Spiritualità radicale e clericalismo
08 05 13 Spiritualità radicale e clericalismo
pubblicato in Servitium n. 180 “Generazione del Concilio II”, nov-dic 2008, pp. 61-70
(Segue al fondo di questo file, la recensione di Scoppola Un cattolico a modo suo, autobiografia in articulo mortis, pubblicata nello stesso fascicolo, pp. 103-108, col titolo Vita e morte in cerca di sé. Testamento di Pietro Scoppola)
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Avevo ventisette anni (ora settantatre) quando si aprì il Concilio. Ero stato quattro anni nella presidenza centrale della Fuci. Ero entrato da poco nel Collegio Lombardo per prepararmi agli ordini, studiando teologia alla Gregoriana. Così, nel solenne corteo inaugurale del Concilio, l’11 settembre 1962, in quanto chierico facevo da “caudatario” al cardinale Fossati, vescovo della mia diocesi, Torino. Procedevamo poco dietro al papa. Posso ancora riconoscermi nei filmati di quella cerimonia. Col cardinale entrai nell’aula conciliare. I vescovi andavano ai loro posti, noi fummo dirottati negli spazi laterali, da dove ascoltai la grande allocuzione in latino di papa Giovanni Gaudet mater Ecclesia: si capiva che era importante, ma tutto il significato si rivelò dopo, un po’ alla volta.
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Avevo chiesto di diventare prete per il desiderio di rendermi utile al vangelo, e per l’esempio (ma senza alcuna pressione, sia chiaro) di alcuni preti della Fuci, molto validi ai miei occhi. Dicevo chiaro che accettavo sinceramente il celibato come condizione, non come vocazione, a differenza di altri chierici. Ordinato nel ’64, finiti gli studi, rientrai nel ’66 a Torino, dove da un anno era vescovo Michele Pellegrino. Vissi con lui, nella mia chiesa, gli anni fervidi del dopo-concilio. Nel ’71 fondai con un piccolo gruppo di amici “il foglio” (www.ilfoglio.info), mensile che esce tuttora regolarmente su temi della fede e della vita civile, voce libera e anche critica nella chiesa torinese (soltanto omonimo di un quotidiano assolutamente diverso nato molto dopo). Mi distaccavo progressivamente dal ministero di prete, per tanti motivi. Nel ’74 (come tanti altri preti in quel periodo) chiesi al mio vescovo il ritorno allo stato laicale. Pellegrino mi voleva bene e mi stimava. Sapevo di dargli un dispiacere e per questo avevo esitato a lungo. Infatti ne soffrì. Gli dissi che lo facevo per trovare il mio vero posto e per restare buono, possibilmente. L’anno seguente mi sposai. Pellegrino continuò a volermi bene, fece in tempo a sorridere alla nostra prima figlia, anche se criticò alcune posizioni de “il foglio”. Del resto alcune volte si era detto preoccupato dei preti troppo tranquilli e passivi, più che di quelli che ponevano problemi. Spero – ma chi conosce del tutto se stesso? – che il mio non sia stato solo un cedimento ma il chiarimento di una vocazione laicale, mio vero posto nella chiesa. Da allora, partecipo alla chiesa in una piccola comunità popolare, marginale non sotto, non contro, non senza la chiesa cattolica locale.
