Nel 60° anniversario dell'uccisione di Gandhi

Il futuro di Gandhi

Ha un passato profondo - Ha poco passato - La spiritualità - La storia - L’offesa e la dignità - Gandhi fallito? - L’azione vale per la sua fecondità - Domande sul presente - Una nuova storia
15 marzo 2008
Fonte: Centro Pace di Bolzano, 30 gennaio 2008

Il futuro di Gandhi
Bolzano 30 gennaio 2008, 60° anniversario dell’uccisione

Gandhi


***

Parliamo del futuro di Gandhi nel giorno della sua morte, della sua uccisione: in tedesco «ableben», cioè decesso, via dalla vita, nessun futuro!
Invece Gandhi ha un futuro, direi, per due ragioni paradossalmente opposte: 1) perché ha un profondo passato, radici lunghe nella realtà viva; 2) perché ha poco passato, più futuro che passato, come un bambino.

Ha un passato profondo
Gandhi ha un futuro perché ha un profondo passato: ciò che ha riscoperto e riproposto è «antico come le montagne», è originario, fondamentale, sorgivo. L’origine contiene il futuro.
Non è solo una profondità nel tempo (anche questo), ma una profondità nella realtà. Il pensiero, la vita, la politica di Gandhi hanno fondamento nello spirito, nel profondo centro umano. Egli scrive: «La nonviolenza, per essere una forza efficace, deve cominciare nello spirito. La semplice nonviolenza del corpo, senza la cooperazione dello spirito, è la nonviolenza dei deboli o dei vili e perciò non ha alcuna forza. Se portiamo in cuore la malizia e l’odio e soltanto fingiamo di non ricambiarli, essi ricadono necessariamente su di noi e ci portano alla rovina» (Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità 1965, pp. 157-158).
Infatti, la violenza non è tanto nell’arma, nella mano, ma nella volontà che cancella l’altro; nel cuore che disprezza e distrugge l’essere dell’altro perché è diverso, perché è avversario; la violenza è nel pensiero che diminuisce quel popolo, quella razza, quella categoria, quella idea. L’arma, la guerra – fatta o pensata - è lo strumento finale, l’effetto, ma è anche nuova causa che produce nell’intimo delle persone e delle culture la brutalizzazione, la disumanizzazione, la irresponsabilità, la militarizzazione dei normali conflitti umani che Pontara descrive nel cap. 5, “Contro la violenza nei conflitti umani”, di L’antibarbarie (1).
La profondità del bene, dell’amore, è la stessa profondità del male, dell’odio. E queste realtà in conflitto sono nel più intimo dell’essere umano. Ma Ricoeur dice di più: «Il male, per radicale che sia, non e' così profondo come la bontà» (2). Questa opzione, questa fede coraggiosa, è la scelta di Gandhi, la scelta di chi vede tutta la violenza, ma non le crede in modo definitivo, e ritiene e vuole più profonda e più alta la possibilità del bene.
Gandhi


Ha poco passato
Gandhi ha un futuro anche per la ragione opposta: perché la vita senza violenza, o col minimo di violenza, è una meta largamente incompiuta, una u-topia, un luogo non ancora raggiunto; un’assenza, eppure una necessità, se non ci condanniamo all’autodistruzione; una necessità, ma pure una possibilità, perché la nonviolenza è comparsa nella storia: c’è una storia reale di difesa senza guerra, di lotte nonviolente per la giustizia e la libertà (v. online la bibliografia storica Difesa senza guerra); c’è una nonviolenza positiva, vissuta, storica, politica.

Qui incontriamo due problemi: la spiritualità, la storia.
- Forse la spiritualità rende evanescente, evasivo, utopistico, l’impegno per ridurre la violenza del mondo?
- Forse la storia dimostra impossibile ridurre la violenza del mondo?

