Nonviolenza

Gandhi e le religioni

Gandhi e le religioni - Badshah Khan, il Gandhi musulmano - Gandhi a Teheran - I cristiani e Gandhi
19 agosto 2009
Fonte: “Parolechiave”, rivista fondata da Lelio Basso,(parolechiave@fondazionebasso.it ), n. 40, dicembre 2008, monografico su “Nonviolenza”, pp. 23-51

Gandhi e le religioni
Pubblicato in “Parolechiave” (parolechiave@fondazionebasso.it ), n. 40, dicembre 2008, monografico su “Nonviolenza”, pp. 23-51
di Enrico Peyretti, 8 marzo 2009


1. Gandhi e le religioni
2. Badshah Khan, il Gandhi musulmano
3. Gandhi a Teheran
4. I cristiani e Gandhi

I – Gandhi e le religioni

In mezzo alla morte persiste la vita
«…vi è una forza vivente, immutabile,
che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea.
Questa forza o spirito informatore è Dio (…).
E questa forza è benevola o malevola?
La vedo esclusivamente benevola,
perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita,
in mezzo alla menzogna persiste la verità,
in mezzo alle tenebre persiste la luce».
(Gandhi, Antiche come le montagne,
Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100).

La cosa strana
"La cosa strana e' che quasi tutti i fedeli delle grandi religioni del mondo
mi ritengono come uno dei loro. I jaina mi prendono per un jaina. Molti
amici buddhisti mi prendono per un buddhista. Centinaia di amici cristiani
mi considerano tuttora un cristiano... Molti dei miei amici musulmani
pensano che, sebbene io non mi dica un musulmano, io sia uno di loro in
tutti i miei intenti ed i miei scopi... Tutto questo e' molto lusinghiero
per me e lo considero un segno del loro affetto e della loro stima. Io mi
considero comunque come il piu' umile degli hindu', ma piu' studio l'hinduismo
piu' forte cresce in me la convinzione che l'hinduismo e' vasto quanto
l'universo e che abbraccia tutto cio' che c'e' di buono al mondo".

