Disagio della civiltà cristiana

Come intendere la civiltà? Il cristianesimo è una civiltà? Essite una civiltà cristiana? Il seguace di Cristo è più, meno, diversamente civile di chi non lo segue? Quale idea dell'uomo nella fede cristiana?
29 luglio 2007
Fonte: L'ospite ingrato - Il disagio nella civiltà cristiana - Semestrale del Centro Studi Franco Fortini - Anno nono n. 2, 2006

"Disagio della civiltà cristiana"
di Enrico Peyretti

Pubblicato in L’ospite ingrato, Semestrale del Centro Studi Franco Fortini, (ospiteingrato@prometeo.lett.unisi.it), Biblioteca della facoltà di lettere e filosofia, via Fieravecchia 19, 53100 Siena, n. 2 / 2006, "Il disagio nella civiltà cristiana", alle pp. 15-27; Edizioni Qoudlibet, Macerata 2006

Per prima cosa direi: se la civiltà cristiana è quella che intendono e “difendono” i “teo-con” transatlantici e nostrani, o certi padani, ancorché ministri, che fanno del cristianesimo l'identità nazionale e considerano l’immagine dell’uomo crocifisso non più memoria di Gesù, ma stemma nazionale (così anche una sentenza del Consiglio di Stato), allora non si tratta di disagio ma di disgusto di tale civiltà. Ma, messe via le trivialità, va detto che ogni “civiltà” che si indurisca in una ossessione identitaria, sprezzante e aggressiva per mania di superiorità, crea disagio e anche peggio, specialmente nel mondo di oggi, posto davanti alla più stretta alternativa tra incontro o scontro di civiltà.
Non so se ci sia, ci sia stata, o possa esserci una civiltà cristiana. Probabilmente ci può essere (e per me è bene che ci sia), un lievito cristiano nelle civiltà, cioè elementi di ispirazione cristiana nelle varie civiltà. Se una determinata civiltà presume di dirsi cristiana, se il cristianesimo ritiene di prender corpo traducendosi in una civiltà storica, temo che ciò dia luogo a varie forme di disagio, non solo per i non cristiani, ma anche (e soprattutto) per i cristiani.
Il tema datoci – il disagio della civiltà cristiana - condurrebbe a ricalcare Freud, col suo sospetto sulla “civiltà”, ma anche con l’affermazione della sua necessità. Egli parla della nostra civiltà europea, che di lì a poco difenderà, nella lettera ad Einstein del 1932, contro il male della guerra che la nega. L’analisi freudiana presuppone una determinata antropologia filosofica. Ma di agi e disagi di una civiltà possiamo parlare anche indipendentemente dalla concezione freudiana.
Per parlare della civiltà cristiana e del disagio che essa eventualmente impone, bisognerà partire da alcune domande: come intendere la civiltà? Il cristianesimo è una civiltà? Esiste o è esistita una civiltà cristiana? Quale la sua specificità? Il seguace di Cristo è più, o meno, o diversamente “civile” rispetto a chi non lo segue? Qual è l’idea dell’uomo propria della fede cristiana?

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Intendo “civile” (da civis) come la qualità di una persona capace di vivere in società, nella polis, con gli altri, e quindi come la qualità di un aggregato di persone mediamente capaci di vivere così. La qualità opposta è quella del “selvaggio”, non uscito dalla selva. Quella capacità presuppone lo sviluppo (coltivazione, cultura) delle qualità umane positive, comuni, universali, atte al riconoscimento reciproco pacifico, costruttivo e non distruttivo, e dunque la capacità elaborata di comporre nella convivenza le differenze personali, la «insocievole socievolezza» (Kant) di ciascuno.
Solo secondariamente civiltà può significare lo sviluppo di mezzi tecnici (civiltà della tecnica) e organizzativi utili a superare pericoli e disagi e ad agevolare le esigenze e comodità della vita umana. Il computer che sto usando, l’una o l’altra delle tante buone macchine che ci aiutano a vivere (non senza qualche danno collaterale, certo), sono componenti ormai necessari del nostro vivere, lavorare, muoverci, esprimerci e comunicare da umani. Tuttavia, una società ricca tecnicamente ma con bassa capacità di convivenza pacifica, al proprio interno come verso l’esterno, difficilmente può essere detta seriamente civile. Così, non può essere sul criterio dell’attrezzatura materiale o giuridico-istituzionale, pur relativamente utile o necessaria alla umanizzazione, o tanto meno sul criterio dell’attivismo competitivo o peggio dominativo, che si potrà valutare quale società è più “primitiva” e quale più civile.