La spiritualità
Parlando di spiritualità cosa intendiamo? Non questa o quella religione istituita, neppure la religione di Gandhi (aperta a tutte le religioni), ma qualcosa di più delle religioni o delle non-religioni; intendiamo la serietà e profondità umana, anche negli interrogativi, incertezze, dubbi, sete di luce e di bene, che sono nel cuore dell’uomo. Questa spiritualità non è fuga dal mondo, ma immersione nel mondo e nell’umanità. Non fugge dai problemi e dai conflitti in un’atmosfera rarefatta, ma assume sofferenze e speranze radicandole nel centro del nostro essere umani.
La spiritualità fugge dalla superficialità, questo sì, dalla volgarità e dalla brutalità. Fugge dall’affidare i problemi della convivenza umana al gioco cieco delle forze, dei soli numeri, del cinismo, per condurre la ricerca sul terreno della ragione, delle aspirazioni più umane, della comprensione reciproca nel dire la verità, del rispetto della vita e della natura.
Spiritualità è la fiducia coraggiosa che esista un nucleo umano comune a tutti, nonostante e oltre le barriere di incomprensione, la babele dei linguaggi e delle idee, la contrapposizione degli interessi, la partitizzazione del pensiero, le brutali prove di forza; e che a livello di quel nucleo possiamo comunicare, intenderci sia pure con fatica; e che quello è il luogo umano dove è possibile deporre la violenza reciproca per costruire soluzioni senza distruggere vite e valori.
Sviluppare questa profondità umana, nelle persone e nelle relazioni, è la prima condizione per ridurre la nostra violenza. Non lo spiritualismo illusorio, ma il lavoro interiore anche nella solitudine personale, e l’attenzione delle culture e del dialogo sociale alle sorgenti di umanità più vive e genuine: questo lavoro è la spiritualità che ci umanizza proprio nel concreto, quando affrontiamo i conflitti con un cuore più libero dall’odio, più mosso dall’amore per la vita, perché ne abbiamo intuito il bene essenziale, intimo, e perché abbiamo tremato per la minaccia alla vita dell’odio distruttivo.
La spiritualità senza politica è evasiva. La politica senza spiritualità è sterile o violenta. La spiritualità che si vuole tradurre rigidamente in politica è integralismo totalitario (la parte che si fa tutto). La politica che pretende di adeguare una spiritualità è abuso di potere e violenza morale. La nonviolenza è sia spiritualità (religiosa o non religiosa), sia politica. Gandhi e Capitini affermano entrambi che è la loro anima religiosa che li spinge alla politica, all’agire nella storia, per gli altri e per la pace giusta.

La storia
La storia è dominata dalla violenza?
Dobbiamo confessare che a volte viviamo questa sensazione: vediamo trionfare il male e ci avviliamo. L’avvilimento è una debolezza che viene dal subire lo spettacolo della falsità, della violenza, del male, perdendo di vista la verità e il bene. La “forza dello stare attaccati alla verità” (satyagraha) che Gandhi propone come alternativa alla violenza nelle lotte giuste, è il contrario dell’avvilimento, che vuol dire debolezza, cedimento, in cui c’è anche l’idea di viltà.
Per Gandhi trovare la forza che viene dall’attenersi alla verità è possibile, perché per lui c’è più bene che male nel mondo e nella storia. Il suo non è un argomento metafisico, ma quotidiano: Gandhi dice che, se fosse più grande il male, ci saremmo già distrutti. La storia è costituita dalla collaborazione e dall’aiuto che gli esseri umani quotidianamente, se pur imperfettamente, si danno, mentre le guerre e le violenze sono gli strappi in questo tessuto, ma non sono il tessuto. Se per storia intendiamo le imprese dei re, allora sì, le guerre sarebbero il tessuto, ma la storia non è quella, è la vita continua di tutti, degli umili, e le imprese violente sono soltanto uno strappo nel tessuto della storia, che non arriva a distruggerla (3).

