Le attese dell'uomo
Filosofia e religione
(pubblicato col titolo Le attese dell’uomo, in "éupolis", rivista di filosofia e critica della società, n. 1/08, gen-apr 2008, nuoviquaderni@tiscali.it ; www.see.it/eupolis/index.html )
Premessa * Filosofia è interpretazione di altro * Religione è relazione * Purché sia una relazione vitale * Ragione critica della religione ambigua * La ragione etica giudica le religioni * Anche la fede è una relazione * Siate modeste * Critica e fiducia * Dubbio e verità * Funzione veritativa del dubbio * La verità è irrinunciabile
* Premessa
Mi sento inadeguato al compito datomi di riflettere sul tema “filosofia e religione”, un terreno sempre percorso da tanti, con tante diverse soluzioni, e ancora sempre da percorrere. Eppure, tutti, con un minimo decente di ragionevolezza, possiamo parlare su temi seri, non vietati alle persone comuni, non riservati agli esperti, sebbene sicuramente le opinioni di specialisti, esperti e sapienti debbano essere ascoltate con tutta l’attenzione. Diceva un amico scomparso: «Se solo gli addetti potessero parlare, soltanto le galline potrebbero dire se le uova sono fresche». Ma noi, che mangiamo le uova senza saperle fare, sappiamo benissimo se sono fresche oppure no. Chi legge, valuterà se trova qualcosa di utile in queste semplici riflessioni. Dirò qualcosa di esperienza meditata più che di dottrina colta.
* Filosofia è interpretazione di altro
Secondo un’impostazione teorica del rapporto tra filosofia e religione, che più mi convince, la filosofia ha da interpretare l’esperienza religiosa, osservandola come fenomeno umano e anche interrogandola a fondo. Compito della filosofia è fare domande, e domande sulle risposte. Essa guarda i problemi negli occhi, anche gli interrogativi più terribili, anche quelli di cui non vede una possibile risposta. Essa un po’ parla, molto interroga, e anche tace. Paolo De Benedetti, in Teologia degli animali (p. 59), cita un filosofo: «Guardate gli occhi di un cane che muore e vergognatevi di tutta la vostra filosofia». Un intelletto iperproduttivo subito sforna una risposta al dolore animale, ma se è unito ad un cuore pensante e compassionevole, si ferma davanti a quel buco nella compatta realtà. Contempla il limite, e attende. Sia Ernst Bloch che Nietzsche dicono che pensare è varcare le frontiere. Ma anzitutto vederle. Ogni confine indica altro con cui con-fina, ogni relazione indica un aldilà da sé. Arresta e rinvia.
Il pensiero affronta tutto, ma non prende tutto dentro di sé, non com-prende tutto. Raimon Panikkar ha scritto che «la mistica è l’esperienza integrale della realtà». Per mistica non intende l’andare in estasi, ma la partecipazione a ciò che né i sensi né l’intelletto colgono: i sensi vedono poco, l’intelletto da solo è corrosivo. La filosofia esamina tutto ma non è tutto.
* Religione è relazione
Distinguerei religione e fede, ma non troppo, come è stato fatto da Barth. Non le metterei in opposizione. Religione è relazione. Anche la fede, dirò più avanti, è una relazione.
Più che legame, vincolo, sottomissione (ma è spesso anche questo), intendo la religione con Aulo Gellio, nelle Noctes Atticae (XX, 4, 9),: «Religentem esse oportet, religiosus nefas [ne fuas]»: è cosa da evitare, nefasta, essere “religioso”, cioè ritenere di rapportarsi, in senso dipendente e passivo, ad un originario considerato ormai disponibile, come ad un oggetto, una cosa; ma bisogna essere “religente”, cioè di quelli che attivamente sempre di nuovo, in atto, si collegano all’originario, e così anche collegano, congiungono le cose e gli esseri (cfr M. C. Bartolomei, Intersezioni tra scrittura e interpretazione: la Bibbia, Libreria Cuem, Milano 1990, p. 85-86).