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Se assumiamo il prima e il dopo come criteri di valore, paradossalmente ogni società, col passare del tempo, diventerebbe migliore in umanità. Pare a volte di vedere questo criterio – il successivo superiore al precedente – esteso dal campo tecnologico, dove effettivamente ogni strumento può essere perfezionato in utilità ed efficienza con continuità, al campo del progresso civile e morale, dove invece ogni generazione ed ogni persona in un certo senso deve ricominciare da capo, potendo far tesoro del cammino precedente, ma potendo anche perderlo. Così, viene a sembrare primitivo, nel senso di inferiore, un livello civile di ieri rispetto a quello di oggi. Un esempio attuale: ritenere vecchia e superata nella sostanza la Costituzione italiana solo perché ha sessant’anni di età, e adottare come superiori certi sopravvenuti principi politici estranei e dimentichi di quella dura esperienza, fondativa di valori civili universali, che l’Italia fece con la vergogna della dittatura, il dolore della guerra, l’onore della Resistenza.
Ma se assumiamo quei termini – prima e dopo - come semplici dati temporali, potrebbe riscontrarsi che una società è dapprima più civile e poi meno civile. Certe società, secondo vari antropologi, hanno vissuto epoche di matriarcato vitale e pacifico, seguite da epoche di patriarcato guerresco necrofilo. Allora, queste seconde epoche sono in verità “primitive”, cioè tornate indietro nella via dell’umanizzazione. Oggi, la nostra civiltà è sviluppata o primitiva?

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Dal punto di vista della nozione di uso comune «l’unica vera e propria forma di civiltà è quella dell’occidente cristiano perché solo presso i popoli dell’occidente cristiano la religione, l’arte, il “sapere disinteressato” della scienza hanno goduto, salvo periodi relativamente brevi, il maggior favore» (Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet 1971). La religione dell’occidente, il cristianesimo, è qui una componente di quella civiltà. È più facile sentirsi e giudicarsi maggiormente civili quando non si hanno molte occasioni di confronto (dico nella convivenza quotidiana, non nello scontro bellico mortale, o in un rapporto di conquista e dominio) con altre forme di vita civile. L’aumento odierno di queste occasioni, grazie alle migrazioni e comunicazioni, relativizza in noi quella convinzione, già insidiata da esiti non tutti davvero felici del nostro modo di vivere. Nel contatto quotidiano si incontrano forme di vita che non sentiamo nostre, ma si impara anche, volenti o nolenti, che l’umanità nel mondo vive in tanti differenti modi possibili e passabili.

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L’etica dell’unità umana, cioè del valore inviolabile dell’umanità riconosciuta e venerata in ogni altro essere umano, giudica tutte le culture, le filosofie, le religioni, le politiche, le economie, tutte le civiltà. Tutte le vie umane sono giudicate dall’etica di pace nonviolenta, cioè dal «rispetto della vita» (Albert Schweitzer), da quel nucleo di etica universale oggetto di alcune ricerche (Hans Küng, Pier Cesare Bori e altri). La “regola d’oro” (ne ho raccolte circa venticinque formulazioni analoghe dalle più diverse culture) già esprime quella equi-valenza, parità di valore essenziale tra tutte le persone, direzione e misura di umanizzazione della nostra umanità.

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Si può dire che “democratico” è oggi sinonimo di “civile”, se nel concetto di democrazia non si pone soltanto la procedura di delega elettorale del potere, ma vi si include il necessario rispetto universale dei diritti umani. Già Gandhi affermava nel 1940: «La mia concezione della democrazia è che sotto di essa il più debole deve avere le stesse possibilità del più forte. Questo può avvenire soltanto attraverso la nonviolenza», cioè la giustizia sociale e la gestione pacifica dei conflitti, all’interno come all’esterno. E continuava con un molto severo giudizio, che non possiamo liquidare in fretta, sulle democrazie occidentali (cfr Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp.140-141). John Rawls, nel cinquantenario di Hiroshima, posti sei principi o postulati che impegnano «una società democratica decente», pur dentro i vecchi limiti dello jus in bello, conclude esplicitamente che, in quella circostanza, quello di Truman fu un «fallimento come uomo di stato» e implicitamente che, così governato, il suo paese non fu «una società democratica decente» (Hiroshima, non dovevamo, I libri di Reset, Donzelli 1995, pp. 19-32). Oggi si estende, per amore o per forza, la democrazia. Anche la civiltà?