L’offesa e la dignità
Sembra, finora, per lo più, di poter dire che la storia è una storia di offese ai diritti umani, ma non è solo questo, a questo non si riduce. Inoltre, l’offesa non annulla, ma semmai evidenzia la dignità umana: nel colpirla la fa risaltare. L’offesa è offesa, è male e dolore, è una realtà negativa, proprio perché c’è una dignità, un valore che non deve essere offeso, e che, pur offeso, non è distrutto, ma grida la sua ragione, anche nel silenzio dell’ucciso, e reagisce spesso positivamente.
La menzogna spacca la comunicazione, che è la nostra possibilità di vita degna, perché offende e nega la verità della parola e del discorso, perciò dello sguardo reciproco. Ma questa verità prima o poi riemerge, perché ha le ragioni della realtà, ha le gambe più lunghe della bugia, va più lontano. (4) «Pravda vitezi. La verità vincerà», sono le ultime parole di Jan Hus sul rogo a Costanza, nel 1414.
Ha osservato Jacques Ellul che la nostra «non è affatto l’età della violenza; è l’età della consapevolezza della violenza» (5). Se le coscienze prendono reale consapevolezza del problema, siamo a metà dell’opera, potremmo dire. Il pensiero della nonviolenza non ha trasformato la politica, l’economia, il costume, ma ha compiuto dei veri passi, nel nostro tempo: da morale personale la nonviolenza è diventata una filosofia della politica e ha dato luogo a significative esperienze di pratica politica. L’idea di pace è cresciuta: dalla pace interiore, spirituale, futura, solo escatologica, dalla pace di piccole comunità esemplari, dalla pace interna allo Stato, da pace temporanea quando la guerra tace, oggi la pace cerca di essere una qualità permanente della politica (quella che Kant chiamava “perpetua”, cioè stabile, istituita).
Criterio e metro di questa pace è la cultura dei diritti umani, caratteristica del nostro tempo, che si traduce nella faticosa costruzione di ordinamenti cosmopolitici (prima SDN e poi ONU) per assicurare la pace. Questi ordinamenti sono ancora deboli e contraddittori, ma cercano una loro effettività (specialmente nelle convenzioni internazionali che sviluppano e articolano i diritti), sebbene siano aggrediti dalle enormi violazioni in atto del diritto internazionale con le guerre in corso e le economie della disuguaglianza strutturale. Il diritto internazionale è oggi la sovrapposizione stridente del vecchio fondamento nella sovranità degli Stati, assoluta e perciò belligena e indifferente ai diritti umani, e del nuovo fondamento nella dignità e diritto delle singole persone di tutta intera la famiglia umana. La guerra è delegittimata nel principio giuridico vigente, ma praticata anche nella forma aggressiva (preventiva), che è la più illegittima, con la pretesa di rilegittimarla.
Se ci rassegniamo a pensare che l’umanità non può liberarsi dalla propria violenza è perché ci lasciamo condizionare da un’immagine della sua storia scritta per lo più da scrivani vicini ai potenti, interessati a mostrare che la loro violenza è la legge. Ma c’è una storia taciuta, lasciata in ombra, che andiamo scoprendo con fatica, che permette almeno di non disperare. L’umanità, nella sua storia, è ambivalente: può costruirsi e può distruggersi. Oggi gli eventi, gli strumenti della potenza, il consumo della natura, stringono: se non per dovere e per amore, almeno per necessità di sopravvivenza, per istinto fisico vitale, l’umanità deve scegliere la forza nonviolenta.
Natura e storia non costringono, non condannano, non sono determinate e determinanti, a meno che non ci condanniamo da soli a negare la possibilità, a rinunciare a vivere al di là dei pericoli da noi creati.
Bobbio si chiedeva anche se l’umanità merita di sopravvivere. Qui l’indagine sul senso della storia può essere aiutata dalla pietà per questa nostra ambigua umanità, come nella preghiera audace di Abramo a Dio: se c’è qualche giusto nella città malvagia, qualche bontà, non distruggere tutto (6).

Abbiamo guardato aspetti generali, ampi e profondi: le radici spirituali, le prospettive storiche. Guardiamo ora più da vicino i nostri tempi.