* Purché sia una relazione vitale
Chi ha paura della religione e ne rifugge ha i suoi buoni motivi. Ma non ha motivo di rifuggire da tutte le relazioni, dal tessuto che sostiene e sostanzia la nostra esistenza. Fin dove arriva il campo di realtà di queste nostre relazioni? Ci collegano al mondo materiale, al mondo storico, naturale, umano, o anche ad una realtà misteriosa, del divino, nel suo doppio volto tremendo e affascinante? (cfr. Giuseppe Barbaglio, Amore e violenza. Il Dio bifronte, Pazzini editore 2006). Per essere vitali, devono essere buone relazioni, costruttive. Se immaginiamo relazioni oltre il visibile sperimentabile (sappiamo già di averne nell’ordine dell’infinitamente piccolo, dell’infinitamente grande, e dell’inconscio), anche nell’area del divino, per potere accettarle e viverle devono essere relazioni che contribuiscono ad una nostra vita buona, giusta, valida, libera, dignitosa, e almeno un po’ felice, pure nel dolore. La verità della vita mostra (non dico “dimostra”) o non mostra la verità di una religione: «Dai frutti li riconoscerete».
È l’esperienza quella che può e deve giudicare se la religione ci fa bene, in questo senso, pur richiedendo impegno e regole di vita, pur non esonerandoci dai drammi della vita, oppure se ci mortifica e ci riduce. L’esperienza e la ragione hanno titolo per accogliere o non accogliere quell’ampiezza di rapporto anche col mistero, in cui consiste la relazione religiosa.
Ricordo bene che, quando era giovane, un monaco oggi abbastanza famoso, diceva: «Se Dio è un faraone che vuole essere adorato, aspetto solo il giorno del giudizio per dirgli che è un gran cafone». Parole chiare. Se Dio è un padrone opprimente, ma davvero che vada a farsi benedire! Si vive meglio senza, nonostante tutti i nostri problemi e difficoltà.
Chi ha avuto questa esperienza soffocante della religione, ragionevolmente e anche moralmente la rifiuta. Poi, però, rischia di razionalizzare il fatto che siamo irrimediabilmente soli nel cielo vuoto, come del resto la persona religiosa rischia, all’opposto, di accomodarsi nell’idea del “dio tappabuchi”. Chi con ragione ha rifiutato la religione passa facilmente a pensare che la ragione esiga di non essere religiosi. In realtà, egli ha incontrato una religione indegna di un essere ragionevole. Ma tutta la religione possibile è quella che lui ha incontrato e sperimentato? Oggi compaiono trattati di “ateologia”. Mi sembra una pretesa non fondata. L’ateo deve dire «io non vedo», come il credente dice «io credo», cioè: mi affido, mi appoggio, perché ho ricevuto qualche segno credibile. Non vedere non dimostra l’inesistenza, come credere non dimostra ad altri l’esistenza di Dio.
Chi ha fatto l’esperienza di una religione che sostiene e fa crescere la vita, e con ragione l’ha accolta e vissuta, passa poi facilmente a pensare che la ragione umana esiga di essere religiosi, che la ragione veda con evidenza quello che lui ha compreso nell’esperienza, fino a ritenere irragionevole chi non è religioso.
* Ragione critica della religione ambigua
In tutti i casi, la ragione deve prendere atto della ambiguità della religione. A me interessa in primo luogo ciò che porta violenza o che, al contrario, riduce la violenza nella vita umana. Perché la violenza è l’offesa e la tortura della vita, a cui toglie senso e bellezza, nel violento come nella vittima. Così, vedo, sotto questo aspetto (ma forse si può dire lo stesso sotto altri aspetti), che le religioni producono sia violenza che nonviolenza. In quanto tensione, ricerca, relazione con qualcosa o qualcuno colti come un assoluto, più grande e più vivo, più vero di noi, esse sono tentate di intransigenza, di totalitarismo esclusivista, di imposizione violenta. E rischiano sempre di giustificare ogni mezzo in vista di un fine grande e vero. Ma proprio il rapporto, vissuto più seriamente e sinceramente, con un assoluto che ci trascende, deve farci sentire relativi, ci chiede di essere umili, miti, rispettosi, nonviolenti, impegnati nel servizio agli altri. Il significato migliore delle religioni esige che esse si facciano tutte sempre chiaramente nonviolente.
