Covid 19, dal picco al plateau: lasciamo che parlino i fatti

1 aprile 2020
Carlo Ruta (Storico e saggista)

È inutile. I numeri italiani degli ultimi giorni confermano purtroppo che nel paradigma prescelto qualcosa non funziona come dovrebbe, malgrado si continui a sostenere tenacemente il contrario, per giustificare misure che, malgrado gli esiti discutibili, stanno imponendo ai cittadini sacrifici immensi, materiali e morali, anche in termini di limitazione di diritti fondamentali. Le cause di fondo di questo stato di cose sono state già tracciate più volte in questa sede, non ritengo perciò sia il caso di ritornarci. Trovo tuttavia significativo, e sorprendente, che uno studio analitico degli ultimi giorni dell’Università di Harvard, attraverso la prestigiosa rivista «Harvard Business Review», esprima una chiave di lettura equivalente, che, come intitola mestamente «Repubblica», «boccia le misure italiane sul coronavirus» per «rischi sottovalutati e tanti errori». Vivaddio!
I dati appaiono sempre più impietosi. I contagi ufficiali nel giro di quattro settimane si avvicinano ai 110.000. I morti accertati, oggi 1 aprile, si attestano a 13.155, di gran lunga i primi al mondo, con una media, nell’ultima fase, di oltre 800 al giorno, mentre la curva dei nuovi contagi rimane alta, instabile e non proprio coerente in rapporto ai tamponi effettuati. Tutto ciò avviene, si badi, dopo ben 21 giorni di chiusura in casa imposta al Paese, quando l’inversione di tendenza, trascorsi i 10-15 giorni di rigore, avrebbe dovuto manifestarsi con una certa precisione. Il picco diventa allora un «plateau», un pianoro, cui dovrebbe seguire una discesa. Ma anche qui non emerge nulla di chiaro, né sui tempi, né sugli esiti conclusivi. Scena d peste.
Ragioniamo un po’. In Cina, la quarantena della provincia di Hubei non è stata sospesa quando si è arrivati ad una leggera inversione, ma dopo l’azzeramento dei nuovi contagi. Ora, non esistono elementi per pronosticare che questo azzeramento in Italia e in altri paesi occidentali arrivi in tempi brevi e diventi irreversibile. Nessuno azzarda in effetti previsioni del genere, mentre un semplice calo nel trend del contagio, che viene atteso ormai come l’evento liberatorio, non impedisce ulteriori risalite, alla luce peraltro di quanto accade in Spagna, in Europa, a New York. E la Cina ancora insegna: dopo aver sconfitto l’infezione, arrivata allo zero contagi, ha dovuto ripristinare alcune misure restrittive per contrastare le ondate di ritorno. È di questi giorni il caso di Hong Kong.
L’apertura per fasce di età, di cui si parla in Italia, è priva infine di alcun significato, perché i «liberi di uscire» finirebbero per infettare i «reclusi in casa». Si creerebbe d’altronde una strana situazione, un po’ compatibile con un Stato di diritto, che evoca in qualche modo quel famoso esperimento di guardie e detenuti, organizzato dall’istituto di Psicologia dell’università di Stanford e divenuto poi un film di successo. Come è noto, i ricercatori statunitensi dovettero sospendere tutto dopo pochi giorni, perché gli esiti di quel «gioco», cui si prestarono alcune decine di giovani, selezionati tra i candidati più maturi ed equilibrati, diventavano sempre più drammatici. Ad una lettura disincantata delle cose non se ne esce insomma, se non viene posta in campo, nella maniera più influente, quella prospettiva di saggezza, prudenza e freddezza che già Aristotele, sintetizzandola nel concetto di «phronesis», raccomandava nell’esercizio del buon governo.
L’infezione continua a navigare in realtà senza problemi, aprendosi spazi sempre più importanti anche oltre la linea. Si contano ormai a migliaia gli operatori sanitari contagiati e sono parecchie decine i morti tra i medici, mentre arrivano a centinaia ormai gli addetti all’ordine pubblico colpiti. E anche questo certifica purtroppo, come già detto, una scena organizzativa carente, che sconta errori metodologici e di fondo.