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Come erano quegli anni? Mi scriveva recentemente un amico molto più giovane, che collabora anche a Servitium: «Io comincio a pensare qualcosa di davvero brutto. Comincio a pensare che voi abbiate vissuto un’epoca unica nella storia degli ultimi secoli. Quali generazioni nella storia dell’umanità possono vantare di aver vissuto insieme il secondo dopoguerra, il concilio e il ’68??? Ma vi rendete conto di ciò che avete avuto??? Un’eccezione storica, un gioiello miracoloso. Ma è sempre stato diverso e forse occorrerà aspettare ancora secoli per avere una simile congiuntura storica. L’unica speranza per noi è che i frutti istituzionali di quella stagione unica resistano alla storia… parlo di sinistra diffusa, alfabetizzazione, decolonizzazione, emancipazione femminile, laicità, democrazia imperfetta, ONU, UE, tribunale internazionale, diritti umani e dei lavoratori, stato sociale, idee di tolleranza, dialogo, etc. Ma questa non è la natura umana su cui contare. Questa è tutta roba che va difesa con i denti e con tutta l’intelligenza disponibile. Gli uomini cercano solo un padrone equo cui affidare la loro libertà (non lo dico io, ma Sallustio). Guarda la fine che hanno fatto le polis, i comuni, le repubbliche, le rivoluzioni, gli esodi… i popoli, gli uomini, preferiscono (quindi noi preferiamo!, fino a prova contraria) le cipolle d’Egitto e la sicurezza (psichica) alla libertà e alla responsabilità».
Ahimé, l’amico ha ragione nella seconda parte, triste, purché non cada nella rassegnazione. Ma ha ragione specialmente nella prima parte: mi aiuta a capire meglio la grande fortunata stagione che chi ha la mia età visse in quegli anni; stagione anche tormentata, ma di vita intensa, piena, su tutti i piani: interiori, esperienziali, sociali, intellettuali, ecclesiali, politici. Un tempo e un’impresa comunitaria che, come la vita intera, si capisce meglio dopo. Un tempo i cui frutti, che oggi sembrano sepolti, persino disprezzati e rifiutati, non devono, non possono, andare dimenticati e perduti.
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Il tema datomi per questa nota è Spiritualità radicale e clericalismo. Come posso intendere questi termini? Radicale voleva dire, allora, tornare ad attingere alle radici, cioè all’essenziale: non un’archeologia temporale, ma il bisogno di sfrondare quello che, già anni prima, un bravo assistente della Fuci torinese (mi piace ricordarlo ai vecchi come me: don Francesco Gosso) chiamava «tumefazione vaticana». Nei nove anni vissuti a Roma l’avevo vista bene, da vicino, anche se il ventilabro di papa Giovanni cercava dolcemente ma decisamente di mondare l’aia (Matteo 3,12).
Nel ‘69, a Torino, i movimenti giovanili si interrogavano sull’ “essenziale della fede”, e chiesero a Pellegrino un sinodo diocesano popolare, che portasse tutta la nostra chiesa “in stato di concilio”. Lui apprezzò l’idea, ma temporeggiò e rinviò sine die, preoccupato, come diceva, di tenere insieme i cattolici (e i preti) del Vaticano I, quelli del Vaticano III (diceva proprio così), almeno nel Vaticano II.
Il Concilio aveva parlato di “gerarchia delle verità”: non tutto aveva la stessa centralità e importanza. Questo aiutava non tanto a mettere il secondario nel posto del secondario, quanto a mettere in evidenza il centro e la radice della fede, la persona di Gesù Cristo e la sua vita in noi, nella storia.
Oggi, a che punto siamo? Io vivo in un angolo della chiesa, può darsi che non veda bene, o che appiattisca quello che vedo. Ma mi sembra – posso sbagliare - che Gesù Cristo e i santi (anche i loro cadaveri riesumati), la morale (specialmente sessuale) e la fede, il servizio e il comando, e la collegialità episcopale, l’autonomia dei laici e l’assorbimento della chiesa nel papa, la testimonianza e la propaganda, la preghiera e l’influenza sociale, la povertà e i mezzi ricchi, il dialogo e l’autorità, la fraternità e il verticismo, mi sembra che tutto sia compattato di nuovo in un blocco in cui ogni cosa ha la stessa importanza: prendere o lasciare. Quando accade questo, chi ci perde è l’essenziale. Le foglie, che cadono e cambiano ad ogni stagione, sembrano valere quanto le radici perenni.
