Il lavoro costruttivo della pace: "Beati quelli che si adoperano per la pace"
Questa beatitudine si trova solo in Mt 5,9: «Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Il termine greco è eirenopoioi: quelli che fanno, producono la pace. Non mi sembra utile l’italiano pacifici, perché a noi suona: non offensivi, alieni da contese per “stare in pace”, la propria e non la pace di tutti. Così pacificatori, usato anche per le azioni belliche tese ad imporre la pace del vincitore, come l’inglese peacemakers, mi sembra. Altre traduzioni: Artisans de paix; Ceux qui procurent la paix; Quelli che diffondono la pace; Operatori di pace; Friedfertigen; Los que trabajan por la paz.
Alberto Maggi (Le Beatitudini, Cittadella editrice, Assisi 1997, da cui prendo qualche altro spunto) propone tre diverse traduzioni: pacificatori (letterale); costruttori di pace (teologica); quanti lavorano per la felicità-benessere dell’uomo (pastorale). Sul termine pacifici scrive addirittura: «I pacifici non costruiscono la pace». Egli predilige l’espressione «uomo di pace»: è questo il titolo che Ernesto Balducci amava attribuirsi.
Dunque, rendono bene l’idea evangelica verbi dinamici e operativi, come nella versione propostami nel titolo. L’idea di pace, che in antico si identificava nella «tranquillitas ordinis», ideale assenza di conflitti, oggi, in una visione dinamica del reale, si identifica meglio nella capacità (personale e sociale) di trasformazione nonviolenta dei conflitti (è la nonviolenza positiva). I conflitti, infatti, sono parte della vita, persino «occasione di verità» (Gandhi), e soltanto se gestiti in modi e con mezzi distruttivi diventano guerra, offesa e dolore. Ma, elaborati in modo costruttivo, sono atti di crescita della vita, soluzioni positive di tensioni tra persone e gruppi.
C’è di più. Il lavoro costruttivo della pace che riconosce e accoglie le differenze è espresso bene dal verbo adoperarsi, che è più di operare: il verbo riflessivo dice un lavoro in cui la persona agisce su di sé e attorno a sé; un lavoro che non è solo una mediazione diplomatica esterna, né solo una soluzione tecnica oggettiva, ma si riflette sull’operatore.
Il costruttore di pace riconosce la necessità primaria del lavoro su di sé, di questo adoperarsi. Lo strumento dell’opera è la persona stessa, strumento vivo, libero, intelligente, dedicato. Nel lavoro per la pace, dunque, si combinano senza confusione spiritualità e sociologia, fedi e religioni, psicologia e pedagogia, morale e politica, storia e antropologia, realismo e speranza. Le scienze per la pace, che cominciano a darsi uno statuto anche in alcune università italiane, sono un insieme di discipline umane in profonda interazione. L’annuncio-appello evangelico contribuisce senza integralismi alla formazione dell’«uomo di pace». E, nel contempo, conserva l’altezza profetica che sta come orizzonte davanti al cammino storico graduale della pace politica, entro il possibile e il necessario.
La pace è un dono promesso, da invocare, ma, secondo questa beatitudine, è altrettanto impegno, lavoro nostro. Il famoso annuncio di Isaia (32,17) che la pace è opera e frutto della giustizia, ribadisce che è una fatica, un lavoro, un atto della volontà concreta, non un ideale astratto, ma un bene costruito, con la forza interiore data dallo Spirito, nelle circostanze storiche concrete.
La pace è sia una qualità interiore delle persone sia una qualità delle relazioni tra persone e gruppi umani, e delle strutture sociali, giuridiche, culturali entro cui si svolgono tali relazioni. Non vale separare le cose. C’è un circolo reale tra persone e strutture, che non va spezzato in spiritualismo da un lato e sociologismo o politicismo dall’altro. È importante che le persone siano buone nel cuore, ma è vero anche che persone buone in strutture cattive, inique, fanno cose oggettivamente cattive.
Invocare e accogliere la pace interiore, come fanno le persone religiose, è necessario, ma non sufficiente: occorre «adoperarsi» nel mondo umano, ognuno come sa e può, poiché nessuno sa fare tutto ma tutti sappiamo fare qualcosa per la pace nella società, che oggi è l’umanità intera.
Adoperarsi per la pace costa. Guerra e ingiustizia sono forze potenti che respingono e perseguitano chi vuole costruire giustizia e pace, ripudiando la guerra, la violenza diretta, e smascherando le ingiustizie consolidate, la violenza strutturale. Perciò la beatitudine di Mt 5,9 continua nella successiva: «Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia». (5,10-12). Giustizia, qui, è la giustizia degli uomini di pace e la giustizia nei rapporti umani.
E ancora, alla beatitudine del lavoro per la pace si connette una sofferenza: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34-36). Quell’impegno può essere non felice, ma dolorosa causa di divisioni. Eppure è dichiarato felice, beato, chi lavora alla pace-benessere-felicità di tutti.
Se la pace è indissolubile dalla giustizia, la beatitudine della pace è legata anche a quella dei poveri, cioè di quanti intimamente scelgono di essere liberi da ricchezza, prestigio, potere, che offendono la pace.
Nell’AT la ricompensa dell’uomo di pace era un’ampia discendenza, nel NT è lui stesso questa discendenza, e non di un uomo ma di Dio: i costruttori di pace «saranno chiamati figli di Dio». «Dio li riconoscerà figli suoi». Sono figli suoi, perché lo hanno accolto (Gv 1,12-13). Somigliano a lui per la pratica di un amore simile al suo (Ef 5, 1-2). La loro non è solo una ricompensa ultraterrena, perché già ora sono in piena comunione di figli con il Padre (Gal 4,6-7).
«L’intima relazione che viene a instaurarsi tra i costruttori di pace e Dio prescinde dalla necessità di appartenenza a un determinato popolo o religione e si estende verso quanti, credenti o no, lavorano per la felicità degli uomini» (Alberto Maggi, cit., p. 148).
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