La storia stessa non offre punti di riferimento chiari. Sarebbe inutile ricercare precedenti nel periodo lungo per trarne lezioni decisive, perché la lotta contro le pestilenze, contro i morbi, fino a qualche secolo fa avveniva con mezzi inadeguati, i numeri degli infettati e dei morti erano immensi, i tempi per il ritorno alla normalità erano lunghissimi, perlopiù di anni, e la conoscenza in campo medico solo tra l’Ottocento e il Novecento ha fatto balzi in avanti decisivi.
Stiamo vivendo in realtà un disastro in progress, e ce ne ricorderemo per sempre. Ma occorre riflettere su quel che ancora è possibile fare per evitare, che in Italia, nel Nord soprattutto, oggi nelle «barricate», si sprofondi ancora. Il nostro Paese, lo si è detto già, non è la Cina, per tanti motivi. E tuttavia il governo italiano, nel vuoto quasi assoluto di punti di riferimento, storici e del presente, ha dovuto ispirarsi, per necessità, a quella esperienza. Dall’Oriente asiatico è arrivato un modello che appariva risolutivo e lo si è adottato. Ma proprio perché l’Italia non è la Cina, questo paradigma operativo si sta rivelando poco applicabile e, soprattutto, non risolutivo. Vi prego allora amici di seguire il mio ragionamento, perché credo che qui stia la chiave di tutto, e soprattutto dell’attuale situazione italiana.
La Cina, che conta circa un miliardo e 300 milioni di abitanti, non ha chiuso l’intero paese, dall’Oceano Pacifico alle frontiere con la Mongolia, a quelle occidentali con India, Pakistan e Kazakistan. Non avrebbe potuto adottare una soluzione del genere perché ne sarebbe derivato il più grande disastro umano della storia. Ha chiuso, ermeticamente, solo una provincia, quella di Hubei, che ha un numero di abitanti pari a quello italiano, e ha fatto tutto ciò nella maniera più determinata e totalizzante, con l’arresto di tutti i settori produttivi, inclusi gran parte di quelli strategici, lasciando attivi solo gli avamposti medici, potenziandoli anche, e pochissimo altro. Ma ciò è potuto avvenire perché nei tre mesi che sono stati necessari alla eradicazione del morbo da quella provincia, l’altra Cina, con i suoi territori immensi, con il suo gigantismo economico e con il suo «restante» miliardo e 250 milioni di abitanti attivi, ha continuato produrre tutto l’occorrente per sé, e, in maniera piena e di fatto solidale, per la provincia immobilizzata. E sta qui la differenza con il nostro Paese.
L’Italia, come qualsiasi altra nazione al mondo, non può chiudere tutto perché collasserebbe dopo due giorni. Ha fatto comunque delle scelte, a gradi. Prima ha creato, con acume e ponderatezza, le zone rosse. Ma quando il timore di un contagio generalizzato ha preso il sopravvento, il Paese intero, dal Brennero alla Sicilia, è diventato di fatto, con decreti di emergenza, zona rossa. Quel che è avvenuto in queste due settimane è tuttavia ben noto: il virus continua ad alimentarsi ed è sempre più virulento. Si comprende allora, ad un esame disilluso dei fatti, che il provvedimento del Governo, pur importante, pur utile per tanti aspetti e perciò comprensibile, non può essere decisivo e conclusivo, anche dopo gli inasprimenti degli ultimi giorni. Per quali motivi?
L’Italia, come ogni altro paese, conta su una serie di settori economici e di attività pubbliche di rilevanza strategica che, anche nelle condizioni estreme, come quelle di una guerra devastante, non possono essere bloccati senza che si determini l’implosione materiale dell’intero sistema, economico, sanitario, sociale e civile. L’ho detto ieri ma è il caso di ribadirlo oggi, in maniera un po’ più argomentata. Non si possono fermare l’industria alimentare, la produzione agricola, l’industria farmaceutica, l’industria dell’elettricità, la gestione delle reti fognarie, la manutenzione degli autoveicoli, il trasporto merci e di passeggeri, il trasporto aereo, il trasporto marittimo, i servizi postali, i servizi di vigilanza, i servizi di pulizia urbana. Non possono essere fermati inoltre: il sistema sanitario, gli organi amministrativi dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, le attività di assistenza pubbliche e private, i corpi armati e i servizi di polizia, il sistema carcerario, i servizi funerari. E si sta parlando, si badi, solo degli ambiti più significativi.