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Quanto al clericalismo ricordo bene la sorpresa e la soddisfazione nello scoprire, studiando, che nel Nuovo Testamento iereus, (sacerdote), è un termine usato in senso nuovo (a parte i significati di sacerdote del tempio giudaico, sacerdote pagano, sacerdozio di Melchisedec) solo con riferimento a Cristo e a tutto il popolo cristiano. Per i ministeri ecclesiali i primi cristiani adottarono termini presi dalla vita e dall’amministrazione civile: apostolo (inviato), episcopo (sorvegliante, sovrintendente), presbitero (anziano), diacono (servitore), evitando senza eccezioni il termine sacro “sacerdote” per queste funzioni. Non pensavano come il fondatore del diritto canonico, il monaco Graziano, che nel 1140 espresse la successiva sacralizzazione dei ministeri parlando di «duo genera christianorum»: i ministri sacri e i laici meno sacri. Dico cose ben note. Un bel po’ di anni dopo, Togliatti, nella sua politica di mano tesa ai cattolici, diede disposizione all’Unità di usare sempre il termine sacerdote e non prete (contrazione di presbitero), perché questo suonava meno rispettoso, più volgare. Sapeva bene il fatto suo, perché in effetti era così nel linguaggio cattolico.
Clericalismo è ben di più dell’autoritarismo di un parroco sui suoi parrocchiani laici, o dell’intervento dei vescovi sul piano storico-politico di competenza dei laici cattolici. Abusi simili possono verificarsi anche in chiese che chiamano “pastori” e non “sacerdoti” i loro ministri. Il clericalismo grave è appunto quello che attribuisce al “clero” (letteralmente: un ceto scelto per “sorte, eredità”) un carattere più sacro dei comuni cristiani, quindi più vicini a Dio, mediatori tra Dio e l’umanità, come se Gesù Cristo non avesse annullato ogni altra mediazione nella sua persona di uomo e Dio. Infatti i buoni fedeli dicevano al prete: «Preghi per me lei che è vicino al Signore», e questo non per una sua maggiore santità personale, ma solo per la sua funzione.
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Ora, il concilio Vaticano II chiarificò molto il linguaggio, e quindi i concetti, su questo punto. Nella raccolta dei suoi documenti (edizioni Dehoniane 1966), nel dettagliatissimo indice analitico (da p. 1117 a p. 1299), alla voce Presbiteri vedo una sessantina di rimandi, ciascuno a gruppi di passi con questo termine; alla voce Sacerdote vedo soltanto “cfr Presbiteri”. La successiva voce Sacerdozio distingue sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale. Si teneva a precisare appunto “sacerdozio ministeriale” e non “ministero sacerdotale” perché non è l’attribuzione del ministero che rende sacerdote (e chi non è ministro non sarebbe sacerdote), ma è il sacerdozio comune a tutti i battezzati esercitato nella forma del ministero. Perciò giustamente il ministro ordinato veniva detto presbitero e non sacerdote.
Questa chiarezza si è perduta col tempo. L’uso cattolico, se non sbaglio, ha ripristinato largamente il termine sacerdote come spettante ai preti e non a tutti i battezzati.
È vero che un inciso nel n. 10 della Lumen Gentium (la Costituzione dogmatica sulla chiesa) dice, del sacerdozio comune e del sacerdozio ministeriale: «... quantunque differiscano nell’essenza e non solo nel grado (licet essentia et non gradu tantum differant)...», citando Pio XI e Pio XII. Mi sono sempre chiesto cosa significano queste parole che sembrano inserite nel testo a scopo di mediazione tra pensieri diversi. Se differiscono per essenza non sono lo stesso sacerdozio, l’unico, che è partecipazione a quello di Cristo. Allora, ci sono due sacerdozi nella chiesa, e uno dei due non è quello di Cristo? Sentii qualche spiegazione che non mi convinse, forse per durezza mia. Posi la domanda anche al mio vescovo, Pellegrino, ed egli mi disse precisamente: «Non lo so. Bisognerebbe vedere i lavori preparatori per sapere cosa si è inteso dire».