Questo posso dirlo, ma so che la deriva totalitaria e violenta delle religioni (quale più, quale meno, un po’ tutte) è sempre possibile e spesso reale, pesante, prolungata. In aggiunta, accade che i vari poteri, più falsi e violenti sono, più volentieri si appropriano dell’avallo delle religioni, sfruttandole, manipolandole. Anche ai nostri giorni, i furbi che usano Dio e gli apparati e le culture religiose come instrumentum regni, sono ben presenti e attivi, ben accolti da funzionari degli apparati religiosi, spiritualmente fiacchi ma ben lusingati e premiati. Le religioni, più sono spiritualmente deboli, centrate sulle proprie strutture invece che tese nella relazione con l’oltre, più si rendono disponibili a servire e benedire i poteri ben piazzati al di qua di ogni oltre. Il pensiero critico dovrà anzitutto chiedere alle religioni di essere se stesse, di risolvere la loro ambiguità tra violenza e nonviolenza, tra fecondità spirituale e concordati politici. Critica del potere e critica della religione collaborano.
* La ragione etica giudica le religioni
Tocca alla ragione giudicare la religione, anche se la religione ha le sue ragioni. Non la giudica per limitarla, censurarla, imporle temi e linguaggi, ma, come ragione vitale, ha il compito di esaminare ogni religione: aiuta a vivere senza illudere? Sostiene il coraggio davanti alle angosce dell’esistenza, così da affermare la vita sulla morte, il senso sul non-senso? Anima le relazioni tra noi, persone e gruppi umani, perché siano affermative della dignità, costruttive nei conflitti, ricostruttive dopo i torti e i fallimenti? Se è così, mi sembra di poter dire che l’etica ragionevole dell’unità umana, cioè del valore inviolabile dell’umanità riconosciuta e venerata in ogni altro essere umano, come giudica tutte le culture, le filosofie, le politiche, le economie, così giudica tutte le religioni. Tutte le vie umane sono giudicate dall’etica di pace nonviolenta, cioè dal «rispetto della vita» (Albert Schweitzer). È dunque possibile, secondo l’esperienza fatta da ciascuno, che questa etica porti a rifiutare o riformare la propria religione della quale si siano constatati gravi tradimenti, errori, sordità, ritardi su questo punto primario.
* Anche la fede è una relazione
Alcune religioni sono più precisamente religioni di fede, o meglio sono fedi, più che religioni. Anche la fede è una relazione. Avere fede, credere non è assolutamente, nel significato autentico, e in particolare nel significato biblico, pensare senza verificare, sul solo principio d’autorità, come ritiene un certo razionalismo: credere non è la rinuncia a pensare, non è pensare con la testa altrui. Nemmeno è soltanto supporre, opinare. Significa aderire, appoggiarsi, confidare, accogliere. Esprime dunque un rapporto interpersonale, non una speculazione, né un pensiero passivo, o una mera probabilità. Non c’è fede senza un altro in cui credi: è credere in, credere a, prima e più che credere che (pensare determinate verità, accettare una dottrina di vita). La fede è una relazione interpersonale, non un pensiero teorico (che può venire di conseguenza); così, la fede viene prima del comportamento pratico (che viene di conseguenza, ma vale anche come predisposizione).
Credere in è anche attendere senza avere, è accogliere, sperare, è sperimentare serenamente di non essere del tutto autosufficienti, di essere poveri di sé e ricchi dell’altro. Poiché è dialogo, è pregare, invocare (Agostino scrive: «Il tuo desiderio è la tua preghiera») ed è ringraziare.
* Siate modeste
Leggo in una intervista del fisico Hans-Peter Dürr (del gruppo Pugwash, premio Nobel per la pace nel 1995, a sua volta premio Nobel alternativo nel 1987, promotore del Manifesto di Potsdam 2005, che riprende l’appello di Einstein e Russell del 1955) un pensiero su scienza e religione, che mi pare possa valere anche riguardo a filosofia e religione: «Scienza e religione non sono diverse in linea di principio, ma ambedue commettono l'errore di prendersi troppo sul serio, cioè intendono in maniera fondamentalista quello che hanno scoperto. Il fondamentalismo della scienza consiste nell'aver dichiarato che la realtà oggettiva è la realtà in tutti i sensi, e le religioni commettono l'errore di dire che quello che è scritto è la verità. È questo fondamentalismo che è sbagliato. Quello che è scritto e quello che risulta dalla fisica classica è solo una sorta di simbolo, un qualcosa che indica come le cose stanno, ma non esattamente. Si può dire ad ambedue: tenete presente che ciò di cui parlate è un simbolo, che rinvia a qualcosa che di per sé non è afferrabile: la circonferenza che io disegno con una penna non è né blu, né verde: che tu sia musulmano o cristiano, la circonferenza non ha colore, il colore ce lo avete messo voi, uno il blu, l'altro il verde. Allora la raccomandazione sia alla scienza che alla religione: siate modeste, né l'una né l'altra potete parlare di ciò che è, parlate solo di una costruzione mentale che è legata al linguaggio, il quale può esprimere solo l'afferrabile» (www.abaudine.org/virtunascosta/virtu.htm ).
