Società e umanità

Chi ci ha tolto la fede nella giustizia?

Speranze dell'umanità - Fallimento del comunismo sovietico - Preveggenza di Gandhi - Fare "l'uomo nuovo". Come? - La violenza deforma l'uomo - Materialismo capitalistico - Un comunismo umanistico - Il Grande Inquisitore - Socialismo gandhiano - Conseguenze politiche della speranza.
5 novembre 2009

Chi ci ha tolto la fede nella giustizia ?

 

 

Enormi parti dell’umanità hanno creduto e sperato nella giustizia, amato e lottato per l’uguaglianza di tutte le persone nella dignità effettiva, hanno pagato anche con la vita per la liberazione dalla fame e dalla soggezione ai bisogni che abbrutisce. Tutto questo non è stato solo nel movimento operaio e socialista nei due secoli precedenti all’attuale, ma era già nelle sapienze e nelle morali antiche, che sono radice e anima, spesso non riconosciuta, di quel movimento contemporaneo.

Oggi quella fede sembra perduta. Chi ci ha tolto la fede nella giustizia? Chi ha distrutto quest’anima, senza la quale l’umanità non è viva?

 

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Il movimento socialista, cioè per una società in cui possiamo sentirci ed essere dei soci e non dei rivali e nemici, ha raggiunto il massimo di apparente successo nel comunismo sovietico realizzato nell’Urss. I rami socialdemocratici di quel movimento hanno realizzato alcuni risultati buoni ed equilibrati, ma si sono dimostrati deboli, non solo nei fatti ma nello spirito, di fronte al nuovo assalto del capitalismo più brutale, sulla fine del Novecento. L’Unione sovietica è fallita in pratica per errori economici e corruzione, anche per l’assedio della corsa agli armamenti con cui l’Occidente l’ha sfiancata e dissanguata, ma è fallita soprattutto per la violenza sociale adottata all’inizio e mantenuta fino al tardivo tentativo di Gorbaciov di uscirne. Il fine giusto è stato impedito dal mezzo ingiusto.

 

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La visione chiara del nesso pratico tra mezzi usati, fini cercati, risultati raggiungibili, ha permesso a Gandhi di giudicare con chiarezza e piena preveggenza, fino dall’inizio, meglio di chiunque altro, l’esperienza sovietica. Nel 1925 scrive che la storia dimostra che «i successi ottenuti con la violenza hanno avuto vita breve». «Se le masse vogliono eliminare le ingiustizie della società capitalistica (…) ciò implica necessariamente la moderazione e la semplicità, volontariamente adottate». Nel 1924 aveva scritto: «Nella misura in cui [il bolscevismo] è basato sulla violenza e sulla negazione di Dio, non posso accettarlo. Io non credo nelle vittorie ottenute in fretta, con la violenza». «Per quanto possa condividere e ammirare le aspirazioni e i sentimenti nobili [degli amici bolscevichi] io sono inflessibilmente contrario ai metodi violenti, anche quando vengono posti al servizio della causa più nobile». Nel 1928 dice che l’abolizione della proprietà privata «è soltanto un’applicazione dell’ideale etico del non-possesso nel campo dell’economia, e se il popolo accettasse questo ideale di sua spontanea volontà o potesse essere indotto ad accettarlo con mezzi pacifici, sarebbe una conquista meravigliosa. Ma da quello che so del bolscevismo, esso non solo non esclude l’uso della forza, ma ne sanziona apertamente la necessità. (…) Se le cose stanno così, non ho alcuna esitazione a dire che il regime bolscevico nella sua forma attuale non può durare a lungo. È mia ferma convinzione, infatti, che nulla di duraturo può essere costruito sulla violenza». Gandhi riconosce però apertamente «il sacrificio più puro… il nobile esempio della loro rinuncia... l’eroismo e il sacrificio dei rivoluzionari violenti» e in ciò nomina con ammirazione Lenin riconoscendone la «levatura spirituale». Nel 1947 scrive ancora che il socialismo come ideale di eguaglianza «è puro come un cristallo. Esso dunque per essere raggiunto richiede mezzi altrettanto puri. Mezzi impuri producono un fine impuro. (…) Dunque, soltanto i socialisti seguaci della verità, nonviolenti e puri sono in grado di edificare una società socialista» (Teoria e Pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 118-126).

 

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È utopia impossibile la trasformazione dalla rivalità alla socialità, a livello di grandi numeri? Qui si toccano gli interrogativi sulla natura umana. Chi dice che non è nulla di stabile, come una figurina di pongo che può prendere la forma che gli dai. Chi dice che è buona, e va solo liberata dalle cattive esperienze. Chi dice che è irrimediabilmente malvagia, unico legame tra noi essendo la minaccia e l’inimicizia. Chi dice che ci siamo illusi sulla nostra correggibilità fino ad imparare a guardarci come fratelli.

