Recensione

Vita e morte in cerca di sé (recensione di Scoppola)

Riflessione autobiografica di Pietro Scoppola
6 dicembre 2008
Fonte: (pubblicato su Servitium, s.egidio@servitium.it , n. 180 “Generazione del Concilio II”, pp. 103-108)

Vita e morte in cerca di sé
(Il testamento di Pietro Scoppola)

(pubblicato su Servitium, s.egidio@servitium.it , n. 180 “Generazione del Concilio II”, pp. 103-108)

E neanche d'un minimo
devi venir meno all'uomo
ma essere vivo, vivo e null'altro
vivo e null'altro sino alla fine.
Borìs Pasternàk

Pietro Scoppola ha scritto importanti opera di storia. Ha raccolto ancora, nell’ultimo anno di vita (è morto nell’ottobre 2007), articoli di quotidiano su La coscienza e il potere (Laterza). Questo breve Un cattolico a modo suo prende il titolo da una definizione di lui data in una conversazione privata da Paolo VI. Scoppola qui scrive di sé nell’imminenza della morte, una autobiografia interiore, ricca di attenzione e chiarezza su problemi e scelte che sono poste a noi, viventi oggi. Riflette da cattolico preoccupato della condizione della Chiesa, di un «riflusso rispetto al Vaticano II» (p. 15). Si rivolge alle generazioni che seguono la sua (è nato nel 1926), che vivono oggi una «radicale incertezza sul futuro» (ivi). Non vuole parlare da maestro e offre solo riflessioni personali, e più domande che certezze. I cristiani cambiano, col cambiare del mondo.
Scoppola descrive il cammino della propria fede, nata nella famiglia d’origine, poi solidamente costruita, nel liceo romano tenuto dai gesuiti, su «cosiddette prove razionali» (p. 21). Ha imparato ad «essere libero nella piena coscienza dei condizionamenti cui siamo soggetti» (p. 24). Lesse ancora in liceo, di propria iniziativa, Pascal e S. Agostino (non è questo un itinerario che anche qualcuno di noi, dieci anni dopo, percorse a quell’età?) e fu «un’occasione di apertura rispetto all’impostazione avuta dalla scuola dei gesuiti» (p. 25). Quel liceo non fu una scuola di antifascismo, ma certo non di fascismo. Quella architettura metafisica della fede, troppo quadrata, incontrò il dubbio del pensiero. Dopo la Liberazione venne la scoperta della storia, del pensiero cattolico francese. Proprio la scoperta delle diversità di forme storiche del cristianesimo aiutò il giovane Scoppola a intendere in modo nuovo la fede cristiana e a prendervi parte personalmente. Scelse gli studi storici come «ricerca di un’identità» (p. 31). Il rapporto tra Chiesa e libertà moderne era al centro di questo interesse: «la libertà era il passaggio obbligato per quella ricerca di identità» (p. 38). Perciò studiò l’intransigentismo e il cattolicesimo liberale, il rapporto tra Chiesa, liberalismo, democrazia (poteva la Chiesa, depositaria della verità, accettare un regime di uguale libertà delle varie opinioni?) e, dall’altro lato, tra Chiesa e fascismo. Conosce e impara da molti studiosi. Poi studia il modernismo, su cui si confronta col benedettino p. Gribomont, del monastero romano di S. Girolamo (che fu anche vivace stimolatore della mia generazione nella Fuci degli anni 50-60; nel suo paese, il Belgio, votava socialista). Gribomont caldeggia molto la pubblicazione del libro sul modernismo perché «è un libro che può benissimo andare all’Indice» (p. 42).
Scoppola «matura un modo via via nuovo di intendere la fede» (p. 44). Si interessa di politica come «un elemento di quella ricerca di un cattolicesimo pienamente incarnato nella storia» (p. 45). Si pronuncia per il no sul referendum abrogativo del divorzio ed è attaccato duramente dall’Osservatore Romano, ma il Segretario di Stato Casaroli minimizza. È a questo momento che Paolo VI dice di lui le parole poste a titolo di questo libro. Sull’aborto, invece, avrà una posizione «diversissima». In seguito fa esperienza politica come esterno alla DC, poi come parlamentare. Troviamo qui una bella definizione della politica: «disegno per il futuro, valutazione razionale del possibile, e sofferenza per l’impossibile» (p. 47). Ne ha una concezione non di potere ma utopica, radicata nell’esperienza cristiana, lievito della storia, ma con una sua laicità. Nella politica così intesa matura la sua identità cristiana, con due aspetti complementari: la fede personale e il credere insieme alla Chiesa.