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Negli anni del concilio e subito dopo, la chiesa cattolica fu scossa da fermenti e cambiamenti, nel cuore stesso, «culmine e fonte» della sua vita, la liturgia. Ricordo padre Chenu raccontare, senza scandalizzarsene, di «messes sauvages» in Francia. Di lì a qualche tempo, in alcune comunità di base, presiedevano l’eucaristia, a turno, anche i laici, anche le donne. L’uso non si è stabilizzato, a quanto ne so, ma, a rigore non mi sembra assurdo. Che ci sia normalmente una persona “ordinata” (senza che l’ordine la elevi sopra gli altri, né che sia un “carattere” eterno) per sue capacità, preparazione, incarico comunitario, invocazione di un carisma, a presiedere l’eucaristia e al ministero della Parola, mi sembra giusto e buono. E che l’esclusione delle donne, quasi dogmatizzata da papa Wojtyla, da questo servizio, sia sempre più assurda, mi sembra altrettanto chiaro. Ma se per caso – si diceva – un gruppo di cristiani si trovasse a lungo senza un prete (non sta cominciando qua e là a verificarsi questa situazione?) è forse cosa giusta e buona che rimangano senza l’eucaristia? Gesù ha forse detto: «Fate questo in memoria di me, purché ci sia un prete ordinato a presiedere»?
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Il rapido ritorno del clericalismo, forse mai superato davvero, non si è visto solo né tanto nelle “incursioni” dei vescovi in politica e nell’attività legislativa statale, che indignano (con ragione) laicisti non cattolici e una parte dei laici cattolici, ma è questo classismo sacro, questa sacra divisione della chiesa in classi, che restringe al clero, e specialmente all’alto clero, la partecipazione vera e propria alla vita di Gesù il Cristo, facendo dei laici un gregge nel senso passivo dell’immagine. Quanti consigli pastorali si sono veramente realizzati, con responsabilità vera dei laici, nelle diocesi e nelle parrocchie? Io non ho gli elementi per rispondere, ma se queste realtà fossero consistenti e significative me ne accorgerei, mentre sento semmai il lamento contrario.
Grazie a Dio, ci sono laici (uomini e donne) che studiano e sanno parlare e scrivere di teologia, ovviamente in modo sanamente discutibile e fallibile. Alcuni insegnano in istituti cattolici, seminari, facoltà teologiche, molti insegnano religione nelle scuole statali (lasciamo da parte la valutazione su questa istituzione concordataria). Ci sono donne e uomini che, anche senza essere diaconi (le donne non sono ammesse neppure al diaconato), distribuiscono la comunione in aiuto al prete. Almeno in Francia, dove sono scarsi i preti, i funerali sono spesso celebrati da laici. Ma la preghiera dei fedeli nella messa mi sembra che di rado, e solo in piccole assemblee, sia una vera partecipazione, ma per lo più sia prestabilita. E perché qualche laico e laica più preparato, senza avventurismi disordinati, non può spiegare e commentare nell’omelia le letture liturgiche, ad utilità comune? Qua e là avviene ogni tanto, credo, in comunità fuori dall’osservazione diretta. Ma non è una possibilità riconosciuta, e semmai riprovata, se non sbaglio.
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Ministro, minister, viene da minus, meno. Maestro, magistero, magister, da magis, più. Il ministro si pone al di sotto degli altri, al loro servizio, per essere maestro e guida. La prima regola nella società ecclesiale è quella che dà Gesù: «tra voi non sia così», quando indica come i capi delle nazioni le tiranneggiano e «fanno sentire il loro potere su di esse» (Matteo 20,25, e anche Marco e Luca), e continua: «chi tra voi vuole diventare grande sarà vostro servitore... e colui che governa diventi come colui che serve».