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Il cristianesimo è una civiltà? È certamente una “via”, un progetto di vita, una dottrina e una pratica sull’esempio della vita e dell’insegnamento di Gesù di Nazareth, riconosciuto dai suoi discepoli come l’uomo che meglio ha riflesso e realizzato nella propria persona ed esistenza il sogno di Dio nel creare e chiamare l’umanità, tanto che i cristiani vedono in lui la presenza stessa di Dio nella nostra umanità (incarnazione) e l’uomo nuovo, il nuovo Adamo, rigeneratore dell’umanità sviata. Ciò sarebbe piuttosto una cultura, concetto che troviamo definito come «un sistema storicamente derivato di espliciti e impliciti progetti di vita» (Ralph Linton), oppure come «il complesso delle conoscenze, delle credenze, dei modi di comportamento, delle convenzioni e delle aspettative dell’uomo» (Ida Magli). Rispetto alla cultura, la civiltà può essere distinta come «l’armamento, cioè l’insieme degli strumenti di cui una cultura dispone per conservarsi, per affrontare gli imprevisti (…), per superare le crisi e per rinnovarsi e progredire» (Abbagnano). In genere, si usano i termini cultura e civiltà come sinonimi o quasi (così ho fatto anch’io finora). Ora trovo utile distinguerli nel modo proposto – cultura nel senso di un sistema di progetti di vita, una coltivazione delle esistenze personali; civiltà nel senso di insieme degli strumenti che una cultura si dà per la convivenza e il cammino delle esistenze personali nella polis comune; cultura come orientamento, civiltà come organizzazione – perché mi sembra che, in questi significati, il cristianesimo possa essere visto come una cultura, ma non come una civiltà.
In quanto il cristianesimo, da immediato annuncio e proposta di vita evangelica (cultura di vita) diventa chiesa storica, esso tende a diventare una civiltà quando e dove una chiesa riesca a permeare tutta una società offrendole la propria attrezzatura di senso per organizzare il vivere. La Chiesa (ekklesìa, convocazione) in quanto comunità organizzata e strutturata in istituzioni e regole, non solo in quanto evento, e per sua natura missionaria, appare come una forma di civiltà, strumento per una cultura di vita evangelica. Gesù stesso, sembra chiaro dai testi evangelici, avrebbe affidato ai compagni il mandato di portare il suo messaggio di salvezza e di chiamare tutti a viverlo, ed avrebbe costituito almeno un nucleo di organizzazione apostolica. Eppure, l’immagine che possiamo trovare nei vangeli, della comunità dei discepoli nella storia, non è quella di una totalità sociale cristiana, ma di un lievito nella pasta, di un seme nel terreno, di un piccolo gregge, che subisce anche, normalmente, il rifiuto violento del mondo e la persecuzione. Soltanto sull’orizzonte ultimo del tempo è possibile vedere l’immagine del seme diventato un grande albero che accoglie tutti gli uccelli del cielo, e del banchetto universale.
In quanto il Vangelo trascende sempre ogni realizzazione personale e comunitaria, l’istituzione cristiana resta continuamente giudicabile alla luce stessa del Vangelo che porta e intende trasmettere, fino alla possibilità di riscontrare una inadeguatezza, indegnità, opposizione tra istituzione e scopo, tra Chiesa e Vangelo. La critica della Chiesa, dalla rivolta evangelica di Lutero alla radicale denuncia di Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore, ai tanti fermenti riformatori o ereticali di ogni tempo, fa parte costitutiva del rapporto dialettico fisiologico tra cristianesimo e cristianità, tra cultura e civiltà cristiane. E quando, qua o là nella storia, la Chiesa ha creduto di poter assimilare a sé, per assimilarla al Vangelo, tutta una società, si è visto snaturarsi il messaggio, da fermento intimo in struttura esteriore, senza spirito.
Ricordo che, con uno dei suoi paradossi-verità, David Maria Turoldo diceva: «Il cristianesimo è impossibile perché c’è la Chiesa». Certamente, neppure lui pensava una vita cristiana solitaria, senza l’accompagnamento della comunità ecclesiale, ma pensava che la fede è più importante dell’organizzazione della fede, e che questa, ad un certo punto di eccesso, può soffocare la fede. Parlava della Chiesa fattasi civiltà troppo strutturata, cristianità, a danno del fermento evangelico. Negli anni del Concilio si diceva: Chiesa tenda, e non tempio.
Si tratta del grande tema intuito e posto da Dietrich Bonhoeffer, di un cristianesimo non “religioso”, potremmo dire un cristianesimo senza cristianità, senza civiltà cristiana. È possibile, non è possibile? Ugo Perone, studioso di Bonhoeffer, precisa che «egli continua a pensare che per la vita cristiana è assolutamente necessaria la Chiesa, naturalmente non come istituzione. Il cristianesimo non può essere vissuto in solitudine dal singolo che si rapporta a Dio, bensì in una comunità. Ora, come si possa vivere il cristianesimo in forma non religiosa è l'elemento problematico» (intervista a Liberazione, 10 febbraio 2006). In effetti, tutto il tema della civiltà cristiana, con le sue luci e le sue ombre, belle le une, anche spaventose le altre, sta in questa domanda, se e quanto la vita cristiana ha bisogno di strutturarsi, se e quanto può continuamente rialleggerire le strutture di cui può aver bisogno, così come l’aria di una stanza abitata ha bisogno di essere protetta dalla finestra chiusa, e nello stesso tempo ha bisogno periodicamente di spalancare la finestra per cambiare l’aria attingendone nuova dall’esterno.