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Intenderei mostrare qualcosa, in queste pagine, non solo dell’idea di Gandhi sulle religioni, ma dell’influenza che il movimento avviato da Gandhi e diffuso nel mondo ha avuto e ha su alcune delle religioni più diffuse, come l’Islam e il cristianesimo.
Le religioni, per Gandhi, sono prodotti umani nella ricerca della Verità, perciò tutte imperfette, rivedibili e perfettibili, eppure tutte vere e benefiche. Gandhi distingue tra le religioni storiche, positive, e la “vera religione” che le trascende tutte. «Come un albero ha un solo tronco, ma molti rami e molte foglie, così vi è un’unica vera e perfetta religione, la quale, passando attraverso lo strumento dell’uomo, si diversifica in molte» .
Il tema della “vera religione” ricorre anche nella Bibbia ebraica e cristiana, ma non solo come opposta a “falsa”, non solo come religione del Dio vivo a confronto delle idolatrie, quanto nel senso della religione sincera e operante rispetto a quella formale e ipocrita, perciò religione vissuta nel fare il bene al prossimo, specialmente al bisognoso. Per brevità, basti indicare alcuni passi: «Ciò che il Signore cerca da te è nient’altro che compiere la giustizia, amare con tenerezza, camminare umilmente con il tuo Dio» (Michea 6,8); e similmente in Osea 6,6 (citato anche da Gesù in Marco 12,33): «Io voglio l’amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti». Così Isaia 58,6-7, Zaccaria 7,8-10 e 8,16-17, Giacomo 1,27, e altri passi, fino a Matteo 25, dove il criterio del giudizio finale sulla nostra vita non sarà l’aver avuto religione e fede, ma l’aver aiutato i bisognosi. Frequente è la polemica dei profeti biblici contro la religione del culto, facilmente soddisfatta di se stessa dimenticando le opere della giustizia. Nei vangeli, la pace con l’avversario ha la precedenza sul culto (Matteo 5, 23-24).
E anche il Corano, quando tratta delle differenti religioni, indica soprattutto questa saggia regola di vita: «Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una via e un percorso. Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi» (sura 5, v. 48). La soluzione delle differenze teologiche può essere rinviata, ora si tratta di gareggiare nel fare il bene.
Sappiamo bene che nelle religioni, sia nei testi sacri che nella pratica storica, ci sono anche tante forme violente. Oggi le religioni si rendono conto progressivamente di questa loro ambivalenza, per cui possono produrre sia grande violenza sia grandi opere di amore e giustizia. Autori come Johan Galtung, Ramin Jahanbegloo e molti altri vedono in ogni religione forme dure, assolute, escludenti, ma anche forme miti, includenti, di relazione con le altre, di impegno per la nonviolenza nel mondo presente. Oggi la ricerca e le esperienze di dialogo cooperativo tra le religioni per la pace fanno alcuni passi preziosi.
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Per Gandhi, dalla sua concezione di religione, discendono alcune conseguenze:
1. Tolleranza: «Dal momento che noi non penseremo mai tutti allo steso modo, e che vedremo la verità in maniera frammentaria e da angoli visuali diversi, la regola d’oro della condotta (...) è quella della tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa cosa per tutti. (…) Anche tra le persone più coscienziose vi sarà sempre posto per oneste differenze di opinione. L’unica possibile regola di condotta in una società civile è pertanto quella della tolleranza reciproca» .
Ma in Gandhi la tolleranza religiosa non è quella scettica, indifferente, condiscendente; è tolleranza positiva e attiva, è attento interesse alle altre fedi, è dialogo, è ricerca morale e collaborazione pratica. Anzi, egli non amava il termine “tolleranza”, perché «può implicare il presupposto gratuito della inferiorità delle altre fedi rispetto alla propria». Così non amava la formula “rispetto della religione”, perché gli sapeva di condiscendenza. Diceva invece che l’ahimsa (nonviolenza) «ci insegna a nutrire per le fedi religiose degli altri lo stesso rispetto che abbiamo per la nostra, riconoscendo così che anch’essa è imperfetta» .
È facile tollerare quando la diversità ci risulta stimabile nei suoi valori. Ma quando dobbiamo riconoscervi un errore teorico o pratico, che non possiamo condividere né approvare, che fare? Se la tolleranza, da atteggiamento di condiscendenza e sopportazione di pensieri e azioni che riteniamo sbagliate e che dobbiamo giudicare negativamente, riesce a diventare invece tolleranza attiva, cioè riesce a prendere a cuore e a farsi carico dell’errore che incontra, perché più dell’errore le importa la persona che erra, allora tolleranza – dal latino tollere, sollevare - significa positiva misericordia. Questa virtù è tutt’altra cosa da una posizione di degnazione e superiorità: è invece l’atto di accogliere nel mio cuore la miseria (miseri-cordia) cioè gli errori, anche la violenza, che trovo nell’altro, fino a sentirmi corresponsabile del male fatto da altri, e impegnato alla correzione fraterna, mite e umile. Perciò non posso essere in-tollerante, perché la misericordia mi fa solidale con lui, nel male da vincere, nel bene da attuare. Questo atteggiamento è proprio di Gandhi.
