Un uomo di pace che si batté per la giustizia

La Pira, la vita in pareggio

Dalla costituente a sindaco di Firenze: una testimonianza evangelicamente in difesa del lavoro.
20 maggio 2005
Giorgio Boatti
Fonte: La Stampa, 10 aprile 2004

Giorgio La Pira, uno dei padri della nostra Carta Costituzionale, per breve tempo sottosegretario al lavoro nei governi De Gasperi e poi a lungo sindaco di Firenze, non nascondeva sicuramente di avere una fede. Ma aveva una visione molto personale delle opere di misericordia alle quali il Vangelo chiamerebbe non solo i cristiani ma tutti gli uomini di buona volontà: "Ebbi fame e mi desti da mangiare, ebbi sete e mi desti da bere, fui senza tetto e mi hai ospitato, fui malato e mi hai visitato. Aggiungo - lascia scritto La Pira - fui disoccupato e mi hai occupato...". In questa personalissima notazione si legge il perdurare di un impegno che si è fatto sentire non poco all'interno del nucleo ristretto che redige la prima bozza della Carta Costituzionale. In particolare laddove si tratta di affrontare il ruolo del lavoro nella futura Repubblica. E' quando, davanti alla proposta dei socialisti e comunisti di dichiarare che l'Italia è una Repubblica democratica di lavoratori, s'impone la ben più armoniosa definizione di "Repubblica...fondata sul lavoro". Dove - come viene chiarito nel corso del dibattito in aula - s'intende far emergere, attraverso queste parole, non solo una caratterizzazione economico-sociale e politica e storica del nuovo Stato ma, anche, una precisa volontà di connotazione giuridica: "Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui...". Sul tema della difesa del lavoro La Pira non si tirerà mai indietro. Quando è sindaco di Firenze, dal 1951 al 1958 e quindi dal 1961 al 1965, La Pira si trova a fronteggiare la gravissima crisi occupazionale della città. Soprattutto nei primi anni Cinquanta conduce una memorabile battaglia, che dispiacerà a tutto il fronte conservatore e metterà in allarme le gerarchie ecclesiatiche, in difesa dei tremila operai della Pignone che stanno per perdere il posto di lavoro. Altrettanto impegno dispiega per i lavoratori della Richard-Ginori, della Galileo, della Fonderia delle Cure. La Pira è convinto da sempre che sia compito di tutti coloro che hanno reponsabilità pubbliche, dentro le istituzioni o alla testa di imprese, far quadrare i bilanci. Ma il vero pareggio, a parere suo - che prima di diventare professore ordinario di diritto romano all'università fiorentina ha studiato ragioneria nella Messina poverissima e pervasa di speranze che si stava rimettendo in piedi dopo la catastrofe sismica del 1908 - non può consistere nella sfilza di numeri che si allineano disciplinatamente sotto la regia della doppia partita. "A che serve un bilancio in pareggio se non è in pareggio la vita?" chiede a chi, autorevolmente, lo richiama a rispettare le regole contabili. Questo La Pira - maturo e scomodissimo testimone di una fede e di un impegno che sia le gerarchie ecclesiastiche sia le nomenklature della politica e dei partiti guardano col trascorrere del tempo con sempre maggiore sufficienza - irrompe con forza nel volume "Beatissimo Padre. Lettere a Pio XII", pubblicato da Mondadori a cura di Andrea Riccardi e Isabella Piersanti. Non tutte le lettere si rivolgono direttamente a papa Pacelli: molte, tra le 129 missive pubblicate, vengono indirizzate a due alti esponenti della Segreteria vaticana. Ma essendo questi due interlocutori, ai quali La Pira è legato da solidi vincoli di amicizia e di stima, monsignor Giovan Battista Montini e monsignor Angelo Dell'Acqua, due strettissimi collaboratori del pontefice (Montini sino a quando non lascia Roma per l'arcidiocesi di Milano), è come se La Pira, anche quando non scrive formalmente a Pio XII, gli si rivolgesse direttamente. E la prima cosa che si nota è quanto La Pira sia diretto nel rivolgersi - come scrive Andrea Riccardi - a quella che considera "la più alta autorità religiosa... senza infingimenti cortigiani o ricerca di compiacere l'interlocutore. Siamo ben lontani da uno stile allusivo e diplomatico...". Chi ha avuto modo di scorrere altri volumi pubblicati negli scorsi anni con altri suoi epistolari (sono più di una mezza dozzina, e vanno dalle "Lettere alle suore di clausura" alle "Lettere alla sorella Peppina e ai familiari", alle missive scambiate con Gronchi e Fanfani, che furono nei primi anni cinquanta gli esponenti politici più vicini al sindaco di Firenze) sa che quando La Pira si mette allo scrittoio, e inizia una lettera, dispiega, qualunque sia il destinatario, una precisa terapia dell'anima. Della propria anima. Così La Pira spiega la cosa a mons. Dell'Acqua: "Una sola cosa non potrò mai non fare: scrivere lettere. E sa perché? Perché la lettera è per sempre, per me che la scrivo, documento di verità in cui consegno le cose che toccano la mia anima e la mia responsabilità. Quando l'ho scritta e l'ho spedita - raccomandata! - io sono tranquillo: essa giunge sempre a destinazione...". Dunque, anche quando scrive al papa, La Pira è nella convinzione che affidando alle parole che traccia sul foglio il peso del suo vivere e del suo testimoniare, già nel momento stesso in cui fa questo, Colui che davvero può comprendere, e ascoltare e venire incontro, ha già inteso. Proprio perché questo destinatario finale sta un pochino al di sopra di monsignori e cardinali. E dello stesso papa. Alla luce di questo dettaglio, nient'affatto trascurabile, molte lettere conservano - nella loro semplicità - la potenza di sigillare con forza drammatica, magari in una riga sola, la veridicità di cui La Pira si fa testimone. Verità che mette in luce le responsabilità di tutti e di ognuno. Splendida e commovente a questo proposito è la missiva dell'antivigilia di Natale del 1958 dedicata a contestare, punto su punto, la decisione da parte del S. Uffizio, vale a dire il cardinale Ottaviani, di ritirare ogni copia del volume "Esperienze pastorali" di don Milani, "giovane parroco - scrive La Pira - dall'anima di autentico apostolo". Nell'additare - con nome e cognome - coloro che vogliono imporre questa miserabile censura emerge, ancora una volta, la forza - innocente e semplice ma tutt'altro che imbelle - di La Pira.

Note: "Vogliono, le generazioni nuove di tutto il mondo, vogliono far passare la storia e la civiltà dalla stagione storica dell'inverno, alla stagione storica della primavera e dell'estate... Dicono le nuove generazioni: perché attardarsi ancora nella stagione invernale delle armamenti nucleari e della guerra? ... Le nuove generazioni hanno visto la "terra promessa" verso cui è avviata in modo irreversibile la storia presente e futura del mondo che è la via della pace".

Giorgio La Pira


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