Un essere che doveva non essere. Recensione del libro di Claudio Ciancio "Del male e di Dio"

Contraddizione infinita - Il secolo della sofferenza - Paradosso della redenzione - Il tragico cristiano - Dal male a Dio - Il circolo male-Dio - Dio è nella resistenza
30 marzo 2007
Enrico Peyretti (Recensione del libro di Claudio Ciancio)

Un essere che doveva non essere
(Claudio Ciancio, "Del male e di Dio", Morcelliana 2006, pp. 136, € 12,00)

Stendo alcune note di lettura di questo libro, il cui tema è della massima importanza per chi vuole interrogarsi e pensare sul senso delle cose. Per chi vuole. Infatti, la prima tradizionale reazione della filosofia e della religione è la rimozione del male, nei vari modi che Ciancio esamina nel 1° capitolo, e, per gli ultimi due secoli (esaminati nel 2° capitolo), ne è sia rimozione che riconoscimento, e questo, a sua volta, in vari modi e forme.

Contraddizione infinita
Il male (cap. 3), che sia rimosso o razionalizzato, è spiegato come errore, come sofferenza, come sventura, quindi appartenente inevitabilmente alla finitezza; oppure può essere visto come «contraddizione infinita», come «ciò che è ma non doveva essere». Questa interpretazione fa risalire il male a una libera responsabilità, quindi a una colpa. Anche la sofferenza e persino l’errore, se sono realtà davvero inaccettabili e inspiegabili, devono provenire in qualche modo dalla rottura inaccettabile di un ordine spiegabile, perciò da una colpa. Il male è scandaloso non perché sarebbe un’insufficienza, ma solo in quanto «ribellione e volontà di distruzione dell’essere e della verità» (pp. 39-40). E se fosse invece, il male, segno di un “disordine” iniziale: il caos da cui esce faticosamente il cosmo, o un ordine non equo?
Se è colpa, è colpa dell’uomo o addirittura di Dio? Ciancio non rifiuta la domanda. Sappiamo che Bobbio, nelle riflessioni morali degli ultimi anni, si interrogava non sul male commesso da Caino ma su quello patito da Giobbe, innocente, e chiedeva: «Chi ha fatto un mondo così atroce?» . Ciancio dice che, se il male è colpa, è qualcosa di infinito: non è un non-essere, ma «un essere che doveva non essere». Così, «il male produce altro male» come sofferenza e come seduzione; è qualcosa di «più che umano»; non solo trasgredisce la legge ma la distrugge; è qualcosa di universale, in cui siamo coinvolti, sicchè siamo tutti colpevoli, e tutti colpevoli di tutto (Dostoevskij, in I Fratelli Karamazov). Nel cristianesimo la colpa è «personale e sovrapersonale» (pp. 42-47).
Solidali nella colpa siamo tutti solidali nella sofferenza (cap. 4°). La sofferenza è riflesso della colpa. Bisogna pensare, qui, che l’Autore intenda la colpa collettiva dell’umanità, e non la colpa personale, alla quale non si può imputare ogni sofferenza, anche se la colpa personale non può dare felicità ed anzi «diffonde sofferenza su tutta l’umanità», anche sugli innocenti (pp. 51-52).
Ciancio cita Sergio Quinzio (un autore che spesso lo ispira) sul «primato della sofferenza»: nasciamo condannati a morte, in un mondo regolato dalla violenza, nel quale la virtù generosa è un eroismo paradossale, che non ha senso richiedere all’uomo. Io non riesco a comprendere del tutto questo pensiero quinziano, che mi sembra solo apparentemente profondo, e a sua volta non generoso verso la realtà intera, non incoraggiante l’impegno, anche considerando tutto l’immenso dolore del mondo: la vita è più del dolore.
Ciancio sottolinea con ragione che l’esperienza cristiana del male capisce che la sofferenza tocca anche Dio: «Le domande e accuse a Dio riguardo alla sofferenza dei più deboli e innocenti non hanno altra risposta (che non è una spiegazione) se non quella della sofferenza divina» e cita il suo maestro Pareyson: «La tragedia dell’uomo diventa tragedia divina» . Le varie teodicee non hanno mai pensato che «la sofferenza di Dio è l’unico argomento capace di difendere Dio», ma questo è un nuovo inspiegabile paradosso e una suprema ingiustizia (pp. 53-54).