Il primo aspetto è la soggettività, l’interiorità libera, svincolata da «scrupoli e fissazioni religiose» della prima formazione presso i gesuiti, il primato della coscienza scoperto nella più genuina tradizione cristiana, ma affermato nella storia contro la Chiesa e non ad opera della Chiesa. Un punto critico, rimasto tale, fu il rapporto tra fede e filosofia, ora riproposto da Benedetto XVI, tra il dato vitale e la riduzione a dottrina: «la fede non è una dottrina» (p. 51). La lettura di Blondel lo convinse che non ci sono prove scientifiche per l’esistenza di Dio, ma motivi vitali, entro la corrente di fede biblica, e che la fede è un atto di libertà. Sulla risurrezione di Cristo lo sconcerta la parola di Pietro in Atti 10: «non a tutti, ma a noi testimoni prescelti è apparso». Ciò esclude la storicità nel senso degli storici, perché è un fatto atipico, che resta ignoto e indefinibile, ma ha fatto rinascere, in condizioni disperate di sconfitta totale, la fede degli apostoli, evento pienamente documentato, su cui è fondata la nostra fede. Non si crede da soli, ma dentro una comunità credente e orante, legata alla testimonianza biblica, che non deve più essere tolta al popolo.
Questo è il secondo aspetto della identità cristiana matura di Scoppola, complementare alla soggettività. Si crede nella Chiesa, con la Chiesa, anzitutto grazie alla liturgia partecipata, restituita dal Concilio al popolo, poi nella comunità organizzata, ma non in sudditanza all’autorità. Qui Scoppola difende con energia il Concilio, contro «idee, modi di pensare che sono contro, che sono fuori, che sono prima del Concilio (...) anche a livello di magistero» (p. 61). No, non sono conciliabili la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa e il Sillabo (1864), che è superato. «Con la fedeltà, non con la contestazione», difende la «rivoluzione che il Concilio ha portato». Se il magistero «spesso non dimostra più un’adeguata sensibilità alla realtà del nostro tempo» (p. 62), non per questo si può lasciarlo perdere, ma bisogna occuparsi della chiesa gerarchica (p. 63): «qualcosa nella Chiesa deve morire». La riforma della Chiesa è condizione per riforme storiche democratiche. Seguono, nel libro, osservazioni calzanti sulla figura del papa, fino a Ratzinger, su collegialità e primato petrino, sui diritti civili nella Chiesa, fino al caso Dupuis: come è possibile – chiede Scoppola – che preoccupazioni disciplinari prevalgano sul criterio di verità e la dignità dell’uomo sia sacrificata a logiche istituzionali? (p. 66).
Seguono brevi capitoli sulla Fides et Ratio (1998) di papa Wojtyla (Scoppola la ritiene di mano ratzingeriana), che non sa coniugare la tradizione col presente e le sue sfide. Di fatto, la realtà ecclesiale cade in un regime di doppia verità: una è la dottrina ufficiale che vuole essere interpretazione oggettiva della natura e della norma morale; altro è la vita quotidiana che conosce le “ragioni” delle persone e della misericordia.
Dato che, contro certe previsioni, si ha un ritorno della religione, e delle religioni, sulla scena pubblica, è urgente comprendere il dialogo interreligioso e la laicità degli stati. Sulla laicità conviene qui neppure tentare di riassumere le poche pagine del capitolo VIII, che sono di massima chiarezza e saggezza, la cui lettura devo raccomandare.
Coi papi Wojtyla e Ratzinger «sembra certe volte che la Chiesa ancor più che custode e annunciatrice del messaggio di Cristo sia depositaria e garante del diritto naturale, di un diritto immutabile, del quale essa stessa definisce contenuti e limiti» (p. 95). Ci sono certamente valori legati alla dignità naturale della persona umana, da non offendere, ma la loro comprensione ed espressione è storica, non traducibile in un codice definitivo. Arrivano dalla società alla Chiesa richieste di «certezze senza dubbi» (p. 96) in luogo della ricerca e del dialogo. Ci sono vari «tentativi di utilizzazione strumentale del fenomeno religioso per fini di potere» su cui il giudizio della Chiesa «deve restare esigente e severo» (p. 96). Ma c’è pure il dialogo tra le religioni e tra «le due fedi», quella religiosa e quella laica, perché, come scrisse Norberto Bobbio, «non è forse il senso del mistero che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomini dell’una e dell’altra fede?» (p. 98). Così, la democrazia si nutre di verità, nel dialogo e nella ricerca.