Come si può ben capire, anche in tempo di coronavirus, si tratta di masse enormi di persone, nell’ordine di milioni, che giorno dopo giorno sono chiamati ad espletare le loro funzioni, vitali appunto, che implicano contatti materiali, relazioni, sinergie, scambi. E non può essere evitato, a ben vedere, che da questi milioni di cittadini attivi e cooperanti il morbo continui a penetrare nel vivo dell’Italia, quella che, per decreto, resta barricata in casa. È inutile illuderci: i numeri sono troppo grandi, trattandosi di milioni appunto, perché ciò non accada. Lo si è visto in questi giorni. Nella stragrande maggioranza, questi italiani attivi hanno familiari con cui vivono, madri, mogli, mariti, figli, nonni, nipoti, e in determinate ore del giorno e della notte è naturale che si ritrovino in un focolare domestico. Si evince allora, da tutto ciò, che la chiusura in casa di gran parte della popolazione non basta. Occorre a questo punto altro. Il tempo è sempre più esiguo, e si è già quasi al marasma, come nel racconto dantesco del conte Ugolino, per metterla in metafora, con i padri che rosicchiano i figli.
Dopo quasi un mese di gestione di questa crisi, senza precedenti appunto, manca ancora l’essenziale, dai tamponi alle banali mascherine protettive, a ogni altro presidio sanitario, mentre numerose categorie di malati, per sopperire alla carenza di strutture ospedaliere e di operatori medici e paramedici nelle aree più congestionate dal contagio, vengono lasciati di fatto a sé stessi, spesso senza cura. Quando ci vuole per porre fine a questo caos italiano a cielo aperto? John Rawls diceva che il governo di un paese bene ordinato, cioè civile, è legittimato a concepire la disuguaglianza solo in un caso: quando si tratta di assicurare pienezza di diritti ai più svantaggiati. In Italia, i più svantaggiati in questo momento sono diventati invece gli agnelli sacrificali. E peseranno come macigni nella coscienza di chi aveva e ha il dovere di prevenire e di fare il possibile per scongiurare il peggio.
Che fare, allora, per fuoriuscire da questa situazione apocalittica? Ritengo che possano essere compiuti ancora atti importanti, con la consapevolezza comunque che siamo arrivati davvero all’ultima spiaggia. Anzitutto, credo che sia utile tornare alla differenziazione delle aree, e alla decretazione, per quelle più colpite, nel Nord, dell’arresto di ogni attività. Si lascino operare, in tali province, solo gli avamposti sanitari. Si faccia presto a potenziarli, a moltiplicarli, a porli in sicurezza, e si congelino anche parti dei settori strategici. E, dal momento che è mancata l’azione solidale di altri paesi, che sia l’altra Italia a farsi carico di tutto quel che occorre, attivando in pochissimi giorni un’industria dell’emergenza, nell'Italia centrale e nel Sud in particolare, in cui il contagio non manifesta ancora un andamento parossistico.
Si riattivi in sostanza la vita delle aree del Paese in cui la situazione appare ancora gestibile, perché il blocco rischia di risultare, nel presente e in prospettiva, estremamente dannoso. Qui non si tratta di chiudere, come si sta facendo, ma di riconvertire con urgenza, attivare appunto un’industria straordinaria, di guerra all'infezione, mettendo in campo tutte le energie possibili. E in questo caso sì che la storia offre degli esempi: come quello, davvero luminoso, delle donne di Cartagine, che nel 146 a.C., quando la città nordafricana era allo stremo, all’unisono sacrificarono tutto, perfino i loro capelli, per ricavarne cordame, necessario per la difesa, ormai disperata, delle mura. Non servì a nulla contro gli assedianti di Scipione Emiliano, ma quelle donne ci provarono.
Pensiamo ancora alla resistenza. Pensiamo alla rivolta del Ghetto ebreo di Varsavia. Ricordiamoci dell’Italia del «fischia il vento». Siamo o non siamo i figli e i nipoti di quella generazione? Dimostriamo di esserne degni e ci si muova, subito.
Vanno emergendo prodotti antivirali già in uso che, impiegati nelle terapie contro l’infezione, stanno dando frutti. Sulla base di ciò si istituisca allora, con urgenza, in due-tre giorni, e non di più, un protocollo di cure. Si levi la voce dell’Italia che «sventola sul ponte bandiera bianca», come la Venezia del 1848 di Arnaldo Fusinato, perché si crei, subito, un organismo tecnico internazionale, di scienziati e medici, per l’approntamento di un vaccino in tempi rapidi, possibilmente entro l’estate. Si provveda a dotare l’intero paese di presidi sanitari, subito. Si provveda a sanificare gli ambienti, le scuole, gli uffici pubblici, i luoghi di socializzazione, subito.
Si chiedeva Kennedy se ci fosse un giudice a Berlino. È ora di chiedersi perché in questo momento non si levano a sufficienza voci alte e influenti, come, un tempo, quelle di Bertrand Russell, Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Albert Einstein, Benedetto Croce. Possibile che l’Occidente, che ha creato tutto, che ha inventato tutto, che si è sentito fino ad oggi padrone di tutto, debba votarsi alla catastrofe, morale oltre che materiale? Possibile che l’Italia resti, a fronte di tutto questo, attonita e spaesata?

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