Il virus dei deboli. Dalla privatizzazione dello Stato sociale alle scommesse sulle epidemie.

Il Coronavirus ha cambiato radicalmente le nostre vite ma ha lasciato indenne il virus della speculazione. Una recente inchiesta e le parole di un’esperta di salute globale ci mostrano come la sanità privata non potrà tutelare la salute pubblica.
30 marzo 2020
Luca Schepisi

Fondi catastrofe e COVID-19

A tre mesi dalla sua identificazione e a due settimane dalla proclamazione dello stato di pandemia, abbiamo ormai maturato l’idea che questo male non conosca confini. Una volta passato alla specie umana, il virus si è mosso disinvolto, non ha avuto un orientamento politico, non ha discriminato "razze" o etnie, non ha disprezzato fedi religiose o identità di genere, non ha manifestato nessuna ideologia.

Il COVID-19 non giudica, come del resto non lo farà la crisi economica che sembra dovrà seguirlo. Dell’economia condivide anche l’invisibilità, e, ancora come la nostra economia, non sembra poter essere anticipato né tantomeno controllato. Non è insolito sentirne parlare come di un “ente democratico” (quale virus non lo sarebbe?) o vederlo accostare, seppur con ironia, a divinità alle quali associamo ancora idee a noi care, come la giustizia (il riscatto di madre natura!) o l’equità (contagia i ricchi come i poveri).

Le cose non stanno esattamente così. Lo afferma Nicoletta Dentico per Repubblica, ex direttrice di Medici Senza Frontiere. Ci saranno infatti territori che subiranno effetti ben peggiori di altri. Le stesse “ricette europee” del distanziamento sociale non saranno applicabili in contesti dove il concetto di casa è indissolubilmente legato a quello di densità e dove la vicinanza dei corpi è un fatto di necessità. Sono le zone di guerra senza vie di fuga, come Gaza, Idlib, Libia o gli slums delle grandi metropoli e megalopoli o le aree densamente popolate e ad altissima disparità sociale dell'India “dove 1,8 milioni di persone non hanno una casa e 73 milioni sono prive di una abitazione decente”. Qui i corpi ammassati l'uno all'altro si faranno habitat.

I Paesi del Sud del mondo non potranno fronteggiare l'emergenza. Sono gli Stati in perenne fase di aggiustamento strutturale per ripagare il debito contratto con i Paesi più industrializzati. Quì la spesa pubblica sanitaria è praticamente nulla o inferiore a un terzo di quella italiana e il numero di letti ospedalieri (quando presenti) è prossimo a 1 ogni 1000 abitanti. Ad affermarlo è la stessa Dentico: “il Sudafrica, il Paese con il miglior sistema sanitario del continente, ha meno di 1000 letti di terapia intensiva (160 nel settore privato) per 56 milioni di persone. Il Malawi ne ha 25 per 17 milioni di abitanti. Il Primo Ministro ha dichiarato il lockdown in Uganda, nazione di 44 milioni di persone: i 60 letti di terapia intensiva sono tutti nella capitale Kampala. Prendere in carico i pazienti seriamente colpiti dal virus è una sfida praticamente insormontabile in Africa”. In queste circostanze, il Coronavirus potrebbe non trovare nessun argine a rallentarlo.

Hospital beds (per 1,000 people) by Country

Nonostante ciò sia sotto gli occhi di tutti, non sembrano esserci scenari alternativi per questi Paesi. Ce lo dimostra la logica con la quale sono state affrontate le più recenti pandemie di Ebola. Tra il 2014 e il 2016, gli Stati di Sierra Leone, Liberia e Guinea sono stati il panorama della seconda più grande epidemia mai registrata negli ultimi quarant’anni (escluso il COVID-19). Dopo quest’esperienza, la Banca Mondiale decise di coinvolgere gli investitori privati nell’acquisto di fondi pandemici per intervenire nel contrasto alle malattie infettive. Fu così che nel 2016 veniva creato il Pandemic Emergency Financing Facility (PEF). Ad oggi nulla di quei fondi è stato erogato. Come se non bastasse, dal 2017 la Repubblica Democratica del Congo è alle prese con una seconda ondata di Ebola e, nonostante i dati dell’OMS abbiano notificato oltre 2.200 morti, ancora nessun finanziamento proveniente dal Pef sembra muoversi. In una recente inchiesta, Francesco Sparano per Altreconomia ci spiega il perché.