2. Farsi carico della sofferenza. Questo è il senso con cui Gandhi intraprende i suoi digiuni, tesi, come ripete molte volte, a «risvegliare le coscienze» con l’arma della sofferenza accolta su di sé, che egli considera «l’arma umana». Nel 1933 diceva: «Se io digiuno per risvegliare la coscienza di un amico che si trova evidentemente nell’errore, non esercito su di lui una coercizione nel senso corrente del termine. (…) Ogni tapas [digiuno per motivo spirituale] esercita infallibilmente una influenza purificatrice su coloro per il cui bene è compiuto. (…) Il satyagraha è stato concepito come una forza in grado di sostituire la violenza» .
Quando spiega il senso di quello che sarà l’ultimo suo digiuno, per ottenere la fine delle violenze tra indù e musulmani a Delhi, termina così il suo scritto del 18 gennaio 1948 (dodici giorni prima di venire ucciso): «Il digiuno è un atto di autopurificazione» . Se sente di dovere purificarsi dalle violenze in corso è perché se ne fa carico personale e constata che non ha ormai altro mezzo di azione e persuasione – ma un satyagrahi non deve mai essere privo di risorse - che mettere in gioco tutto se stesso, disposto a morire «nella pace che spero mi venga concessa», «se l’alternativa è quella di essere testimone impotente della distruzione dell’India, dell’hinduismo, del sikhismo e dell’Islam» , che verrebbe dalla divisione religiosa dell’India, quella che poi in effetti avvenne. «Negli ultimi tre giorni ho meditato a lungo sul digiuno. La conclusione cui sono giunto mi ha illuminato e mi rende felice. Nessun uomo, se è veramente puro, ha niente di più prezioso da offrire della sua vita. Spero e prego di avere in me la purezza che giustifichi la mia decisione» .
La nonviolenza è amore attivo – ma Gandhi preferisce il termine benevolenza perché «la parola amore è stata screditata» - e di amore ha bisogno specialmente chi non sa amare.
3. Non proselitismo. Gandhi era contrario a ogni proselitismo e missionarismo (salvo azioni di carità, di aiuto ai più deboli). Ammetteva in linea di principio la conversione come approdo autonomo di una profonda ricerca spirituale personale, però riteneva che per avvicinarsi il più possibile alla verità bastava che ciascuno approfondisse la propria fede, per giungere infine a quel centro comune di tutte le fedi, senza bisogno di conversioni .
La sua visione di Dio, che può essere ogni cosa in quanto è l’unità di tutte le cose, e la verità termine unico di tutte le visioni, non è una tattica per dare ragione a tutti, perché Gandhi afferma di essere hinduista e di essere felice della sua religione. Però dice che tutte le religioni sono vere perché hanno un punto di vista sulla verità. Dichiara che non cambia religione perché è felice di quello che gli dà la sua, però «l’ahimsa ci insegna il rispetto di tutte le altre religioni come rispetto la mia, e questo è un modo di ammettere l’imperfezione della mia religione. La religione è nell’uomo e l’uomo è imperfetto» . Quindi tutte le religioni sono imperfette e tutte sono vere.
Del cristianesimo e dell’Islam diceva: «Considero tutt’e due le religioni ugualmente vere quanto la mia. Ma la mia mi soddisfa pienamente (...). La mia costante preghiera è pertanto che il cristiano e il musulmano diventino un migliore cristiano e un migliore musulmano» .
4. Stato laico. Gandhi era per lo stato laico, a differenza di Jinnah, non religioso, intransigente fautore della secessione del Pakistan, nel 1947, come stato musulmano. Scriveva: «Se io fossi un dittatore [cioè, se toccasse a me decidere] terrei la religione separata dallo stato. Credo ciecamente nella mia religione. Morirei per essa. Ma è una mia faccenda personale. Lo stato non c’entra. Lo stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, della salute, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione della moneta, e così via, ma non della nostra o della mia religione. Questo è affare personale di ciascuno» .
Non dimentichiamo che per la convivenza tra le due principali religioni dell’India, hinduismo e islamismo, per «il suo rifiuto dell’antagonismo tra le religioni» , Gandhi fu ucciso da un fanatico della sua stessa religione.