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Ma, dicendo cristianesimo, cosa intendiamo? Secondo i casi, le sensibilità, gli accenti, possiamo intendere il nucleo evangelico, oppure la pluriforme dottrina storicamente formatasi dall’insegnamento di Gesù, oppure l’organizzazione ecclesiale (anch’essa diversificata), oppure le società e le culture informate dal fermento cristiano. Secondo queste differenze risponderemo diversamente, o in gradi diversi, alla domanda se il cristianesimo è una civiltà, e se tale civiltà agevola o impedisce la realizzazione dell’umano nelle persone.
Molti spiriti attenti, anche non professanti la fede cristiana, riconoscono che il modello cristiano di persona umana è grande e alto, tutto sommato benefico e liberante. Ricordo una pagina di Umberto Eco: «Quest’uomo [nell’ipotesi che Dio non sia], per trovare il coraggio di attendere la morte, diverrebbe necessariamente animale religioso, e aspirerebbe a costruire narrazioni capaci di fornirgli una spiegazione e un modello, una immagine esemplare. E tra le tante che riesce a immaginare – talune sfolgoranti, talune terribili, talune pateticamente consolatorie – pervenendo alla pienezza dei tempi ha a un certo punto la forza, religiosa, morale e poetica, di concepire il modello del Cristo, dell’amore universale, del perdono ai nemici, della vita offerta in olocausto per la salvezza altrui. Se fossi un viaggiatore che proviene da lontane galassie e mi trovassi di fronte a una specie che ha saputo proporre questo modello, ammirerei soggiogato tanta energia teogonica, e giudicherei questa specie miserabile e infame, che ha commesso tanti orrori, redenta per il solo fatto che è riuscita a desiderare e a credere che tutto ciò sia la verità. (…) Se Cristo fosse pur solo il soggetto di un grande racconto, il fatto che questo racconto abbia potuto essere immaginato e voluto da bipedi implumi che sanno solo di non sapere, sarebbe altrettanto miracoloso (miracolosamente misterioso) del fatto che il figlio di un Dio reale si sia veramente incarnato. Questo mistero naturale e terreno non cesserebbe di turbare e ingentilire il cuore di chi non crede» (Cinque scritti morali, Bompiani 1997, pp. 90-91).
Per altri, invece, il cristianesimo non umanizza la persona umana, ma la opprime, tanto che va avversato, nella ricerca di liberare la società dalla religione. Questa posizione è in un recente intervento di Carlo Augusto Viano, che del cristianesimo essenziale, e non solo della struttura ecclesiastica, dimostra di aver avuto un’esperienza per lui molto negativa. «La repressione religiosa si è spesso fondata su una dottrina del progresso, per la quale le religioni sono residui di culture superate e impedimenti alla vera libertà umana, sicché le restrizioni al loro esercizio sarebbero non una forma di repressione, ma un’autentica liberazione». «La Chiesa cattolica ha sempre considerato la libertà religiosa una forma superiore di libertà, da non mettere sul medesimo piano delle altre libertà civili: per questo ha ridotto la difesa dei diritti umani, che soltanto dall’ultima fase della guerra fredda ha preso ad apprezzare, alla rivendicazione della libertà religiosa, senza intervenire contro la violazione degli altri diritti e anzi appoggiando regimi dittatoriali in proporzione ai margini di libertà che le assicurano». «La Chiesa cattolica non ha mai neppure inteso la libertà religiosa come libertà per tutte le religioni e ha sempre difeso le proprie posizioni di potere e i propri privilegi dove ha potuto ottenerli. Il presupposto di questo atteggiamento è la tesi che la libertà religiosa autentica è la libertà per la religione vera». «Per le società liberali la presenza di agenzie illiberali è un problema. (…) Che cosa fare con le agenzie, che operano accanto agli individui, quando non sopra di essi? Molte di queste agenzie (…) possono configurarsi come minacce per le libertà individuali e in questo senso agiscono religioni e ideologie, imponendo i modi nei quali gli individui usano la propria libertà e modellano i propri desideri, aspettative e previsioni». «Pare che in questo momento (…) le minacce più preoccupanti vengano dalle religioni». «L’Italia ha una posizione particolare», come sede del papato, che «non ha mai rinunciato al potere politico». «Le religioni si intromettono nella vita delle persone (…), con proibizioni che hanno giustificazioni puramente religiose». Una società liberale deve accettare che i predicatori religiosi cerchino di convincere gli aderenti a rispettare tali restrizioni, ma il problema è che «quelle religiose sono preferenze esterne, che riguardano il più delle volte non soltanto i seguaci di una religione, ma anche gli altri, perché i credenti pretendono che le loro regole siano applicate a società intere, indipendentemente dalla volontà dei loro membri». È appunto il caso, questo, in cui la religione tenta di fare che una società e civiltà diventi religiosa. «Anziché sui temi e sui modi della propaganda religiosa si può intervenire sui luoghi nei quali la propaganda viene esercitata». «La cultura indipendente dovrebbe avere il coraggio di dire che credenze private proposte come base per decisioni pubbliche sono imposture (…). Pretendere di essere difesi dalla propaganda religiosa indebita significa anzitutto riconoscere che quella religiosa è propaganda e impegnarsi a smascherarla come tale, mettendone in luce i presupposti gratuiti e surrettizi. (…) Politici un tempo altezzosamente convinti di sapere dove va la storia sono stati costretti a servirsi di una più modesta propaganda. Ora il processo deve riguardare le religioni e i loro sacerdoti, che pretendono di parlare ispirandosi a un sapere fittizio e a precetti attinti da libri pieni di falsi. È ora di dirlo» (MicroMega, febbraio 2006).
Quindi per Viano la religione, in particolare quella cattolica, è anticivile, antiliberale, per cui intitola il suo articolo Libertà dalla religione. Il suo motivo per opporsi alla propaganda religiosa cattolica nella società non è solo la libertà personale, ma proprio la falsità delle idee e dei precetti religiosi. Non è contrario soltanto ad un cristianesimo fatto civiltà, forma di una società, ma giudica non civile, non umanamente accettabile, il modo di vivere cristiano.