Il secolo della sofferenza
Il Novecento è il secolo della sofferenza, per le sue immani tragedie, per la caduta delle tradizionali spiegazioni, per le promesse e le delusioni della tecnica sviluppatissima, che rendono sempre meno accettabile la sofferenza. Così siamo incapaci di reggerla o tendiamo a rimuoverla, con «effetti devastanti», anche perché i legami sociali e familiari indeboliti ci lasciano più soli e muti, davanti a quella «impasse della vita e dell’essere» , a cui si aggiunge il silenzio di Dio, cosicché il rischio è «la dissoluzione del senso, il precipitare nell’assurdo» (pp. 55-58).
Impasse della vita, o annuncio di altro? Anche il dolore che viene dalla natura suscita interrogazione sul perché e da chi (abbiamo sentito la domanda di Bobbio): qualche “altro” deve aver posto mano in questa interruzione, e noi non lo conosciamo se non attraverso il varco penoso della sofferenza, fuori dalle sicurezze abituali. Siamo in vera relazione con gli altri non nella fusione, né nel dominio (quando l’io si espande senza riconoscere l’altro), ma nella sofferenza condivisa. Il dolore dell’amore è amore, possiamo aggiungere, mentre ricordiamo un detto di Ceronetti: «I corpi li unisce il piacere, le anime la pena».
Non basta, per trasformare la sofferenza, vederla come un passaggio necessario: «Durch Leiden Freude», diceva Beethoven, e il Corano 94,5-6: «Con l’avversità viene la gioia». Basta la com-passione? Ciancio ricorda la famosa critica di Schopenhauer, che ne vede l’ambiguità: in essa si perderebbero identità e alterità, fino al compiacimento masochista e sadico, che ha anche non rare forme religiose. Ma se il patire insieme è relazione con un’alterità, anzi, se si sta biblicamente «di fronte» al sofferente (Isaia 53,3), allora si mantiene la insopportabilità della sofferenza e la personalità del sofferente con quella di chi patisce con lui (pp. 60-63).
Guai a chi identifica la sofferenza delle vittime con la giustizia divina: questo è «sadismo teologico che vuole intendere Dio come colui che tormenta» . Sono i riprovevoli amici di Giobbe che vogliono per forza dare un senso al suo dolore. Anche alleviata, la sofferenza resta scandalo. Né troppe parole facili e insensate, né un silenzio che l’abbandona all’assurdo sono l’atteggiamento giusto, ma quello che dà almeno una possibile speranza. E la sofferenza inutile dei bambini, dei dementi, e anche degli animali? Per Pareyson mantiene un senso solo se portata in Dio, assunta nella croce di Cristo (così diceva anche don Gnocchi, il prete dei mutilatini). La salvezza cristiana dà senso alla sofferenza senza cancellarne la inaccettabilità. Ma non è il male fatto a Cristo che produce bene: quel male non è giustificato, né necessario. Il bene è libertà che scarta il male possibile, senza bisogno di affrontare e negare un male reale. Così nell’uomo come in Dio. Ma l’uomo ha peccato e il bene della redenzione affronta questo male reale, che è l’occasione, ma non necessaria, del male fatto a Cristo (pp. 65-69).