L’Italia non è l’America di Trump, che da un giorno all’altro ha imposto alla General Motors di produrre respiratori. Qui è tutto più mosso e precario. Ricordo che nel 1994, quando un imprenditore italiano decise di entrare in politica, nel giro di una settimana tutti gli elettori del Paese, qualcosa come 38 milioni di persone, come d’incanto ricevettero in casa, per posta, un kit con una agiografia del candidato premier, in stile «vita dei santi», un corposo programma elettorale, qualche gadget. Tutti sappiamo come andò. Ecco, lo Stato, già per definizione, dovrebbe essere in grado di fare tanto di più e di meglio, per il bene pubblico, ma da gennaio, quando ormai era chiara la marcia di avvicinamento del virus verso occidente, ad oggi, nel pieno dell’infezione e a Paese largamente immobilizzato, non si è ancora riusciti a far pervenire, gratuitamente, a ogni famiglia, casa per casa, un kit di mascherine, guanti e disinfettante. L’unica cosa che si riesce a dire è «state in casa». I risultati sono, appunto, quelli che si vedono.
L’Italia non è neppure l’Ungheria di Orbàn, beninteso. Non si discute la buona disposizione di chi governa il Paese. Le consuetudini di decenni, fatte di interessi di parte, equilibri, mediazioni, scambi e divisioni hanno di certo impedito di «riconoscere» la forza del «nemico» comune. L’Italia del «fischia il vento» ha finito con il lasciare il posto a quella, timorosa, dell’«allerta meteo». Di certo è mutato qualcosa sul piano antropologico, nella direzione che già Pasolini aveva avvertito negli anni settanta. Si è verificato perciò uno spiazzamento. Non si è compreso bene cosa stava accadendo, mentre virologi ed epidemiologi, anziché suggerire progetti razionali e coesi, perdevano tempo a disquisire e polemizzare. Penso al Titanic. Le scialuppe calate in mare prima che la nave affondasse potevano contenere almeno un numero doppio delle persone che si sono salvate. Ma il caos che scoppiò a bordo in quelle tre ore lo impedì. Fu perciò una catastrofe nella catastrofe. È un po’ la chiave di quel che sta accadendo, purtroppo, nell’Italia di oggi.
Si tratta allora di cambiare rotta, e ancora si può farlo, mettendo il Paese, quanto più è possibile, in sicurezza, attraverso condotte e progetti diversificati. Si ridefiniscano e si demarchino bene i confini delle «zone rosse», facendo convergere su tali siti il più imponente impegno di contrasto sul terreno. Ma si cominci anche a riaprire. Entro la prima metà di aprile si provveda a fornire ai cittadini, casa per casa, ma anche ai non garantiti, dai poveri senzatetto ai migranti in via di regolarizzazione, i dispositivi di protezione sufficienti per i prossimi mesi: mascherine, guanti, disinfettanti. Si decreti l’obbligo per tutti di indossare questi dispositivi quando è necessario. Si sanifichi il Paese, per intero: le abitazioni, le scuole, i luoghi di lavoro e si continui a farlo con regolarità. Si è riacutizzata la questione carceraria. Bene, perché non ricercare una soluzione attraverso un patto fiduciario, concedendo l’indulto a 10-20.000 detenuti per reati minori in cambio di lavoro solidale, di cui oggi c’è grande necessità? E si continui, ancora in tempi brevissimi, minimi, con altri atti forti e responsabili.
Si attrezzino al meglio le strutture sanitarie, come si sta facendo soprattutto a Milano. Si operi contestualmente per la definizione di un protocollo di cure idonee, senza remore e regionalismi deteriori. Si faccia il possibile per mettere in sicurezza più i deboli e gli anziani, dotandoli, quando è il caso, di presidi sanitari che di norma sono destinati ad ospedali, come schermi protettivi, tute, respiratori portatili, senza pregiudicare tuttavia la loro libertà e i loro diritti civili. Insegnanti e studenti ritornino in poco tempo a scuola, nelle migliori condizioni, igieniche prima di tutto. Riaprano i musei, le biblioteche, i parchi archeologici, i teatri, i cinema, le pinacoteche, vitali per un Paese civile. Riaprano le librerie, che, irradiando il sapere nei gangli sociali, costituiscono una risorsa in assoluto. Si riaprano i parchi e i giardini pubblici, perché il rapporto con la natura rimane fondamentale. La gente torni a riunirsi, ma con criterio. Si ritorni a lavorare laddove è possibile, ma si mobilitino risorse e soprattutto non si abbassi di un millimetro la guardia. Si prenda esempio dalla Cina, certo, ma si valutino anche altre esperienze, come quella coreana, quella nipponica, quella tedesca, quelle scandinave. Si combatta, in definitiva, e si faccia di tutto per uscire dal tunnel, non come fiori in una serra ma, mi preme ribadirlo con un grande statista asiatico, come alberi nella tempesta.

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