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Quale concetto di Dio ha Gandhi? Gandhi crede in una verità ontologica, cioè dell’essere, e spesso la identifica con Dio, che chiama con i nomi più diversi, presi da tutte le religioni. Quando viene ucciso, lo invoca con un nome hindù, «He Ram» (mio Dio). Questo è il nome della sua religione; ma egli si compiace di usare tutti i nomi che conosce. In particolare, usa dapprima la formula «Dio è la verità», poi dal 1929 la inverte e preferisce la formula «la verità è Dio». Nella prima formulazione vede il pericolo che ognuno ritenga verità assoluta Dio nel modo in cui è conosciuto e concepito dalla propria religione. Nella seconda formula, Dio è quella verità che sta più avanti di tutte le nostre limitate concezioni.
Quale Dio pensa Gandhi? Non c’è un’unica risposta nella teologia di Gandhi . A volte presenta una concezione trascendente, altre volte la esclude; nega spesso a chiare lettere la fede in un Dio personale, più spesso sembra ritenere che non abbia importanza concepire Dio personale o impersonale.
Cito un testo importante, del 1940: «Per me Dio è Verità e Amore; Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la sorgente della Luce e della Vita, e tuttavia Egli è al di sopra e al di là di esse. Dio è coscienza. Egli è persino l’ateismo dell’ateo... Egli è un Dio personale per coloro che hanno bisogno della Sua presenza personale. Egli è incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. È l’essenza purissima. Per coloro che hanno fede, Egli semplicemente è. Egli è le cose più diverse per le persone più diverse. Egli è in noi e tuttavia è al di sopra e al di là di noi» .
Sembra quindi abbracciare tutti i concetti di Dio. Esprime anche un’idea panteistica, quando dice che la somma totale di tutto ciò che vive è Dio. Questa idea si traduce per lui nell’identificazione con ogni essere vivente, fino a dire: «Per vedere faccia a faccia l’universale e onnipresente Spirito della Verità si deve essere in grado di amare il più infimo degli esseri creati come se stessi» (ma non troviamo in lui lo scrupolo estremo dei giainisti di non schiacciare neppure involontariamente un moscerino).
Il credente deve imparare a capire che ai milioni di diseredati, di disoccupati e di affamati nel mondo «l’unico modo in cui Dio può apparire è sotto forma di lavoro e promessa di stipendi e di cibo»; ai poveri del mondo «Dio può solo apparire come pane e burro» .
La verità ontologica, per Gandhi, si traduce nella verità morale, che deriva da quella. Per lui, morale e religione sono spesso sinonimi: l’azione moralmente giusta e vera è quella tesa a mantenere il più possibile l’unità del tutto, nella quale egli riconosce la verità che è Dio. La sua è una teologia etica. Comunque pensiamo o non pensiamo Dio, siamo in lui se realizziamo la nonviolenza attiva e positiva.