Il PEF è un meccanismo finanziario che segue una logica privatistica di tipo assicurativo. Come in una qualsiasi polizza, i soggetti coinvolti sono 2: gli assicurati, in questo caso la Banca Mondiale e due nazioni donatrici (Giappone e Germania) e gli investitori, che acquistano delle obbligazioni e si impegnano a supportare economicamente i Paesi eventualmente colpiti dall'epidemia. A questi due soggetti si aggiungono gli stessi Stati a rischio. In cambio dell’aiuto economico (fino ad oggi solo potenziale), ogni anno gli investitori ricevono dagli assicuratori un premio. Ma, spiega Domenico Villano, collaboratore della Fondazione Finanza Etica, “se a luglio 2020 non verranno soddisfatti i criteri minimi per far scattare l’aiuto economico alle popolazioni colpite da un’epidemia, gli investitori avranno indietro il denaro investito più i premi maturati” . Ed è proprio questo il punto, “nel caso di Ebola, i criteri per liberare il pagamento richiedono che siano trascorse almeno 12 settimane dall’inizio dell’epidemia e che questa abbia causato almeno 250 morti. Il problema è che i decessi devono essere distribuiti in più di un Paese e ciascuno deve registrarne almeno 20. E così, con un numero di vittime quasi dieci volte superiore al minimo necessario per far scattare l’emergenza, la Repubblica Democratica del Congo non ha paradossalmente ancora ricevuto aiuti economici”

L’inefficacia strutturale delle obbligazioni catastrofe si fa ancora più lampante se si presta attenzione alle parole di Olga Jones, riportate sempre nell’inchiesta di Sparano. L’ex consulente della Banca Mondiale sostiene che “creare dei titoli attraenti per gli investitori privati significa disegnarli in modo tale da rendere difficile il pagamento del finanziamento e quindi la perdita dei loro investimenti”. Il rovescio della medaglia è che diventa inutile farvi affidamento e questi fondi finiscono col diventare solo un espediente per scommettere sulle tragedie. Gli unici aiuti economici fino ad oggi stanziati sono provenuti da finanziamenti pubblici.

Non sembra andare poi così diversamente per il primo mondo. Secondo un’analisi della Kaiser Family Foundation, richiamata sempre nell'inchesta, il costo medio del trattamento COVID-19 per un americano con un'assicurazione di tipo aziendale, si aggirerà attorno ai 9.763 $, ma nel caso ci saranno complicazioni le spese potranno arrivare 20.292 $, più del doppio del costo medio. Per chi invece sarà completamente sprovvisto di coperture assicurative, toccheranno i 35.000 $. Nonostante l’Obamacare del 2010, 27 milioni di americani (pari all’8% della popolazione) non dispone ancora di assicurazioni sanitarie e difficilmente potrà curarsi. Un’altra preoccupante tendenza, rilevata questa volta da Elena Molinari per Avvenire, è che dei 36 Stati americani che hanno notificato criteri che seguiranno per i casi più gravi, alcuni prevedono condizioni che discrimineranno i disabili cognitivi. L'Alabama ad esempio, nel suo documento intitolato Scarce Resource Management sostiene che i "disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione”. Ciò vorrà dire che, salvo un radicale e immediato cambio di paradigma, le fasce più deboli semplicemente non potranno curarsi.

Spesa sanitaria pro capite per Paese(dollari americani)

Se è vero che persino il mondo occidentale, mandatario autoproclamato del progresso sociale, scientifico e tecnologico, si è lasciato atterrare da quest'oppositore invisibile, è altrettanto vero che sarà molto difficile che lo lascerà agire come un livellatore. Stando così le cose, saranno i più deboli e i meno produttivi a pagare lo scotto maggiore.

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