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Un’altra recente e differente valutazione della proposta odierna di vita personale cristiana è quella di Luisa Muraro, che, prendendo spunto dall’enciclica Deus charitas est, di Benedetto XVI, scrive: «Alcuni, molti, molte, fra noi, quanti non so, quanto consapevolmente non so, hanno smesso di vedere nella religione un ostacolo alla libertà e all'intelligenza, anzi, si sono convinti che l'assenza di religione ci rende forse più razionali e calcolatori ma non moralmente migliori né più felici, per dirla con Giacomo Leopardi».
Ricordo, qui, un seminario con Bobbio sull’etica, nel 1991, in cui egli diceva (riassumo): «La società sconsacrata è moralmente peggiore della società cristiana. (…) Se Dio non c’è, l’uomo è più vulnerabile, più indifeso, più assoggettabile. (…) Una società in cui Dio è morto è destinata a precipitare nella violenza, nello stordimento, nell’effimero, nel volgare, nel divertissement, senza più nulla di eterno? Do una risposta interlocutoria, perplessa, di un laico. Dopo Auschwitz e i gulag, opera di regimi scristianizzati, la domanda sembra dire il vero. Ma altri delitti immani furono commessi in epoca cristiana, e benedetti: persecuzioni religiose, genocidio degli indios, tratta degli schiavi. Chi ha sconfitto Hitler e Stalin? Una concezione laica e liberale. Quando mai si è parlato di diritti dell’uomo nei secoli cristiani?» (di quel seminario ho pubblicato gli appunti in Servitium, XXVI, n. 82, luglio-agosto 1992, pp. 18-26).
Muraro continua ricordando che Dante, senza venir meno alla sua fede religiosa, mette tre papi all'inferno, compreso quello regnante. «Oggi una simile libertà non sarebbe più ammissibile, il tramonto della cristianità come civiltà comune ha trovato una specie di rimedio nell'imposizione della Chiesa (e del suo capo) quale oggetto di fede dei fedeli, da soggetto della fede qual era prima. Anche noi rifiutiamo l'oggettivazione e cerchiamo, con i nostri mezzi, di ritrovare una dimensione religiosa soggettiva per quello che ha di liberante e di inverante. (…) Mi sono resa conto che la civiltà religiosa premoderna è ricca di idee che si può tentare di tradurre in parole e forme buone per noi oggi, nel senso della possibilità di essere liberi e di dire il vero, purché non abbiamo rinunciato a quest'ultima possibilità e purché non cadiamo nella mera conservazione o, peggio, restaurazione del passato». Lo «splendore di quelle idee della civiltà religiosa premoderna» traluce, dice Muraro, anche in certi passi della prima enciclica di Benedetto XVI, per esempio nella «critica del marxismo (e del comunismo) fatta dal papa con un argomento inedito. Al marxismo il papa oppone non il diritto alla proprietà privata, tanto caro al pensiero borghese, ma la priorità del qui e ora rispetto al futuro, perché l'essenziale domanda è di valere al presente e non venire usato come strumento per carpire l'obbedienza delle masse. Valere al presente, ma come? ». Con la carità cristiana, che è «apertura dell'orizzonte, qui e ora, ad altro da quello che gli uomini pretendono di conoscere e controllare». (Luisa Muraro, il manifesto, 12 febbraio 2006).
Qui la «civiltà religiosa premoderna» aveva uno «splendore» e valeva in quanto dava valore alla persona. Credo che questo dato sia vero, insieme a contraddizioni.