 

 

II - Badshah Khan, il “Gandhi musulmano”

Si è fatto, ormai, il mio cuore
capace di ogni forma:
per le gazzelle è un pascolo,
ed è convento ai monaci cristiani.
Si fa tempio per gli idoli,
e Ka’ba ai pellegrini;
tavola di Torà,
e libro del Corano.
Seguo la religione dell’amore:
in qualunque regione mi conducano
i cammelli d’amore, là si trovano
la mia credenza e la mia religione.
(Ibn Arab, L’ interprete delle passioni)

 

Sembra che Gandhi ispiri la nonviolenza civile e politica alla sua religione hindù, in un modo che nessun’altra religione avrebbe realizzato così direttamente. Ma il rapporto di Gandhi con le religioni diverse si arricchisce col tempo. Una direzione interessante da osservare (oltre l’influenza sul cristianesimo nel fargli riscoprire aspetti dimenticati della nonviolenza evangelica) è il rapporto dell’esperienza e dell’insegnamento gandhiani con l’Islam, oggi spesso volgarmente visto come una religione violenta, a causa della sua forma fondamentalista, che però davvero non rende giustizia al suo spirito, alla sua realtà, alla sua storia.
Il 20 gennaio 2008 abbiamo ricordato i venti anni dalla morte di un singolare protagonista della nonviolenza, musulmano, contemporaneo e collaboratore di Gandhi, che lo stimò e ammirò molto. La sua figura comincia ad essere conosciuta anche da noi.
Qui presento le grandi linee del libro che ne presenta la vita, lo spirito e l’opera. Di un altro libro più recente e di mole minore, parleremo subito dopo.