«Non così dovrà essere tra voi». Gesù detta questo articolo costituzionale della chiesa-fraternità a chiusura autorevole di una disputa tra apostoli. Ha confrontato questa nuova fraternità con le ambizioni e contese di potere-dominio prevalenti nelle nazioni, comunità naturali e non elettive per fede. Ha messo i due fratelli ambiziosi e la loro madre iperprotettrice davanti alla sorte di chi davvero segue lui: il suo calice di persecuzione e morte. Ha corretto anche lo sdegno di tutti gli altri dieci apostoli, dispiaciuti solo di essere stati preceduti dai due nella stessa aspirazione al privilegio. Non si è limitato al rimprovero, né al paragone negativo, ma ha dato la regola positiva: il primato è di chi si fa servo, fino a dare la vita, come lui stesso. Quando gli apostoli, o chiunque nella chiesa, disputa attorno ad un primato, questa è la parola che viene a giudicare.
Certamente ci sono nella chiesa capacità, carismi, funzioni differenti e varie, c’è chi deve assumersi qualche responsabilità per tutti, come in ogni società, ci sono persone più illuminate e ardenti che irradiano attorno a sé un maggiore riflesso di grazia, ma non c’è un sostanziale più grande e meno grande, più sacro e meno sacro, se non nella risposta più o meno piena allo Spirito che ci conduce a procedere nella carità. Questa è la vera gerarchia non programmabile, né dotata di potere istituzionale e giuridico. Ciò non nega nulla delle funzioni utili e necessarie, pratiche e spirituali, nelle comunità ecclesiali piccole e grandi, ma semplicemente le riporta a funzioni nella fraternità, non a qualche paternità: «Non chiamate nessuno maestro, padre o guida» (Matteo 23,8-10). Ci sono davvero, ed è bene, maestri, padri e guide, ma ciò che importa è che nessuno lo è in senso forte, mentre in senso forte siamo tutti discepoli e fratelli.
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Quando compaiono fenomeni di clericalismo, noi laici emancipati facciamo la predica ai vescovi. Abbiamo diritto di parlare, di fare correzione fraterna, con parresia e veridicità, con quella responsabilità per il bene della chiesa e del vangelo che è irrinunciabilmente anche nostra. Soltanto, stiamo attenti a non fare i maestri dei maestri, i clericali dell’a-clericalismo. Per evitare questi avvitamenti, non c’è di meglio che andare al centro essenziale delle cose.
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Come sono le nuove generazioni di preti, nati dopo (e spesso senza) il concilio? Parlo per sentito dire, perché ne conosco troppo pochi, e quelli che conosco sono già selezionati per sensibilità e per impegno conciliari. Sento dire che sono più clericali della generazione precedente, la quale, più o meno, il concilio l’aveva ricevuto.
C’è stato il tempo dei preti operai, esperienza quasi esaurita, mi pare. Certamente il lavoro manuale e faticoso alla pari degli operai, la spoliazione di ogni privilegio psicologico e di ogni onore sociale, il coinvolgimento nelle rivendicazioni e nella solidarietà di classe su questa terra, la partecipazione politica, ha guarito tanti dal virus clericale, ha formato dei preti davvero laici. Quando hai a che fare con loro, trovi dei veri preti, che vivono per il vangelo, e stanno sul tuo terreno, senza nessun gradino sacro sotto i piedi.
Questa realtà, più o meno estesa e consistente, di un presbiterato laico, non so quanto sia visibile e riconosciuta nella chiesa.
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Oltre la sacralità e la considerazione sociale, il clero tradizionale aveva come caratteristica, la più evidente a tutti, dentro e fuori la chiesa, il celibato. Essenzialmente, per il popolo, un prete era un maschio non sposato: una brava persona con questa stranezza. Uno al di sopra di queste cose della terra, oppure da un lato, semplicemente come stato civile, dato il suo ruolo. Che poi gli si potesse o no riconoscere il rispetto completo del celibato come castità, questo era quasi secondario: era scandaloso per i duri nel giudizio, meno scandaloso per chi aveva misericordia verso quella che era spesso una condizione sociale più che un carisma personale. A volte la gente semplice capisce di più.