Gandhi è fallito?
Gandhi può essere giudicato come un fallito, in patria e fuori. L’India di oggi non è quella del suo sogno: bomba atomica, politica di potenza, permanente divisione in caste, consumismo, disuguaglianze, corruzione. Il mondo non è pacifico, le relazioni tra gli stati includono regolarmente la minaccia armata e il calcolo del profitto. Eppure Gandhi non solo è indimenticabile – come scrive Pontara «una volta che si è incontrato Gandhi è difficile liberarsene» (7) - ma, se appena proviamo a conoscerne l’azione e il pensiero, pur senza condividerne tutti gli aspetti particolari, come è naturale per ogni esperienza umana, incontriamo una proposta, praticata effettivamente in una esperienza di popolo, che è una via di scampo dalla catastrofe che le politiche violente e folli stanno preparando all’umanità. Anzi, di più, troviamo in Gandhi una altezza umana che lo pone tra i pochi massimi maestri dell’umanità, nelle diverse culture e religioni.
Attraverso Gandhi è passato al nostro tempo uno spirito antico (la nonviolenza non è una sua invenzione, è «antica come le montagne»), che però si è incarnato in modo nuovo, in mezzo al Novecento, il secolo più violento della storia umana.
La mitezza costruttiva, l’azione nonviolenta, nei secoli prima di Gandhi era quasi soltanto una virtù personale, nei rapporti diretti, nella morale privata. La politica era praticata e teorizzata come amorale, mirante alla potenza con qualunque mezzo utile (machiavellismo), oppure come guidata da una morale differente da quella interpersonale (Max Weber). Gandhi ha mostrato nei fatti, non solo nella riflessione, che le regole essenziali dell’agire giusto sono le stesse nella vita privata e nella vita politica, nei rapporti tra grandi gruppi umani. Questo è giudicato dagli studiosi il maggiore apporto gandhiano alla storia umana (8). L’opera di Gandhi non è soltanto la liberazione della sua patria dal duro colonialismo inglese, ma ancor più l’apertura di una via concreta per la liberazione dell’India e di ogni popolo da violenza e ingiustizie.

L’azione vale per la sua fecondità
Ma quest’opera non è dunque fallita? Stiamo attenti nel guardarci attorno. Le cose più profonde non si misurano col metro della rapida efficacia. Il valore dell’azione è nella sua fecondità, più che nel risultato visibile. L’azione profonda di Gandhi continua nel mondo, e nella stessa sua India, in modi non clamorosi, ma tenaci, costanti, che hanno dato frutti anche riconoscibili nelle diverse parti della geografia e della storia umana, davanti a vari gravi problemi: Badshah Khan (9) (morto il 20 gannaio 1948) nell’islam, che l’opinione volgare e manipolata considera religione violenta; Martin Luther King (ucciso il 4 aprile 1968) nel cristianesimo, che grazie a Gandhi ha riscoperto la dimenticata nonviolenza evangelica; Nelson Mandela, Desmond Tutu e altri nella cultura africana, col portare il Sudafrica fuori da un terribile razzismo con un’opera di verità e riconciliazione, senza metodi violenti. E questi sono soltanto alcuni nomi più noti, la cui azione poggia sulla base di movimenti gandhiani che percorrono il nostro tempo, ora emergendo con energia (nel 2003, il movimento pacifista è stato considerato, con una certa esagerazione, la seconda potenza mondiale davanti agli Usa del bellicoso Bush), ora scorrendo come fiumi carsici.
Chi conosce un poco le associazioni e le “case per la pace” in tante città e centri grandi e piccoli, che svolgono con mezzi poveri attività continue di ricerca, formazione, azione; chi fa attenzione agli istituti e reti internazionali, anche a livello scientifico rigoroso, di elaborazione delle condizioni della pace positiva, e ai libri e periodici che fanno ricerca e divulgazione sulla pace nonviolenta, vede che l’impulso gandhiano è ben vivo, anche se non ha trasformato radicalmente il mondo. Questo impulso spinge movimenti di base in tutti i paesi del mondo, in tutte le culture, a sviluppare metodi ed esperienze di lotte nonviolente per la giustizia, e a riscoprire nella storia queste lotte, che la cultura dominante non ha saputo vedere, presenti in tutti i tempi, quindi sempre possibili (ho già citato la bibliografia storica da me curata Difesa senza guerra).
Non si tratta assolutamente di fare un mito di Gandhi. Ci sono in lui anche lati particolari che non possiamo fare nostri, ma ciò che conta è la grande sostanza della sua ispirazione. La quale agisce anche dove non sembra. Il mito della violenza come spallata risolutiva (l’infelice espressione marxiana della «levatrice della storia»; ma nessuna levatrice è violenta!), è tramontato, perché la storia ha dimostrato che è sterile, ed anzi controproducente, ma anche perché Gandhi seppe leggere subito, con la massima lucidità, sia l’esperienza sovietica, (10) sia la ferocia nazista, sia la follia atomica.
Un buon giornalismo culturale dovrebbe, con inchieste più attente, rendere conto di queste realtà promettenti, nel mondo di oggi sempre sull’orlo dell’autodistruzione. La ricerca accademica e scientifica, per adempiere al suo compito umano, dovrebbe indagare nel passato le possibilità del futuro. Attuale non è ciò che è vincente, che corre facilmente, non è il “pensiero unico”: attuale è ciò che, nelle condizioni di oggi, può dare qualità e futuro umano alla nostra storia.