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Abdul Ghaffar Khan, detto Badshah Khan, il “re dei khan” (1890-1988), il “Gandhi musulmano”, è ricordato con questi vari nomi. Fu educatore e leader di una popolazione guerriera e feroce come i pathan, ovvero pashtun, della Frontiera, la “porta dell’India” (oggi tra Pakistan e Afghanistan), di religione musulmana, e li condusse ad adottare la nonviolenza contro le repressioni molto violente del dominio inglese (vedi Scheda 1). Quella è la terra di Zoroastro, degli inni vedici, della cultura buddhista, prima che vi arrivasse l’Islam. Badshah Khan trovò proprio nella sua fede islamica l'ispirazione alla nonviolenza. La sua figura storica è importante per sfatare la rozza identificazione odierna tra Islam e violenza.
È nota l’osservazione di Gandhi per cui proprio il violento coraggioso nella difesa del diritto e della dignità è il più disponibile a capire e vivere la "nonviolenza del forte": «Mentre non c’è alcuna speranza di vedere un vile diventare nonviolento, questa speranza non è vietata ad un uomo violento» . Le tradizioni violente dei pathan poterono mutarsi in energia e coraggio nonviolenti efficaci.
«Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Sono parole di Khan citate in questo libro (p. 61 della prima edizione). Il giovane Ghaffar apprese da suo padre Behram Khan lo spirito del perdono, davvero singolare in quella società in cui il codice della vendetta era regola di onore. Ghaffar era un ragazzo negli anni della Guerra della Frontiera, la rivolta dei pathan nel luglio 1897 (raccontata da Winston Churchill, ventitreenne corrispondente di guerra arruolato nel 4° ussari), repressa dagli inglesi che distrussero i raccolti, tagliarono gli alberi (azione feroce di guerra vietata dal Corano), avvelenarono i pozzi, demolirono le case. Ma fu una vittoria di Pirro: l’ostilità dei pathan durerà nei decenni, fino ad oggi. Non lo capì Churchill, ma lo capì Annie Besant, inglese, che già si batteva per l’autogoverno indiano.
Nel 1879 la Gran Bretagna aveva imposto la sua influenza sull’Afghanistan, in funzione anti-russa (la storia si ripete!). Inutilmente l’emiro afghano aveva ammonito gli inglesi sulla indomabilità dei pathan. Poco dopo il “giubileo di diamante” della regina Vittoria (giugno 1897), l’impero stava diventando una trappola.
Abdul Ghaffar musulmano, come Gandhi indù, riceve un’educazione inglese, senza perdere il cuore della propria tradizione. Dapprima si arruola nelle “guide”, un corpo scelto a servizio dell’impero, ma poi ne esce, perché lo indigna il fatto che gli inglesi trattino i pathan da inferiori. Lavora la terra e osserva le condizioni del suo popolo. Il suo percorso è simile a quello di Gandhi. Il viceré Curzon “viviseziona” con le deportazioni la nazione pathan. In queste condizioni, Abdul Ghaffar apre una scuola nel suo villaggio di Utmanzai e poi altre nei villaggi vicini, nonostante l’avversione dei mullah tradizionalisti e gli ostacoli della legge inglese. Ormai ha scelto la via della riforma sociale educativa per servire il suo popolo. Si sposa, ha un figlio che lo aiuterà nella sua azione. Incontra altri leader musulmani impegnati nella promozione culturale del popolo e si dedica in particolare alle tribù delle montagne, governate dagli inglesi con durezza, isolamento, umiliazioni. Tra di loro, in preghiera e digiuno, trova la sua via, che seguirà per settant’anni: il servire Dio nel servire i poveri, gli ignoranti, i violenti. Negli stessi anni, Gandhi avvia in Sudafrica il satyagraha, fino al suo ritorno in India, nel 1914.
Molti indiani combatterono e morirono per l’impero inglese nella prima guerra mondiale, ma, nonostante le illusioni, le condizioni dell’India risultarono più dure di prima. Ghaffar sente parlare di Gandhi e delle sue campagne, si riconosce nel suo scopo e nei suoi metodi. Tra il 1915, quando muore improvvisamente la moglie amata, e il 1918, Ghaffar visita tutti i 500 villaggi delle basse valli della Frontiera. La gente lo acclama “badshah khan”.
Nel 1919, dopo la strage di Amritsar, Gandhi prepara la rivolta nonviolenta contro il dominio inglese. Ghaffar è imprigionato per sei mesi senza processo, e così tante altre volte. La sua colpa è soltanto educare il popolo. I genitori lo inducono a risposarsi. Partecipa nel 1920 alla sessione del Congresso che decide la lotta nonviolenta. Sente come un dovere sacro la lotta per la libertà. In carcere rifiuta la libertà condizionata all’impegno di non girare più per i villaggi; impressiona tutti per la scrupolosa osservanza del regolamento e la forte capacità di soffrire; rifiuta miglioramenti che potrebbe ottenere con la corruzione. Un carceriere riconosce che Ghaffar è in prigione «per conto di Dio». In prigione, incontrando altri indipendentisti indù e cristiani, impara a conoscere e rispettare le altre religioni. Intanto, gli muore la madre, che amava molto. Scarcerato nel 1924, sebbene molto provato dopo tre anni di prigione, è ormai accolto come un leader dai pathan.
Egli sente più di tutti la contraddizione intrinseca alla mistica della vendetta e della violenza, tipica dei fieri pathan, che preferiscono rubare piuttosto che mendicare, uccidere piuttosto che patire un dolore. Molte storie di vendette familiari gli dicono che il pathan non è un assassino irresponsabile, ma la vittima del suo distorto codice d’onore. Ghaffar comprende che la politica dell’impero inglese ha buon gioco nel mettere i pathan gli uni contro gli altri: impegnati a tagliarsi la gola tra di loro non pensano alla libertà. Intuisce che la violenza pathan è frutto di ignoranza, superstizione e del peso schiacciante dell’abitudine. Così sprecano il loro coraggio e la loro forza. Sa che il suo compito è educare, illuminare, risollevare, ispirare. Insegnerà ai pathan che il vero coraggio è essere nel giusto. Egli riuscirà in questo perché è un vero pathan, che può capire nell’intimo i pathan.
Infatti, la nonviolenza non può essere importata dall’esterno, ma può crescere solo dall’interno di una cultura, che discute e riforma se stessa, sulle sue basi positive. Se i pathan capirono la nonviolenza è perché, sull’esempio di Ghaffar, ne trovarono proprio nell’Islam alcuni fondamenti morali e spirituali.
Nel 1926 gli muore il padre e, per una caduta durante il pellegrinaggio alla Mecca, la seconda moglie, dopo di che egli fa voto di non risposarsi per dedicarsi interamente al servizio del popolo. Come Gandhi, Ghaffar valorizza molto il ruolo attivo delle donne nel movimento. Fonda una rivista in lingua pakhtu, che discute di igiene, temi sociali, diritti delle donne, dignità del popolo pathan. Egli pratica già la sostanza del “programma costruttivo” di Gandhi, la parte più positiva e avanzata della sua azione.
Nel 1928 incontra Gandhi, ne riceve profonda impressione, e impara da lui la tolleranza e pazienza che manca nei leader Islamici. Incontra anche Nehru. Si inserisce nella lotta per l’indipendenza indiana, dando coscienza politica ai pathan: «Dovete vivere per la comunità. È l’unica strada che conduca alla prosperità e al progresso» (p. 129).