* Critica e fiducia
Allora, pensare criticamente non vorrà dire negare ogni fiducia alla realtà. Non vorrà dire negare ciò che non vedo, rodere la consistenza del reale fino a lasciarci il nulla sotto i piedi. Senza una fiducia coraggiosa, con cui supero me stesso senza perdere l’autocontrollo, non posso neppure pensare criticamente, perché devo almeno fidarmi che la mia ragione, anche quando giudica se stessa, non sia un puro autoinganno. Senza una qualche fede naturale nella realtà e nel tempo, non merita che io respiri anche nel prossimo minuto. Se continuo, attendo qualcosa: capire meglio, arrivare a quell’obiettivo, stare meglio e non peggio. Se questa fede vitale non scompare davanti agli abissi dell’esistenza – il dolore insensato, il male attivo, l’assurdo, la morte – ma cerca ancora dove l’occhio non vede, e lotta con l’angelo come Giacobbe al fiume, allora sto entrando in una relazione religiosa.
* Dubbio e verità
Anche l’obiezione, l’opposizione, il dubbio sono un rapporto con la realtà e il suo significato. La verità non esclude il dubbio. Anzi, il dubbio collabora alla verità. Poiché non afferriamo la verità, non la mettiamo in tasca come un oggetto, ma l’abbiamo di fronte come in una relazione, come un orizzonte, dunque il dubbio, l’incompiutezza, la strada ancora da percorrere, l’ignoranza, accompagnano la conoscenza come l’ombra accompagna un corpo in presenza di una luce. Più si impara, più si ignora. Non si sa tutto, non si sa fino in fondo, non si sa con una certezza senza ombre (se non, forse, le verità inferiori a noi, tecniche, utili). Non si sa “senza ombra di dubbio”: infatti, ogni verità conosciuta ha la sua ombra. La possibilità del diverso e del contrario non è esclusa in modo assoluto dalle nostre più chiare convinzioni. Se tutto ciò vale per ogni conoscenza, vale a suo modo anche per la verità religiosa.
Il dubbio non è soltanto un nemico della verità. C’è un dubbio negativo, radicale: tutto ciò che conosciamo non è reale conoscenza, è solo apparenza; ma c’è anche un dubbio positivo, interrogativo, attivo, procedurale, di insoddisfazione e stimolo, per l’ignoranza che accompagna il sapere, e per il desiderio di sapere meglio.
I dubbi possono portare avanti nella verità, scuotendo precedenti assestamenti, quindi possono essere non dubbi dissolutori, così da farci perdere il tesoro trovato nel campo, ma necessari passaggi faticosi di un ulteriore cammino valido.
* Funzione veritativa del dubbio
C’è una funzione veritativa del dubbio: esso libera la verità dalla crosta dura irrigidita della retorica, del dogmatismo, dell’ideologia, dell’appagamento; il dubbio veritativo è l’apertura di ogni verità al suo inveramento ulteriore, oppure alla sua verifica-falsificazione, che porta a una più vera verità. Si tratta del dubbio scientifico. La scienza ha «simpatia per l’errore» (Cfr. Carl Friedrich von Weizsäcker, Il tempo stringe, Queriniana, Brescia 1987, pp. 56, 65, 67, 127), simpatia per la scoperta dell’errore, che le permette un passo avanti nella migliore conoscenza. Quando una conoscenza diventa ovvia, come l’arresto di un cammino, è allora che bisogna dubitarne, per darle nuova verità. Il dubbio è la fragilità feconda di un’affermazione aperta all’interrogazione; è la qualità di una sostanza, non è una sostanza. Se il dubbio ha ragione diventa un’affermazione.