Nel capitolo Maschio e femmina Scoppola denuncia come la Chiesa si è fermata davanti al passo risolutivo che avrebbe cancellato in essa tutte le discriminazioni: l’ordinazione presbiterale delle donne. A questa ipotesi papa Wojtyla oppose un infondato «accanimento» che rasentava la pronuncia ex cathedra, temperato a fatica dalle interpretazioni date dall’episcopato. Questa emarginazione viene per Scoppola dalla permanente sessuofobia ecclesiastica.
«Con il ‘68 si è spezzato un equilibrio ma non se ne è formato uno nuovo» (p. 101). Nelle nuove generazioni emergono valori nuovi «ma vedo anche il rischio di un disorientamento che nasce dalla mancanza di chiari e fermi criteri di riferimento» (ivi). La Chiesa dovrebbe ripensare la morale sessuale, di fronte al cambiamento dei costumi, in una luce personalistica più che naturalistica. Sul problema del matrimonio canonico e del divorzio, Scoppola cita l’importante ricerca storica di Giovanni Cereti del 1977. L’attuale disciplina canonica «non regge» (p. 103) né di fronte alla storia né alla psicologia e «dà luogo a paradossali ingiustizie»: può fallire un prete nella sua vocazione, un religioso, e non una persona sposata! Anche qui vige un regime di «doppia verità» (ivi), per cui c’è una norma intransigente sui divorziati e una prassi che la supera.
Ancora due capitoli di schietta sincerità pongono domande serie diffuse tra i credenti ma non ascoltate dalla chiesa gerarchica. La prima è sull’inferno, idea contraddittoria con la volontà e la bontà di Dio. «Balbettando» (p. 106 ) sul delicato problema, Scoppola riferisce una interpretazione più evangelica (è di Nédoncelle) sul giudizio finale: la separazione del bene (anche poco) dal male (anche molto) avverrebbe nella singola persona (p. 107), non tra buoni e cattivi, salvati e sommersi.
La seconda domanda è sulla concezione sacrificale della redenzione, per cui Dio Padre avrebbe voluto la morte di Cristo come “capro espiatorio” per avere soddisfazione adeguata all’offesa infinita fattagli dal peccato degli uomini. Questa concezione arcaica che tratta il mistero di Dio in «astratte categorie razionali» (p. 110) è ripugnante, è superata dall’ermeneutica biblica più aggiornata, in aderenza maggiore al significato più profondo del dato biblico (p. 111). Cristo muore per la coerenza del suo amore per l’umanità, con la forza nonviolenta della verità, e così vince il peccato e la morte, sebbene sia vero che nell’amore è sempre intrinseco il dolore e il sacrificio di sé (p. 122).
Infine, Scoppola si confronta brevemente con le nuove generazioni: sull’esistenza di Dio «non ci sono prove né in positivo né in negativo» (p. 113), solo il «coinvolgimento esistenziale supera il dato puramente razionale» (p. 114); sulla teodicea: la totale libertà che Dio lascia agli uomini è compatibile con la sua bontà salvifica? Senza risposte esaurienti, non resta che impegnarsi per il bene che soppianti il male, senza calcolare troppo, senza evitare le sofferenze dell’impegno.
Dopo oltre cento pagine il lettore si accorge di nuovo che l’Autore sta scrivendo in vista della propria morte, che avverrà circa un mese dopo la fine del libro (cfr p. 125). L’ultimo capitolo Pensieri aperti consiste di pochi appunti colloquiali sul proprio servizio ai poveri e su una Chiesa povera; sulla sofferenza, la propria, fisica e morale, di fronte a quella grande del mondo, che ci umanizza col renderci fragili e trasparenti; sulla volontà di Dio, che non è «quello che accade», ma richiede che noi rispondiamo positivamente agli eventi, e che tuttavia ci affidiamo a lui quando tutto ci travolge, come nella malattia; sull’assurdo di cui ci sfugge il senso, come queste cellule impazzite del tumore che ti uccide (la cosa più dolorosa per Scoppola è la perdita della voce), e tuttavia fa parte della realtà.
Le ultime righe, ancora aperte sui «“pensieri bianchi” che non finiscono mai», in un «impegno che mi ha tenuto vivo in questi mesi», si chiudono «senza formalità» nella preghiera e nel silenzio, atto estremo e intenso di una vita seria e buona.
Enrico Peyretti, 4 maggio 2008

Pietro Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana 2008

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