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Ci voleva un esercito, sì, ma di gente libera sia dalla violenza dei fisicamente forti sia dalla nonviolenza dei moralmente deboli. Badshah Khan insegnò ai pathan che la massima forma di onore e di coraggio era affrontare un nemico per una giusta causa senza indietreggiare e senza imitare con l’uso delle armi la sua violenza, combattendo anche contro la propria violenza.
Riuscì così a costituire il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente. Tutti i pathan potevano entrarvi, uomini e donne, purché pronunciassero questo giuramento (per i pathan giurare impegna la vita):
«Sono un khudai kidmatgar (servo di Dio), e poiché Dio non ha bisogno di essere servito, ma servire la sua creazione è servire lui, prometto di servire l’umanità nel nome di Dio.
Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercare vendetta.
Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudeltà.
Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici.
Prometto di trattare tutti i pathan come fratelli e amici.
Prometto di astenermi da usi e costumi antisociali.
Prometto di vivere una vita semplice, di praticare la virtù e di astenermi dal male.
Prometto di avere modi gentili ed una buona condotta, e di non condurre una vita pigra.
Prometto di dedicare almeno due ore al giorno all’impegno sociale».
Questo esercito volontario e gratuito cominciò con 500 reclute, la divisa era una camicia rossa (gli inglesi li vedono come infiltrati sovietici), le funzioni erano aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere l’ordine nelle assemblee, sviluppare l’autogoverno della società. Marciando sulle montagne cantavano il loro inno:
«Siamo l’esercito di Dio, / non ci importano morte o ricchezza, / marciamo, noi e il nostro capo, / pronti a morire. / Noi serviamo ed amiamo / il nostro popolo e la nostra causa. / La libertà è il nostro scopo, / le nostre vite il prezzo da pagare». (p. 132).
Badshah Khan diceva a questi “soldati”: «Vi sto fornendo un’arma a cui la polizia e l’esercito non potranno resistere. È l’arma del Profeta: la pazienza e la giustizia sono quest’arma. Nessun potere sulla terra può resisterle». Egli sviluppava così la sabr, la pazienza, che nel Corano è la virtù centrale nella “guerra santa” tra il bene e il male che ogni persona ha da combattere nel proprio cuore, facendone la virtù del nonviolento forte. Così, sabr, insieme a lâ unf, è il termine che significa nonviolenza in arabo (p. 135).
Come i coloni americani nel luglio 1776 a Philadelphia, così, in termini simili, cinquemila delegati del Congresso a Lahore, il 31 dicembre 1929, e il giorno dopo assemblee di massa in tutta l’India, dichiaravano se stessi e tutti gli indiani uomini e donne liberi, da quel momento e per sempre. Ma aggiungevano: «La strada più efficace per ottenere la libertà non passa per la violenza. (...) Se riusciamo a ritirare la nostra collaborazione volontaria con il governo inglese, e siamo disposti alla disobbedienza civile, compreso il rifiuto di pagare le tasse, senza compiere violenze neanche se provocati, la fine di questo dominio disumano è certa».
Nel marzo del 1930, Gandhi, dopo averla annunciata al viceré, guidava la “marcia del sale”, ribellione nonviolenta al monopolio inglese su un bene prezioso come l’acqua, nel clima tropicale. Centomila persone, compreso Gandhi, finirono in prigione. Nella regione della Frontiera la repressione fu più intensa e brutale, come documentò una commissione del Congresso. Badshah Khan, col suo “esercito” di camicie rosse, intensificò l’azione di educazione e organizzazione nei villaggi, ma fu arrestato dagli inglesi e condannato a tre anni di carcere.
Manifestazioni nonviolente di persone disarmate furono investite da carri armati inglesi nel bazar di Kissa Khani, con quasi trecento morti e altri feriti, colpiti a sangue freddo tra la folla che rimaneva ferma di fronte agli spari dei soldati. Il massacro (simile a quello di Amritsar del 1919) è documentato nei giornali anglo-indiani del tempo e negli studi di Gene Sharp. Ma tiratori scelti garhwali si rifiutarono di sparare sulla folla: «Noi non spareremo sui nostri fratelli disarmati». Solo alcune tribù delle montagne, tra le quali fu sempre impedito a Badshah Khan di agire, compirono incursioni violente, mentre Khan era in carcere. Alcuni scrittori inglesi hanno usato questi fatti per screditare la nonviolenza di Khan. Ma, mentre le azioni violente furono sgominate dagli inglesi, il movimento nonviolento cresceva.
Sconcertati dalla nonviolenza dei pathan, gli inglesi tentavano di spingerli alla reazione violenta, con provocazioni fisiche umilianti, nel villaggio stesso di Khan, Utmanzai, offese a cui i “servi di Dio” resistettero con eroica dignità. La popolazione si aggregava a loro. La resistenza restava nonviolenta. Alla fine di settembre l’esercito nonviolento arrivò a contare ottantamila (altre fonti dicono centomila) volontari, uomini e donne. Dopo l’accordo paritario, che disgustò Churchill, tra Gandhi e il viceré, accordo che sancì la tregua, i pathan ottennero con la lotta nonviolenta la parità politica della loro regione col resto dell’India.