Paradosso della redenzione
La sofferenza liberamente assunta arresta il processo di diffusione del male, perché ne assorbe le conseguenze e le risparmia agli altri: è l’espiazione per amore, tutt’altra cosa dal masochismo. Non può essere l’uomo ad espiare e redimere perché la sua sofferenza non può mai essere pura, ma solo Dio. Il paradosso cristiano è che Dio non solo soffre, ma si rende colpevole del male (Paolo, 2 Corinti 5,21). Perciò Cristo «tollit peccata mundi» nel senso che «prende su di sé» i peccati del mondo, facendosene responsabile, non li cancella con un colpo di spugna. Che Cristo debba soffrire dimostra l’enormità del male «che intacca la creazione». Ma che in questo ci sia anche l’ira divina io non posso crederlo: se Dio si assume il male, la sua giusta ira si è ormai mutata in amore per l’umanità e pena condivisa con essa. Assunta da Dio, la sofferenza viene «trasposta» da noi a lui, e ogni sofferenza comincia ad avere un senso di redenzione. Cessa lo scandalo, ma la sofferenza di Dio, che lo fa cessare, è scandalo, e più gravi si rivelano gli effetti scandalosi del male, se colpiscono Dio (pp. 73-78).
Sembra di poter capire dall’Autore: il sacrificio per i nostri peccati sacrifica Dio. La redenzione cristiana non toglie tutto il male ma addirittura lo accresce, perché il male arriva a colpire Dio. Però, direi, né noi offriamo Cristo in sacrificio, né il Padre sacrifica il Figlio, ma Dio nel Figlio si offre a noi, assumendo per noi la colpa e le pene: il male è assunto e sofferto in Cristo, in sostituzione per noi, ma così è davvero un male tramutato in bene, per atto forte di amore, quindi resta una sofferenza fisica e morale inflitta a Cristo, ma non c’è più il male ontologico, ora perdonato.
La sua entrata nella vita risorta, sopra la morte e il male, è davvero l’inizio di quella «reintegrazione dell’essere» che a Ciancio non sembra garantita dalla redenzione della Croce. Sembra a lui addirittura che, se la redenzione trasforma profondamente la nostra vita, cioè «l’identità e la storia personale di ciascuno», essa così «distrugge» la stessa libertà e identità, sostituendole ma non risanandole. E il male sarebbe incancellabile e non redimibile. La redenzione riparerebbe in parte gli effetti del peccato, ma non muterebbe «il cuore dei peccatori». Diremo dunque con Lutero: Simul iustus et peccator? Nel giudizio finale – prosegue l’Autore - «non tutto si salva e forse non tutti si salvano». È possibile una resistenza «anche al Dio redentore»: è l’idea dell’inferno (pp. 79-81).
Certo, resistere all’amore che salva è possibile, restare nel male è possibile, finire nella morte che rimane morte, cioè nel nulla, per rifiuto della vita eterna, è possibile (e questa mi pare l’unica possibile maniera cristiana di pensare l’inferno, non assolutamente la pena eterna ribadita da papa Ratzinger): c’è infatti questa potenza della libertà. Non sarebbe perdono quello dato senza libertà che lo accolga.
Per Ciancio la salvezza è un paradosso, sintesi senza mediazione di due contrari: l’enormità del male, la radicalità della redenzione.