Domande sul presente
Il futuro di Gandhi, della lotta giusta con mezzi giusti, non viene da solo. Non è assicurato, anche se è possibile e necessario. Il futuro della nonviolenza è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, nella cultura della vita e delle relazioni che sapremo coltivare.
In questo nostro presente, registrate queste attese, possiamo vedere meglio qualche movimento positivo in atto? Oltre le offese e le attese – per continuare il gioco delle rime – possiamo vedere delle forze vive tese, protese, alla pace nonviolenta? (11)
Allora, viene una serie di domande: quali e quante consapevolezze dei passaggi accennati ci sono nelle coscienze? Quali e quante volontà? Quali rappresentazioni artistiche? Quali modelli epistemologici? Quali modelli culturali? Utopistici, evasivi, concreti? Quali movimenti spirituali, cioè nelle culture profonde, (12) nelle religioni (13)? Quali culture e programmi politici? Quali teorie del potere (politico, economico, militare, culturale, mediatico)? Quale cultura del conflitto? Quali culture e modelli antropologici, pedagogici, sociali, ambientali, economici, di sviluppo, di difesa?
Una miriade di interrogativi gettati su una situazione umana che vogliamo sperare in un passaggio di umanizzazione, da promuovere. Ma le opzioni positive e promotrici, in tutti questi piani e ambiti, sono nettamente minoritarie: per gli ultrarealisti sono ridicolmente minoritarie. Sono forse anche irreparabilmente in ritardo sulla catastrofe che si va preparando? Eppure, i pericoli oggettivi richiedono e forse alimentano e sollecitano le risorse alternative a mobilitarsi, a costruire sinergie tra quelle forze costruttive, le “forze tese” alla pace nonviolenta.

Una nuova storia
Al termine “futuro”, che è un modo del verbo essere, una continuazione del passato e del presente, già contenuta in questi, e dunque non molto più promettente, preferisco il termine di “av-venire”. Esso evoca una realtà nuova veniente, una “alterità”, della quale possiamo avere diverse immagini, religiosa, artistica, antropologica:
- un “Altri” totale, Dio (nelle diverse concezioni) trascendente ma in relazione intima con la storia umana; non una schiacciante superiorità metafisica, ma un vivente più vivo di me, più intimo a me di me stesso (detto così da S. Agostino come dal Corano);
- una in-venzione dell’arte umana della convivenza, una forma finora non realizzata;
- l’emergere dell’«uomo inedito» nell’uomo attuale (Ernst Bloch, Ernesto Balducci) (14);
- la “u-topia” concreta, né già disponibile, né un “tutt’altro” palingenetico, ma un possibile davanti a noi, da volere e costruire (di nuovo Ernst Bloch);
- la «realtà liberata» nella «compresenza» (Aldo Capitini), che è l’opposto del «mors tua vita mea»;
- la storia in corso come «profezia in atto», secondo la concezione cristiana essenziale (non deterministica né provvidenzialistica) sottolineata da Benedetto Calati (15).
L’importante è non pensare il futuro come proiezione del passato, inciampando in un nuovo idolo baconiano, l’idolo temporis acti, del tempo passato visto come destino. È l’errore tipico delle persone colte, nutrite di tradizioni, contro cui reagisce l’arte di Ermanno Olmi nel film Centochiodi, che propone la vita non irrazionale né incolta, ma liberata dalla soggezione al pensiero troppo codificato. La “dura lezione dei fatti” è da ascoltare tutta, ma mai può essere dogmatizzata, mai eretta a destino. Lo spirito vive tra i fatti, ma è superiore e libero, in buona misura creativo rispetto ai fatti.
Qualunque cosa la storia sembri promettere, o qualunque speranza sembri permettere o invece gelare, vale davanti ad essa questo atteggiamento di Gandhi (che troviamo, con altre parole, anche in Capitini): «Se dobbiamo progredire, non bisogna ripetere la storia, ma fare una nuova storia». (16)