Su questo punto, cosa è avvenuto nel clero conciliare? Molti, come dicevo, si sono laicizzati e si sono sposati. Sarebbe stupido e volgare leggere l’insieme di queste vicende soprattutto come fregola sessuale (ma così la sentii qualificare da preti più anziani e da cattolici più ligi): il matrimonio era per lo più (ma ci furono anche quelli che lasciarono il ministero senza sposarsi) parte della nuova condizione personale nella chiesa e nella società, ma questa era motivata soprattutto dal mutamento proprio nel concepire la forma di vita del presbitero, che non vedeva più come essenziale il celibato.
A mia conoscenza, tra gli ex-preti pochissimi persero la fede, o smisero di dichiararla, alcuni avrebbero volentieri continuato la loro funzione nella chiesa fuori dallo stato clericale, magari sposati, e soffrirono l’esclusione dal ministero, altri scelsero proprio la condizione del laico nella chiesa, senza altri ruoli, né doveri. Direi che solo questi ultimi furono veri e propri ex-preti.
Ci furono anche alcuni casi – quanti non saprei dirlo, né saprei dire se furono più o meno rari – che continuarono nel ministero, avendo una relazione stabile e seria con donna, non rivelata pubblicamente per non dover lasciare il servizio di prete, ma tranquillamente nota agli amici o alla comunità più prossima. So che alcuni in questa situazione furono confortati e tranquillizzati da qualche guida spirituale più illuminata.
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Michele Do è un prete morto nel 2005 a 88 anni, che i lettori di Servitium possono ricordare per qualche raro scritto raccolto dalle sue parole (personalmente non scrisse mai nulla) . Uno dei grandi illuminati il cui incontro è stato un vero dono di Dio. Si ritirò da giovane e visse 60 anni a St. Jacques d’Ayas, in Val d’Aosta, rettore della chiesetta del villaggio, appartato dalle faccende ecclesiastiche, ma centro di una vastissima crescente spontanea rete di intense amicizie spirituali, che ora continua nella raccolta della sua eredità.
Riassumo, ma è un’eco estremamente impoverita, dalla registrazione in dvd di una sua conversazione del 20 settembre 2002: «Testimoni, non sacerdoti. Il sacerdote è un sacrestano: porta il vangelo in mano. Questo è bello, va bene, è un servizio. Ma il testimone è vangelo lui stesso. La zolla fiorita, dove la luce ha fatto sbocciare il fiore, o il filo d’erba, qualunque fiore e qualunque filo, non cerca spettatori, non va a conquistarsi il pubblico. Chi ha occhi per vedere, veda. Perciò è detto: “Abbiamo palpato il Verbo della vita”. È il fascino della bellezza, e nessuna imposizione. Perché non dare il sacerdozio alle donne, se il sacerdozio è questa testimonianza della luce nella vita? Penso all’amica di padre Rogers, anglicano. Quando viene qui, noi concelebriamo. Un sacerdote, un caro amico, mi dice: “Il sacerdote ha il potere, comanda, e Lui scende nel pane e nel vino”. Ecco la magia! Ma il sacramento non è magia. Il fiore è il sacramento della luce. Ogni fiore, i differenti fiori. Ogni filo d’erba».
La gerarchia della chiesa, negando il ministero a uomini e donne, anche sposati, sufficientemente preparati, degni testimoni della fede, che siano disponibili e non preferiscano (come me) appartenere unicamente ai cristiani comuni, ruba al popolo cristiano un bene importante che gli è dovuto, manca gravemente al proprio servizio, e tutto ciò per attaccamento cieco ad una classe di clero celibe, separato, che si pretende più sacro del popolo, che spesso domina dicendo di servire. Ognuno ha i suoi peccati: questo è il peccato tipico del clero contro il vangelo: «Guai a voi (…) che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini» perché vi interponete come passaggi obbligati, come esattori di gabelle sacre, invece di essere indicatori e apritori di strade, «infatti, non entrate voi e impedite coloro che vorrebbero entrare» (Matteo 23, 13 e tutto il resto del capitolo, con le più dure parole di Gesù che ci siano state tramandate).
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