Il tragico cristiano
La forma autentica di cristianesimo, per l’Autore, è il «cristianesimo tragico» (cap. 5°), in cui «il male e Dio si implicano reciprocamente». Il male è tragedia inconciliabile. Non si tratta della tragedia antica (contrasto tra la volontà dell’uomo e degli dei), né della tragedia moderna (conflitti tra individui, società, potere, e conflitti interiori). La tragedia suppone un’unità originaria, o come dover essere, o come essere reale. La tragedia classica o moderna tende alla conciliazione (fato, catarsi, razionalità del reale). Nel nichilismo contemporaneo, perduta ogni unità originaria, semplicemente «la tragedia si dissolve» (pp. 83-94).
Come hanno capito solo pochi pensatori cristiani, il cristianesimo comprende più radicalmente il tragico inconciliabile: la condizione dell’uomo in Pascal, il rischio assoluto della fede in Kierkegaard, la cotraddizione in Dostoevskij tra la redenzione e la sofferenza assunta dal giusto, neppure sempre efficace. Così, «questo è precisamente il tragico: che l’opera della redenzione esiga un aggravio spaventoso del male dell’universo (…) la colpa del più santo e la sofferenza del più innocente». La fede tiene insieme la contraddizione, ma non la supera. È questo il pensiero tragico di Pareyson (pp. 95-101).
Eppure, si può pensare – mi sembra – che la redenzione salva perché il male, nel tentativo di trionfare sul giusto, nella sua pretesa massima di distruggere il bene vivente, di ucciderlo sulla croce – pretesa alla cui sfida il bene si sottopone col coraggio della fede piena – viene esso vinto, assorbito, ingannato, trasformato, certamente solo in via incoativa e potenziale, sicchè la coce da segno di morte diventa segno di vita.
Il pensiero tragico – continua Ciancio – non è pessimismo né ottimismo, due soluzioni unidirezionali, ma pensa la lacerazione e il paradosso, custodisce l’esperienza del male, sa soppportare la contraddizione, a differenza del nichilismo che banalizza il male, o della religiosità consolatoria e tranquillizzante. Il senso tragico mantiene l’esigenza di lotta implacabile contro il male, che altrimenti è accettato o tollerato. I segni di ferocia, di distruzione e autodistruzione del nostro tempo, che percorrono l’occidente e sono esportati nel mondo, dimostrano che le strategie di riduzione del male non fanno che prepararne il dilagare. «Questa tragedia dell’inconsapevolezza della tragedia e dell’incapacità di riconoscerla e sostenerla, questa tragedia alla seconda potenza, è la conferma della dialettica del tragico, anche se ormai non più nella sua forma cristiana» (pp. 102-103).