Note: Note
1 Giuliano Pontara, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006.
2 Paul Ricoeur, filosofo, a frère Roger di Taizè, da questi citato nella lettera del 21 maggio 2005 ai familiari e amici di Ricoeur, per la sua morte.
3 Cfr. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. 62-65, dove risponde a un’obiezione mostrando la nonviolenza come fondamento e legge della storia; cfr E. Peyretti, Esperimenti con la verità. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini 2005, p. 55-56; E. Peyretti, Una storia per la pace, in Quaderni Satyagraha, Anno II, n. 4, dicembre 2003, pp. 105-114, ora anche in http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
4 Diego Marconi, Per la verità, Einaudi 2007.
5 Jacques Ellul, Contre les violents, Wien, Le Centurion 1972, p. 7 ; citato da Michael N. Nagler, Per un futuro nonviolento, Ed. Ponte alle Grazie, Milano 2005 (2004), p. 32.
6 Genesi, cap. 18.
7 Giuliano Pontara, nella Prefazione a Fulvio Cesare Manara, Una forza che dà vita. Ricominciare con Gandhi in un’età di terrorismi, Edizioni Unicopli 2006, p. 7.
8 Giuliano Pontara, saggio introduttivo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit., p. XXXVIII.
9 Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano, Ed. Sonda 1990; Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Ed. Gruppo Abele 1997.
10 Nel 1928 (come in altre occasioni, prima e dopo), Gandhi, pur ammirando l’ideale comunista di giustizia, scriveva: «È mia ferma convinzione che nulla di duraturo può essere costruito sulla violenza» (Teoria e pratica della nonviolenza, citato, p. 122).
11 Infatti, c’è anche una pace violenta: la pace d’impero, «o di diseguaglianza fondata sulla preponderanza dell’uno sugli altri, come avviene nel caso degli Stati Uniti nei riguardi degli altri stati dell’America, o su un vero e proprio dominio, esercitato con la forza, la cosiddetta pax romana», come scrive Norberto Bobbio, integrando la classificazione di Raymond Aron, in Il problema della guerra e le vie della pace, quarta edizione, Il Mulino, Bologna 1997, p. 136. Pace nonviolenta è, appunto, quella libera non solo dalla violenza bellica, ma anche dalla violenza economica, giuridica, nei costuni e nelle tradizioni (p. es, la violenza di genere, o il razzismo), nelle culture. È dunque la pace frutto di giustizia, secondo il profeta Isaia 32,17, e fonte di giustizia.
12 Cfr Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000 (1996), specialmente il cap. 4, Teoria delle macroculture, pp. 355-480. Cfr anche Raimon Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003 (1993).
13 Cfr E. Peyretti, Dieci tesi su religioni, violenza, nonviolenza, in Quaderni Satyagraha, Anno II, n. 3, giugno 2003, pp. 93-96.
14 In Balducci il tema è sviluppato specialmente nell’ultima sua opera, La terra del tramonto, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1992.
15 Vedi Sapienza monastica. Saggi di Benedetto Calati, a c. di Alessandra Cislaghi e Giordano Remondi, Studia Anselmiana, Roma 1994, passim.
16 Gandhi, in Joung India, 6 maggio 1926, citato da Fulvio Cesare Manara nell’articolo su questa tematica Nella memoria troviamo le possibilità di una nuova storia, in Azione Nonviolenta, aprile 2007, p. 3.

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