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Luisa Muraro accenna al fatto che la Chiesa e il papa siano diventati oggetto di fede anziché soggetto della fede. Questo è uno dei motivi principali di disagio nella civiltà cristiana per i più persuasi credenti, ma in realtà è un bell’agio per chi cerca nella religione anzitutto riferimenti forti e chiari di autorità e di certezza, più che di verità sempre ulteriore. Segnala l’origine di questa stortura lo storico cattolico Giorgio Cracco. Con la riforma di Gregorio VII (1073-1085), che riscatta la Chiesa dal controllo dell’impero, si afferma anche una forte monarchia papale. Se fino allora il papa, pur godendo di grande prestigio, non imperava come unico solitario interprete della verità rivelata, ma la sua autorità era accettata purché nella linea dei Padri e della Tradizione, quindi doveva di continuo subire il confronto con la Verità, ora la situazione cambia: tutti, anche i vescovi, dovevano obbedire «a san Pietro apostolo e al suo vicario in terra», perché la parola del papa era da considerarsi oggettiva espressione della Verità. «Solo il papa, dunque, poteva confrontarsi con la Verità; tutti i credenti, vescovi compresi, dovevano confrontarsi con l’autorità del papa. Perciò, d’ora innanzi, il problema che si pone ai credenti non è più di vivere secondo la Verità, bensì secondo l’autorità». Non si distinguono più i credenti tra “fedeli” che vivono secondo la retta fede, e “infedeli”, o eretici, ma tra “obbedienti” ai comandi del papa e “disobbedienti” (cfr Giorgio Cracco, Corso di storia. Il Medioevo, Sei, 1984, p. 150-151). Sarà questo a lungo, fino ai nostri giorni, un motivo di profondo disagio dei credenti, con effetti di sordo tormento o aperta ribellione, specialmente quando i papi più espressamente assumeranno un ruolo in buona sostanza sostitutivo di Cristo, nominandosi e lasciandosi nominare “vicario di Cristo” (non di Pietro), “capo della Chiesa” e perfino “il dolce Cristo in terra”; sarà questo un motivo di divisione tra i fedeli più rigorosi e i devoti più passivi e sprovveduti, che cercavano la mediazione verso Cristo – come se Cristo non fosse la mediazione vivente tra l’umanità e Dio – nella persona venerata dal papa, con una vera vasta popolare papolatria. Questo stato della fede ecclesiastica pare avere raggiunto il suo culmine con Pio XII (1939-1958), per poi declinare negli anni del Concilio (1962-1965), ma con certi residui e ritorni di fiamma, durante i papati successivi, fino ad oggi. La figura forte del papa, pur diversamente interpretata dall’uno o dall’altro, con l’apparato vaticano centrale, è riferimento di unità cattolica, e, ad un tempo, divisione dell’ecumene cristiano e “scisma sommerso” (fenomeno descritto nel libro di Pietro Prini, Garzanti, 1999) nella Chiesa cattolica. La cristianità sociologica, quella “civiltà cristiana” oggetto di certe nostalgie, aveva il suo vertice e metro di verifica nel papa più che nello spirito evangelico e nella presenza di Cristo risorto nell’intimo dei credenti. Eppure, era solo questo?