Dal male a Dio
Può sorprendere il titolo del 6° capitolo: «Il male come “prova” dell’esistenza di Dio». Ciancio non intende una prova come passaggio automatico, ma vuol dire che «male e Dio non possono essere riconosciuti l’uno separatamente dall’altro, ma soltanto insieme, tanto è vero che, quando vengono separati, finiscono per negarsi entrambi» (p. 130). Solo nella fede nel Dio cristiano è riconosciuta la profondità del male, e «solo passando per l’esperienza del male si giunge alla fede nel Dio dei cristiani» (p. 105). Qui penso che dalla reazione al male viene la ricerca del bene e del vero, così come dall’orrore della violenza inizia la riflessione sulla nonviolenza e sulla pace .
Esaminato il rapporto tra religione e filosofia in alcuni maggiori filosofi contemporanei, l’Autore riconosce che «la filosofia è prevenuta dalla verità», dalla «coscienza di una verità più originariamente esperita», e afferma che ciò non infirma la criticità della filosofia, perché è criticità proprio «il riconoscimento che la ragione fa dei suoi limiti e della sua provenienza». Però, la filosofia non è solo una giustificazione, bensì una radicale libertà critica, cosicché essa «presuppone l’esistenza e le sue convinzioni, ma sempre di nuovo le mette in discussione, fino ai suoi fondamenti ultimi»; essa è anche «sospensione e valutazione delle convinzioni ultime» per certificarle dopo averle poste «nella loro pura possibilità» (pp. 109-112).
Le prove tradizionali dell’esistenza di Dio sbagliavano nel non vedere che il passaggio dal finito all’infinito può essere solo esistenziale, e solo dopo può diventare razionale. Inoltre non riconoscono che la condizione di peccato interrompe e occulta la relazione del finito con Dio. Capovolgendo l’argomento del male come ostacolo all’esistenza di Dio, Tommaso d’Aquino affermava: «Se c’è il male, Dio esiste» , ma questo passaggio dal male a Dio dipendeva dal concepire il male come semplice privazione di bene. Ma se il male, scrive Ciancio, si presenta in forme più potenti e radicali che la semplice privazione «finisce per travolgere anche Dio». Se questa minaccia viene sterilizzata, resta sterilizzato Dio stesso. Così l’ateismo e indifferentismo contemporanei, effetto di una risposta insoddisfacente alla relazione tra il male e Dio, negano sia Dio sia il male (pp. 113-116).
Leggendo l’argomento di Tommaso annotavo: il bene assume rilievo dal male non perché il male sia un vuoto nel bene, ma perché il bene è il criterio, il valore, il metro di giudizio, la realtà che misura e qualifica il male come male. Senza quel criterio, il male sarebbe… normale, né problema né scandalo. Un bene consistente appare nell’atto di giudicare e sfidare il male consistente (non solo una carenza di bene), persino quando il male schiaccia il bene (come nella croce di Cristo). Proprio in ciò si dichiara ed è dichiarato e giudicato come male attivo e potente, sì, eppure in questo atto stesso giudicato, vinto, superato. Infatti, l’offesa fatta alla vittima non toglie il suo diritto, la sua dignità, la sua verità, ma persino li esalta nel tentativo di eliminarli. C’è anche una impotenza del male. Nel caso del supremo innocente, Cristo, egli persiste nell’essere, nella vita superiore, perché vede e conosce il male, lo affronta e lo assume, lo avvolge e lo abbraccia e persino lo ama, per ricuperarlo. Il male, invece, odiando e offendendo il bene, si autogiudica e si autodistrugge, non senza imporre al bene che lo ama, sofferenza e dolore, i quali non sono il male, ma la sua ombra, impronta, ferita, cicatrice, prezzo della amorosa vittoria del bene.
Ciancio cita Berdjaev: «L’esperienza del male orienta l’uomo verso un altro mondo e provoca una santa insoddisfazione di questo»; Pareyson: «Non c’è indizio più sicuro della divinità che la realtà stessa del male, e l’esperienza del male è il miglior accesso a Dio»; Levinas: il male è «eccesso», «rottura della normalità», «una mostruosità», ma, in questo senso, una trascendenza (pp. 117-118).
Può trattarsi solo, in questi pensieri, del rinvio ad un altro mondo inutilmente desiderato? Oppure, nell’impatto col male scatta anche una luce presente, che mostra il male come male, cioè come rovescio del diritto, falsificazione del vero? Viene in mente quel pensiero ripetuto da Simone Weil: quando un essere umano (e perché no, anche un animale) grida «Perché mi vien fatto del male?», può sbagliare sulle cause e i soggetti, «ma il grido è infallibile» . L’offesa porta alla verità.
«La trascendenza guadagnata attraverso il male – torniamo a leggere Ciancio – si può legittimamente definire come Dio, almeno in quanto si può chiamare Dio quell’assolutamente positivo di fronte al quale il male appare come ciò che non doveva essere». Poi riconosce che è possibile ritrovare tracce di infinitezza nel finito, che rinviano in modo immediato all’infinito, ma bisogna dire che «la trascendenza non è veramente incontrabile se non si attraversa la frattura che separa il finito dall’infinito, la frattura prodotta dal male». Non abbiamo altra esperienza della trascendenza che questa, «non solo della differenza, ma anche della separazione ed anzi della lacerazione». «Le esperienze del divino che ne prescindono finiscono per immanentizzarlo e dunque per perdere la trascendenza», come accade in varie forme di religiosità contemporanea. Nel non riconoscere il male, quindi nel dimenticare l’assoluta differenza nella somiglianza dell’uomo con Dio – in ciò è consistito il peccato originale – sta la radice del possibile oblio della trascendenza (pp. 119-123).

