Dal Sessantotto all'Ottantanove
Dal Sessantotto all’Ottantanove, una lezione per l’oggi
22 febbraio 2008
Quarant’anni dopo, il Sessantotto può essere nella memoria personale solo per chi ha almeno 55 anni. Per i più giovani è – forse – un mito vago, dal significato ambiguo. Quasi vent’anni sono passati dall’Ottantanove, l’anno che ha cambiato il mondo ancora più del Duemilauno. Quanto è chiaro il suo significato nella memoria comune di tutti quanti oggi sono adulti?
Sono in corso varie rievocazioni del Sessantotto, anno che sta diventando proverbiale come era il “fare un quarantotto” nell’Ottocento. Vorremmo qui proporre qualche prima riflessione tesa a ricordare le due date importanti come unite in un ciclo più ampio da scoprire e valorizzare. Un lavoro analogo cercherà di fare a Torino il Centro Studi “Domenico Sereno Regis” per la pace, la nonviolenza, l’ecologia (http://www.cssr-pas.org). Ci interessa ascoltare non il fracasso dell’albero che cade, ma il sottile brusio della vita della foresta che cresce, tra le difficoltà, con la forza della realtà.
Oggi che il “sistema” conservativo si è duramente ristabilito, chiediamoci: che cosa fu il Sessantotto? La risposta deve essere complessa, perché il fenomeno è complesso. Ma cominciamo con qualche elemento più visibile. Senza farne uno schema rigido, è possibile ipotizzare cicli generazionali, all’incirca di un ventennio, nell’evoluzione dello spirito collettivo.
Quel momento storico
Gli anni del dopo-guerra furono anni di sacrifici volenterosi per la ricostruzione materiale e civile, furono riaffermazione di criteri di valore per la vita e il cammino della società (la Costituzione, la Carta dell’Onu), pur nella opposizione totale, allora, tra progetto social-comunista e progetto liberal-capitalista. La potenziale violenza distruttiva di quel conflitto era impedita dalla pericolosità assoluta della “mutua distruzione assicurata” ed era congelata nell’”equilibrio del terrore”. Follia e prudenza stavano in equilibrio sull’abisso.
La voglia di vivere (i settantenni come me ricordano nell’immediato dopoguerra il moltiplicarsi delle sale da ballo), contenuta nei genitori dai doveri della vita dura, esplose nei figli nati negli anni ’40 e giunti ai vent’anni negli anni ’60, in un mondo che dava anche un nuovo senso di sicurezza, di ottimismo: nonostante la crisi di Cuba, 1962, si respirava la distensione tra Kennedy e Kruscev, il lavoro diventava stabile, si muoveva la migrazione interna con speranze di miglioramento, l’industria urbana prevaleva sull’agricoltura paesana, con le relative trasformazioni culturali, ecc. L’esplosione dei ventenni era anche critica della piatta (L’uomo a una dimensione, di Marcuse) ideologia del benessere che ormai caratterizzava la generazione dei genitori e dei dirigenti.
Nelle culture profonde
Agli anni Sessanta appartengono anche alcuni sommovimenti nelle culture profonde: nel Terzo Mondo le lotte di indipendenza dal colonialismo producevano una consapevolezza nuova, in rapporto dialettico col primo e col secondo mondo, entro culture antiche rimaste a lungo pressoché immobili sotto l’imperversante dominio culturale, economico, bellico, dell’Occidente. Anche su questo punto oggi ci si deve interrogare: quanto quelle “culture terze” sono oggi terze, autonome?
Nelle religioni, nel cristianesimo, riflessioni ed esperienze già silenziosamente pluridecennali producevano un clima più aperto ed ecumenico, in particolare nella chiesa cattolica, grazie al coraggio inventivo e fiducioso di Papa Giovanni, e sboccavano nel Concilio (1962-1965), che ne raccoglieva e moltiplicava fermenti e prospettive. Vogliamo soffermarci un momento su quel grande evento, in buona parte oggi offuscato, ma crediamo ormai depositato nel profondo potenziale. Esso fu dibattito nella chiesa cattolica, rottura dell’assolutismo papale, nuova ecclesiologia col primato del “popolo di Dio” e visione delle funzioni ministeriali come servizi. Fu riconciliazione, seppur critica e vigilante, con la storia del mondo moderno (fu l’anti-Sillabo di Pio IX). Fu l’inculturazione, per il cattolicesimo, del Vangelo nelle lingue parlate e nelle culture ed esperienze vissute (teologie politiche, di liberazione, non solo integralistiche). Fu anche consapevolezza della irriducibilità profetica del Vangelo alle culture e ai sistemi storici, perciò innescò la possibile rottura del nesso Chiesa-Occidente, produsse il pluralismo culturale e politico, e l’ecumenismo. Fu l’affermazione nel cattolicesimo della libertà religiosa, cioè del primato della coscienza personale, ma in dialogo con ogni coscienza. Fu, nelle parole di Giovanni XXIII morente, il «servire l’uomo prima della chiesa», quindi un progetto di chiesa senza privilegi, che accompagna e appartiene liberamente e fraternamente alla vita della società umana, per la giustizia e la pace.