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Credo che il cristianesimo nella storia abbia difesa la persona dei deboli, dei poveri: difeso il loro valore ancor più che soccorsi i loro bisogni, il che è pur vero.
Ricordo che don Michele Do sottolineava una tradizione della Val d’Aosta, dove egli viveva: i deficienti venivano chiamati “figli di Dio”. Allo stesso modo, Gandhi chiamava gli intoccabili Harijan, cioè “il popolo di Dio”. È ciò che abbiamo sentito apprezzare da Bobbio. Una cultura, in una religione o nell’altra, che dichiara la dignità dei senza dignità, dei disprezzati, è una autentica civiltà, difende e organizza la vita, eleva tutti in umanità, sia chi è disprezzato, sia chi almeno un poco si converte dal disprezzo che nutre per chi gli sembra inferiore.
Come si moriva, accompagnati dai familiari e dalla comunità, come si vegliava il morto, la speranza con cui si pensava la morte, erano, pur con certi limiti, fattori di civiltà umana. La morte non era senza senso e i morti non erano espulsi dalla comunità dei viventi e attivi. Pensiamo a come è privata di ogni senso la morte per la nostra civiltà odierna. Questi elementi molto civili sono al centro anche della singolare religione, che direi non cristiana e tuttavia evangelica, di Aldo Capitini.
D’altra parte, nella tradizione cristiana, almeno da una certa epoca, l’idea di sacrificio, non nel senso di azione grande in generosità e donatività, ma nel significato di mortificazione, di soppressione dell’umano in omaggio al divino, ha pervaso lo spirito religioso. Credo che si basasse sulla teoria sacrificale della redenzione di Cristo: Dio Padre avrebbe avuto bisogno, per placare l’offesa infinita arrecata alla sua maestà dal peccato dell’umanità, di una soddisfazione infinita, che l’umanità non poteva dargli. Perciò avrebbe inviato il Figlio, destinato a soffrire e morire, ed essere così la vittima degna dell’ira e quindi del perdono di Dio per tutti, meritato solo da quel supplizio.
Orribile immagine di Dio, ma insegnata, diffusa e accettata. In quanto suprema maestà Dio può tutto, anche quello che a noi proibisce come male. Egli somiglia ai sovrani terreni, per definizione fonti di legge al disopra della legge. Se Dio può sacrificare, chiedere tale sacrificio, se può uccidere come signore di vita e di morte, noi siamo creature sacrificabili, o in nome della verità, o per punire una colpa, o per il bene della collettività, per la patria in guerra, per un futuro radioso. Sotto questo aspetto, la “civiltà cristiana” non era umanizzante. Tra il primo aspetto, realmente presente nella religione popolare vissuta, e questo della religione ufficiale, teorizzata, utilizzata dai regnanti, c’è una palese contraddizione. Un effetto di questa svalutazione della vita, per rinviarne tutto il senso, a caro prezzo, nell’aldilà, diventava – e non è scomparso dappertutto - l’invito a rassegnarsi religiosamente e pazientemente alle ingiustizie, e questo tipo di religione era – ed è - naturalmente molto apprezzato (e finanziato) dai ricchi e dai dominatori.
Il cristianesimo rende “civili” e vivifica, ma incrostato in “civiltà” costringe e mortifica. Se le interpretazioni e tradizioni prendono il posto della parola di Dio, avviene ciò che Gesù rimproverava in Marco 7, 6-13: «Così annullate la parola di Dio per la tradizione che voi stessi vi siete tramandata. E di cose simili ne fate ancora molte». La parola di Dio, se siamo attenti, è il contrario dell’esaltazione religiosa umana, che ci riempie di certezze dominatrici in quanto partecipi della superiore sfera divina. «Il cristianesimo sostanzialmente parte da una kénosis, come dice san Paolo, ossia un rifiuto di quella che è la superiorità di Dio, la sua grandezza, la sua divinità per scendere nella prossimità dell’uomo e aiutarlo a vivere secondo i parametri veri della sua esistenza. (..) Non è l’uomo che trascende, che esce dal mondo ed evade dalla sua realtà empirica per scoprire Dio. È tutto il contrario: è Dio che va verso l’uomo e quindi l’uomo lo scopre nel suo cammino reale, limitato, in mezzo alle sue grandi difficoltà come bisogno di supplemento di forza, di luce, di intelligenza vera per continuare a vivere in maniera armonica con la sua esistenza». Così scrive Arturo Paoli, forte testimone, a 93 anni, di un cristianesimo maturo che lo ha messo per tutta la vita a servizio dell’umanità secondaria (libro-intervista di Arturo Paoli e Francesco Comina, Qui la meta è partire, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2005, p. 26).