Il circolo male-Dio
«Se Dio è guadagnato attraverso il male, allora si può anche pensare» che esso «entri in qualche relazione con l’essere divino». Dio «si pone in relazione, anche se soltanto negativa, con il male», come esprimono i simboli cristiani dell’incarnazione e crocifissione. «La libertà, anche quella divina, non si può pensare senza la posizione della possibilità del male», una possibilità che «non è estranea a Dio». Nei simboli cristiani Dio è coinvolto nel male, e ciò rivela un altro suo aspetto: «non più soltanto l’infinità della sua potenza, e neanche soltanto l’infinità della sua libertà, ma anzitutto l’infinità del suo amore. Forse solo un Dio come questo può ancora dire qualcosa all’uomo di oggi». Dio ha senso solo come senso del mondo, che però ha perduto il proprio senso, ma così Dio non si riferisce più a nulla, diventa un concetto vuoto. «A Dio possiamo assegnare un significato reale solo come negazione del male e della frattura, o meglio come domanda, interna al mondo, che la frattura sia superata». Ma allora le rappresentazioni di Dio non devono pretendere di coglierne l’essenza, quanto significare «l’opzione esistenziale per la libertà e per il bene», «l’assunzione di responsabilità nei confronti del male e per la possibilità della salvezza». I concetti teologici hanno questo senso solo se strettamente legati a simboli, come quelli cristiani, che esprimono la contraddizione «fra il negativo del mondo e l’aspirazione alla salvezza che da quella negatività si leva, come inestinguibile protesta contro questo stato di cose e come domanda incessante che vi sia e si manifesti un senso» (pp. 124-126).
Il Dio che possiamo conoscere è un Dio che lotta contro il male, ma così il male si aggrava perché colpisce Dio. Lo scandalo «non è che Dio permetta il male, ma che il male venga redento attraverso la sofferenza divina; nonché risolverla, il cristianesimo aggrava, contrariamente a quel che sembra, la questione del male». Questa è l’idea centrale del libro di Ciancio. «Il rapporto male-Dio si chiude come in un circolo (…): il passaggio dal male a Dio si converte in un passaggio da Dio al male», ad un male aggravato. «Se il male appare come ciò che non doveva essere, che non può essere né giustificato né tollerato né mediato, è perché è negazione di Dio. Solo di fronte a Dio il male è male, ed è perciò comprensibile che l’altra soluzione principale della contraddizione introdotta dal male – dopo quella che consiste nella sua riduzione – sia la negazione di Dio (è la soluzione di Ivan Karamazov e poi di Nietzsche)».

Dio è nella resistenza
La voce di Dio non si ode più nella natura diventata lontana e indecifrabile, né nella storia che ha esaurito ogni spinta progressiva, ma solo «là dove la morte e soprattutto la morte dell’innocente continua ad apparire come ingiustificata e inconciliabile, inaccettabile e inconsolabile». «La presenza di Dio si manifesta nella presa di posizione, senza compromessi, di fronte a questo male, nel lasciarsi toccare dal suo orrore e dire no, in una resistenza morale». La quale è molto debole perché può arginare gli effetti più devastanti del male, ma non presume di poterlo distruggere «se non in virtù di un miracolo»; ed è molto forte perché è intransigente e ferma, ma soprattutto perché «poggia sulla promessa del regno di Dio, sull’attesa, intransigente e incontentabile, della salvezza», senza di che sarebbe «resistenza disperata e tentata di venire a patti con il male». «Il riconoscimento di Dio non avverrebbe se Dio non fosse già all’origine del riconoscimento del male, se non fosse già il principio della protesta», che «lo rivela e lo esalta come male». «Quando l’esplicitazione dell’esistenza di Dio e della nostra relazione con lui resta bloccata, allora si finisce per dissolvere anche il male»; allora «il male diventa natura (mostruosità metamorfica) oppure fatto plumbeo e implacabile, che finisce paradossalmente per coincidere con Dio: padre lontano, severo e senza amore, Dio coincide con un male senza Dio. Ma in questo modo anche il male non è più male, perché è elevato a principio supremo di un ordine cosmico, che, per quanto insensato, non può che essere accettato, dal momento che manca un’altra istanza ontologica a cui appellarsi».
La filosofia non può provare né convincere, può solo mostrare il circolo male-Dio, e far vedere qual è la posta in gioco: «Nella negazione di Dio sono messi in gioco il riconoscimento del male e la resistenza ad esso; nella negazione del male sono messi in gioco il riconoscimento di Dio e la fede in lui» (pp. 126-131).

Enrico Peyretti, 30 marzo 2007

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