Quando la filosofia interroga e problematizza la religione, e quando il pensiero critico lavora nell’ambito delle convinzioni di una religione, cioè fa teologia, allora filosofia e teologia aiutano la verità religiosa col dubbio veritativo.
* La verità è irrinunciabile
Il dubbio attivo cerca una nuova certezza di verità. La verità è irrinunciabile tensione costitutiva dell’umanità autentica, è una realtà viva all’orizzonte, che ci attrae, non è illusione né presunto possesso. Non è una de-finizione che limita, che con-fina, ma una in-dicazione che apre, pro-spetta.
Perché possiamo dire che c’è in noi una tensione irrinunciabile alla verità? Chi nega l’esistenza di una verità ultima, oppure la possibilità di conoscerla, dice questo come una affermazione vera, che vale perché corrisponde alla realtà. Non si può parlare senza dire qualcosa in quanto vero. Chi mente lo fa per interesse, o per gioco, o per utile, ma la menzogna che egli dice vuole apparire verità. Il discorso comunicativo tra noi deve essere dato come vero, o almeno come ipotetico, altrimenti non è degno di ascolto, oppure si ascolta come uno scherzo. Anche la favola, non vera storicamente, vuol dire una verità metaforica: ci sono davvero nel mondo uomini-lupi che mangiano gli uomini-agnelli. La barzelletta si presenta come non vera, assurda, solo per offrire il divertimento di un paradosso stridente e comico.
Gandhi scrive: «Abbiamo conosciuto la negazione di Dio, la negazione della verità no. Anche l’uomo più ignorante ha in sé una verità. Noi tutti siamo scintille di verità» (Young India, 6 dicembre 1928, in The Collected Works of Mahatma Gandhi, LX, p. 106).
Persino la menzogna rende omaggio alla verità. Ogni menzogna è un omaggio alla verità. Ogni menzogna raggiunge il suo scopo di ingannare solo se si nega come menzogna per affermarsi come verità. L’inganno non inganna se non si serve della verità. Nessuno dice: «Ascoltami! Questa è una menzogna!». La verità è il senso e lo scopo di ogni parola, anche quando sbagliamo, anche quando inganniamo. Per andare contro la verità dobbiamo servirci della verità. Una moneta falsa viene spacciata per buona, e serve per comprare qualcosa solo in quanto appare buona. Se non ci fosse la moneta buona, nessuna moneta sarebbe falsa.
Nessuno può rinunciare a dire (e quindi cercare) la verità, oppure a far credere vero ciò che dice, perché gli altri attendono da ogni discorso la verità. Nessuno dice se non per gioco: quello che ti dico non è vero.
Dunque, in un certo senso, la verità è insopprimibile, irrinunciabile. C’è una per-manenza della verità, che non si può perdere, una sua onni-presenza, che pervade anche la menzogna, almeno la sua superficie apparente, perché possa esistere e agire da menzogna. Ogni relazione umana – e la parola è una relazione - ogni dis-corso, ogni con-versazione, si basa sulla verità, almeno apparente, altrimenti non è una relazione. Il lupo parla all’agnello fin quando il suo sembra un dis-correre; smascherata la falsità, passa alla pura violenza, dove non c’è più né parola né relazione. La violenza è l’essenziale non-verità.
Perciò si dice bene che la prima vittima della guerra è la verità. Perciò Gandhi pone la verità nella nonviolenza operante, nell’amore, anche se essa rimane sempre da cercare e avvicinare ulteriormente. In precedenza aveva detto che Dio è la verità, ma poiché diverse sono le nostre concezioni di Dio, successivamente si corregge dicendo che la verità è Dio: sempre oltre è la verità, sempre oltre è Dio. La ricerca della verità, l’amore della sapienza, e la religione convergono. Non è lo stesso il cammino del pensiero critico e di una religione positiva, che è una risposta (pur sempre ricerca) alle domande del primo, ma c’è una convergenza all’infinito tra filosofia e religione universale: l’una interroga l’altra, questa risponde senza chiudere la domanda, e il dialogo continua quanto la vita.
Enrico Peyretti, 16 aprile 2008
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