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Oggi si discute di identità: o rafforzandole per garantirsi dal perderle nella mescolanza, o indebolendole per evitare l’esclusione e lo scontro. Io credo, nonostante le loro crisi e rivolgimenti, al valore delle identità e delle appartenenze, purché aperte e dialoganti, perché custodiscono fisionomie umane che vengono da lontano e hanno da dare contributi tipici al dialogo sempre più largo nel mondo di oggi. Credo che appartenenza e identità non siano contro il dialogo, ma gli diano concretezza e realtà, portando il valore e aprendo il limite di ogni tradizione. Non credo che dobbiamo sfumare le fisionomie per realizzare incontri di civiltà, in luogo dello sciagurato scontro tra identità dure e armate. Credo, in particolare, che la tradizione cristiana, coi suoi mutamenti anche turbolenti, con le sue lentezze e ostinazioni, i suoi bassi compromessi, con le certezze caduche e gli interrogativi nuovi, e col modello di uomo evangelico che non cessa di portare, sia ancora e sempre un apporto chiaro di umanizzazione. Sono convinto che il cristianesimo è un molto prezioso apporto all’umanità degli umani, pur mentre impariamo ad apprezzare e ricevere con gratitudine la grazia di luce e di salvezza che troviamo anche nelle religioni e nelle saggezze non cristiane. Penso che senza intima religiosità - che sta prima, attraverso e oltre le religioni positive - l’umanità rimane indietro nella propria ricerca di farsi autentica. Mi riferisco a quella “religiosità”, e non religione, di cui parlava l’ultimo Bobbio (MicroMega, n. 2/2000), per la quale diceva – e il cardinale Carlo Maria Martini consentiva – che più importante della distinzione tra chi crede e chi non crede, è la distinzione tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza e del suo significato.
Se tali identità religiose dialoganti vogliamo chiamarle civiltà, allora anche quella cristiana potrebbe essere detta una civiltà. Purché, come oggi è più che mai necessario, mantenga tutta l’elasticità di adattamento attivo ai mutamenti e alle esigenze umane dei tempi, e tutta la aperta comunicazione con le altre civiltà, in sempre maggiore contatto e scambio. Esigenze, queste, che sono oggi di ogni civiltà umana, religiosa o laica. Eppure, rimane una permanente difficoltà a definire il cristianesimo come una civiltà. Il motivo mi pare che stia nel fatto che esso non offre, e non può offrire, alla vita delle persone quella strumentazione e organizzazione per la convivenza e il cammino sociale in cui consiste il carattere unificante e direttivo di una civiltà. Se il cristianesimo cerca tale forza direttiva compromette la libera accettazione interiore del messaggio evangelico che propone. Si sentirà parlare di civiltà cristiana dove c’è diffusione sociale di educazione e orientamento evangelico delle persone, ma, se vale la distinzione proposta all’inizio, si tratta di una cultura di vita cristiana socialmente diffusa, ma non di una civiltà cristiana in senso preciso.

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L’Occidente è la nostra patria culturale, a cui apparteniamo senza vergogna e senza vanto spropositato, con libertà e senso critico. Questo modo di relativo appartenere è quanto di meglio la storia dell’Occidente ci ha dato, in cui ci ha educato. Esso ci ha impresso un determinato carattere umano, e ci ha aperto all’universalità umana, intuita, sempre ricercata, spesso contraddetta. Le sue virtù ci ammaestrano e dei suoi vizi e colpe storiche siamo corresponsabili. Nell’odierna tensione tra le civiltà, sento vero quanto ne scrive Jan Oberg, che è danese: «Sono terrorizzato, quando mi trovo a considerare le conseguenze di ciò che chiamerei autoglorificazione occidentale del dominio della propria civiltà e razzismo istituzionalizzato» (www.transnational.org).
Oggi la civiltà cristiana è ancora sommariamente ma comprensibilmente identificata con questo Occidente euroatlantico, capitalista, imperialista, sia superbo che incerto. Ciò crea sorda umiliazione e risentimento, misti ad invidia ed emulazione, nei popoli secondi e terzi del mondo, e crea scosse di rigetto nell’Islam più conservatore (e duramente conservatore), mentre procura disagio e pericolo all’Occidente stesso. Quanto più la comunità cristiana mondiale tornerà ad esprimere più Vangelo che dogma e struttura, e sarà meno “embedded” negli interessi e nel linguaggio esclusivo dell’Occidente, potrà, senza affatto perdere la propria identità, contribuire ad un dialogo ricco tra le varie identità umane, nella pace. Civiltà e religioni più obbedienti al supremo principio della pace nonviolenta potranno aiutarsi reciprocamente a deporre durezze escludenti, a comunicare e incontrarsi diventando meglio, e non meno, se stesse.
È la speranza e l’impegno che faceva dire a Ernesto Balducci: «Invece di fare, come cristiani, da supporto dell’ordine costituito - che in realtà è un ordine basato sui muri alti - dobbiamo essere sempre pronti ad aprire una finestra dove non si dovrebbe, ad aprire una porta dove non è prevista. Noi siamo i sovversivi della coscienza, i tutori dell’uomo» (In nome dell’uomo).
In sostanza, credo che il cristianesimo fedele al nucleo evangelico umanizzi e civilizzi le persone, pur tramite la «follia» della croce, del dare senza attendere corrispettivo, dell’affidarsi alla vita davanti alla morte, ma le opprima se si fa “civiltà” troppo strutturata e direttiva, cioè meno affidata allo Spirito.

Enrico Peyretti (24 febbraio 2006)

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