Quante di queste preziose prospettive siano ancora aperte, ognuno può valutare. Ma, per questo nostro discorso, conta vedere che il clima creativo e liberante nella chiesa era sia effetto che causa del clima più generale, nel mondo e nel nostro paese.
Un altro grande capitolo sarebbe la trasformazione del social-comunismo, per effetto di cause interne ed esterne: cominciata nel ’56, progrediva nel ’68, culminava nell’89. Ha significato più perdita o più guadagno in termini di valori umani civili e politici?
Fasi del "lungo Sessantotto"
Del “lungo Sessantotto” studentesco, anche operaio e in genere sociale, possiamo forse individuare alcune fasi:
1) lo stato sorgivo liberatorio, esplosivo, caratterizzato da uno spontaneismo, per sua natura esposto al riflusso;
2) la frustrazione seguita al rifiuto da parte del “sistema” delle forze adulte, con l’effetto della degenerazione violenta, da disperazione storica, evidente nel ben diverso “Settantasette”, e ancora peggio nel terrorismo, degenerazione non fatale e non necessariamente insita nel carattere originario della rivolta;
3) gli effetti lunghi e profondi del “cuore migliore” del Sessantotto, il ruscello carsico della nonviolenza, della obiezione positiva alla violenza del sistema, con alti e bassi, col riconoscimento dell’obiezione di coscienza alle armi, un cammino con passi di approfondimento teorico e di esperienze attive. Di questo cammino noi riconosciamo un alto momento storico nelle rivoluzioni nonviolente del 1989 nell’Europa orientale; rivoluzioni variamente interpretate, non nominate come nonviolente ma in realtà grande dimostrazione storica del “potere della nonviolenza” (si veda il libro di Nanni Salio, Ega 1995), difesa e affermazione della vita e della sua verità (giustizia, pace). Anche questa conquista è stata poi naturalmente sottoposta alla prova del tempo e di nuove pressioni.
Chi "muove" la società
Oggi, chi vuole trarre una lezione attuale e impegnativa da quegli anni molto indicativi, riflette sul valore dei movimenti culturali, educativi, morali, attivi, esperienziali, progettuali, critici ma costruttivi, che hanno una funzione – appunto – di “muovere” i sistemi stabiliti, verso una maggiore umanità e verità, in termini anzitutto di giustizia che realizza la libertà, e di pace costruita coi mezzi della pace, cioè nonviolenti. Questi movimenti sono vari, frammentati, numericamente deboli, ma fedeli e costanti, mentre le grandi saltuarie manifestazioni di piazza sono promosse da questi movimenti, ma composte da masse prive di continuità, aggregate solo occasionalmente. Se i movimenti per la pace e nonviolenza riuscissero a coordinarsi, pur senza fondersi, potrebbero diventare una forza politico-morale positiva, che darebbe un contributo necessario alla qualità morale, onesta, nonviolenta della politica.
Rimeditare in senso ampio sul “lungo Sessantotto” deve significare il ritrovare e richiamare presenti alla nostra attuale riflessione, figure di maestri come Aldo Capitini, don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, e poi esperienze come le lotte civili di Martin Luther King, come la resistenza nonviolenta e inventiva di Praga, come le esperienze italiane: l’obiezione di coscienza, la democrazia partecipativa di base, le lotte popolari per la tutela dell’ambiente, le realizzazioni di presenze nonviolente di solidarietà con le vittime nelle zone delle nuove guerre seguite al 1991.
La nonviolenza attiva e positiva, che ha già dato prove storiche troppo poco conosciute, lasciate in oblio dalle varie e opposte ideologie violente della storia, è la proposta teorica e pratica per la politica umana, che sia più umana, all’interno di un singolo popolo, e nella intera famiglia dei popoli umani. Su questo tema di meditazione e di ricerca vorremmo chiamare ad aiutarci, nell’impegno sempre più urgente, pensatori e operatori della politica giusta, per una storia che costruisca e non perda la vita umana.
Enrico Peyretti, sabato 23 febbraio 2008
Articoli correlati
- Altri appunti sul Sessantotto
Dalla critica del sistema alla critica della violenza
Frutto e seme - Il Settantasette - I movimenti profondi12 marzo 2008 - Enrico Peyretti
Sociale.network