L’errore del marxismo non è affatto la pretesa di fare “l’uomo nuovo” (caso estremo la Cambogia di Pol Pot). Questa è anche la pretesa cristiana. Quel termine è evangelico. È l’obiettivo di ogni morale nobile. Senza l’ambizione di sviluppare la “grandezza” dell’uomo, di rinnovarne il cuore di pietra in cuore di carne, rimane solo la rassegnazione, ed anzi l’uso astuto, machiavellico e mercantile, della sua “miseria”.

Domanda: la rassegnazione antropologica minimizzante dei moderati, che non si oppone decisamente alle violenze strutturali, fa più o meno danno dell’ambizione che finisce per disumanizzare volendo umanizzare? Forse fa almeno altrettanto danno.

L’errore tragico del marxismo, per poca fede, è stato voler fare l’uomo nuovo per la via esteriore, materiale, delle sole strutture, autoritaria fino alla violenza. L’errore è nel mezzo, non nel fine (per questo motivo fascismo e nazismo sono, nella loro essenza, peggiori del marxismo, perché in essi anche il fine, e non solo il mezzo, è un delitto).

L’errore del marxismo è lo stesso identico errore del materialismo capitalistico, della religione dominatrice (sacra prostituta degli  imperatori, spesso ancora oggi), è lo stesso  identico errore del potere statale machiavellico consustanziale alla violenza (ora si può leggere in italiano il fondamentale Staat und Krieg, Lo Stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, di Ekkehart Krippendorff, Gandhiedizioni, Pisa).

L’uomo plasmato e pressato del tutto da fuori, sedotto dalla «miseria brillante» (Kant) dell’eccessivo possedere, e non accompagnato a respirare e crescere nel suo spirito libero, verso la verità, come fanno i diversi vangeli veri dell’umanità, diventa una vittima e un mostro, necessariamente.

 

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Oggi, in questa nostra parte del mondo, ma con pretesa universale, quella violenza del comunismo sovietico, subito denunciata da Gandhi, la sta esercitando - sulle vittime pasciute e ridotte ad essere soddisfatte di questa bassa realizzazione, quindi de-umanizzate - la pubblicità dell’acquisizione e dell’invidia possessiva mimetica, che ha in corpo la violenza e la disperazione. La pubblicità è l’unico dio, e Berlusconi il suo profeta.

Il comunismo sovietico non è mai da confondere con un comunismo umanista, che considera il primato vitale nella economia – “eco-nomia”, regola per abitare insieme - dei beni comuni, non appropriabili, cioè la natura minacciata, il nostro corpo comune. Il comunismo sovietico ha commesso il tragico errore di sacrificare negli esseri umani la libertà alla felicità piccola e immediata. Ha fatto come il Grande Inquisitore, descritto da Dostoevskij come l’emblema insuperabile della religione antiumana, contro l’umanità e contro Gesù. Ha fatto esattamente come il capitalismo disumano che oggi ci domina e ci solletica, e ci arruola, le armi in mano, nella guerra contro gli esclusi. Finora. La crisi dell’economia folle sta forse risvegliando la coscienza in qualche ruolo di responsabilità? Non certo in Italia.

Religione, sovietismo, capitalismo sono i grandi nemici di tutti, nella misura in cui sono spregiatori della dignità umana, giudicata incapace di bene e di giustizia, ma solo di egoismo aggressivo, impaurito e miserabile.

Il socialismo gandhiano, ancora più sconosciuto delle lotte nazionali nonviolente, vivente in alcune esperienze fuori dai riflettori, è un passo più avanti di quei tentativi. Incarna anche l’ideale cristiano vissuto solo in piccole comunità profetiche. Risponde anche a quella nostalgia segreta che traspare nella critica marxiana della religione: «spirito di un mondo senza spirito».

Le chiese cristiane si sono ridotte troppo spesso a spaccio di consolazioni private e brevi, hanno mancato non dico di fare politica (ché fin troppo l’hanno fatta per sistemarsi tra le potenze mondane), ma di ispirare moventi e qualità della politica per renderla una forma di amore dell’umanità mediante la giustizia e la pace; cioè, mediante quelle scelte libere, responsabili, fallibili, dei cittadini che non pretendono certo di calare nella politica verità trascendenti, ma di trarre quelle «conseguenze politiche della speranza» (Roberto Mancini), laiche, pluralistiche, non integriste, e tuttavia ben più valide delle politiche di potenza, perciò capaci di liberare e tutelare la dignità delle persone e dei popoli.

Gandhi

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Chi ci ha tolto la fede nella giustizia? Se riusciamo a vedere chi e che cosa, anche in noi stessi, ci ha avvelenato la speranza, chi ci ha falsificato l’ideale in illusione, per potere spararci addosso il colpo mortale della delusione e della rassegnazione, necessarie al dominio dei potenti, allora potremo tornare a fare analisi della realtà alla luce della intelligenza disincantata e con la forza dell’anima (satyagraha), e potremo vedere dove sta l’inganno e come si può cercare di diventare veramente umani, soci o fratelli, più giusti.

 

Enrico Peyretti, 9 settembre 2008 (rivisto 2 aprile 2009 e di nuovo 30 giugno 2009)

 

 

 

 

 

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