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Khan, tornato nella Frontiera, era considerato un santo, era chiamato il Gandhi della Frontiera, ma reagiva: «Non aggiungete il nome di Gandhi al mio!». Neppure il titolo badshah gli piaceva: era servo del popolo, non re. Cede la sua terra ai figli, diventando un fakir, un senza terra, senza diritto di voto nella jirga. Egli ora è soltanto un riferimento spirituale. Gira instancabile per i villaggi, a educare gli ignoranti, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai khan ricchi che non vogliono riforme. Due volte rischia di essere ucciso. Percorreva fino a quaranta chilometri al giorno. Appena arrivato in un villaggio, puliva la moschea, stava coi poveri. Ripeteva: «Abbiamo due obiettivi: liberare il paese; nutrire l’affamato e vestire l’ignudo». Insegnava l’igiene, la forza, il disinteresse. Ricordava alle donne la loro parità con gli uomini, fondata nel Corano.
Quando gli inglesi proibirono a Khan queste visite, Gandhi protestò, voleva visitare lui stesso la Frontiera, ma gli fu impedito. Mandò il figlio Devadas, che constatò la forza e l’ispirazione di Khan. Il quale disobbedì al divieto e fu arrestato. Violando la tregua, tra fine del 1931 e inizio del 1932, gli inglesi occuparono Peshawar e arrestarono anche Gandhi. Un inglese collaboratore di Gandhi, Verrier Elwin, documenta la persecuzione contro le “camicie rosse”, nella Frontiera, con metodi feroci e 35.000 arresti, e testimonia l’attaccamento orgoglioso dei pathan alla nonviolenza. Anche senza la presenza di Badshah Khan, avevano ormai compreso che la nonviolenza funziona. Elwin documenta oggettivamente anche alcuni rari episodi di violenza, da parte di non appartenenti all’esercito nonviolento. Elwin fu arrestato dagli inglesi ed espulso dalla provincia.
Intanto, Khan fu detenuto per tre anni senza processo, in isolamento, lontano dalla Frontiera, soffrendone nella salute. Rilasciato nel 1934, ma bandito dalla Frontiera, Khan accettò l’invito di Gandhi e andò a vivere a Wardha, il suo ashram nell’India centrale. Gandhi era concentrato nel suo “programma costruttivo”: dopo aver insegnato come combattere in modo nonviolento, ora il compito più arduo era insegnare a vivere in modo nonviolento. Affascinato da Khan, chiese al suo segretario, Mahadev Desai, di stenderne una biografia, con una sua prefazione. Desai scriveva di Khan: «La cosa più grande in lui è la sua spiritualità, il vero spirito dell’Islam, la sottomissione a Dio».
Il fratello di Khan, Saheb, aveva una moglie inglese. Una volta Gandhi chiese se si era convertita all’Islam. Khan gli rispose: «Sarai sorpreso, ma non saprei dirti se è musulmana o cristiana. Per quanto ne so, non si è mai convertita, è assolutamente libera di seguire la sua fede. Un marito e una moglie dovrebbero poter seguire ciascuno la sua fede». Gandhi era d’accordo, ma osservò che la maggior parte dei musulmani non pensava così. Khan lo sapeva bene, ma disse che nessuno conosce il vero spirito dell’Islam, e che «tutte le fedi sono ispirate quanto basta a coloro che vi aderiscono. Il Corano dice che in molti modi Dio manda messaggeri in tutte le nazioni» (p. 174).
In seguito, Badshah Khan va a Calcutta, parla ai musulmani del Bengala, li invita a formare un movimento di combattenti nonviolenti e ad aiutare i villaggi poveri. Partecipa con Gandhi alla sessione annuale del Congresso, a Bombay, nell’ottobre ’34, durante la quale racconta agli indiani cristiani l’esperienza dei khudai khidmatgar, e parla al Club per l’unità delle donne. Accusato per frasi “sediziose” pronunciate a Bombay, nel suo racconto del massacro di Kissa Khani, in dicembre Khan è di nuovo arrestato. Su consiglio di Gandhi, che non lo voleva in prigione, accettò a fatica di difendersi affermando che non intendeva usare espressioni sediziose, ma fu ugualmente condannato a due anni di carcere duro, in isolamento. Ne soffrì nuovamente nella salute. Rilasciato nel luglio ’36, tornò da Gandhi. Nel gennaio ’37, nelle prime elezioni dei consigli legislativi, il fratello Saheb viene eletto primo ministro della Frontiera e revoca il bando inflitto a Khan, accolto nella sua terra da immenso affetto popolare. La lotta nonviolenta dei pathan aveva ottenuto un parziale autogoverno.
In ottobre Nehru visitò la Frontiera, e nel ’38 lo stesso Gandhi, finalmente, accolto da folle composte, non sfrenate, nelle uniformi rosse. Egli constata l’amore che lega Khan al suo popolo, al quale ha insegnato la “forza vera” (queste parole potrebbero tradurre “satyagraha”). A Mardan un corpulento pathan dice a Gandhi: «Noi siamo ignoranti, siamo poveri, ma non ci manca niente, perché tu ci hai insegnato la lezione della nonviolenza». Gandhi voleva studiare meglio l’esperienza dei khudai khidmatgar, e tornò in ottobre ad incontrarli. Disse loro che non bastava la resistenza passiva se si fossero sentiti più deboli per il fatto di non usare le loro armi tradizionali, e che dovevano invece sentirsi più forti, altrimenti era meglio tornare alle armi. Ma «voi avete una forza spirituale tale da proteggere non solo l‘Islam ma anche altre religioni». «Rimuovere la violenza dal proprio cuore non è solo la capacità di controllo della collera, ma il completo sradicamento della collera. Realizzare la nonviolenza significa conoscere Dio, sentire in sé la sua forza. Chi ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il nome di Dio ad ogni respiro». Egli, disse Gandhi, lo faceva da vent’anni, anche nel sonno (p. 190). Sappiamo che, quando fu ucciso, spirò invocando «He Ram!».
Gandhi girò per tutta la regione insieme a Khan. Questi riconosceva che la collera dei pathan era solo repressa, ed era turbato dalla quantità di rivalità fra tribù e famiglie. Ora bisognava esercitare i volontari nel Programma costruttivo, la nonviolenza positiva: filare e tessere, l’igiene, l’educazione di base, l’hindostano come lingua nazionale unificante.

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Nel 1939 scoppia la seconda guerra mondiale: l’India è coinvolta senza consenso. Il Congresso delibera che un’India libera e democratica sosterrebbe volentieri le altre nazioni libere contro l’aggressione, ma non senza un chiarimento, che però gli inglesi rinviano a dopo la guerra. Intanto, essi scavano divisione tra indiani indù e musulmani, per dominarli meglio. Il Congresso voleva l’indipendenza, la Lega musulmana lo status di dominion entro l’impero. Nel 1940 Alì Jinnah proponeva uno stato musulmano. Richiesto di unirsi alla lotta, in quanto musulmano, contro il «dominio indù», Badshah Khan rifiutò. Invitò la Lega a cacciare gli inglesi e poi vivere insieme, indù e musulmani, come avevano fatto per secoli. Quelli della Lega chiamarono Khan indù, con l’intenzione di offenderlo.
Davanti all’ipotesi di attacco esterno all’India, il Congresso dapprima si allontanò da Gandhi e dalla nonviolenza, ma Khan fu duro nel riaffermare il metodo di «servire Dio e l’umanità offrendo le proprie vite senza ucciderne alcuna». Intanto, egli continua l’addestramento attivo nel Programma costruttivo, avvia scuole femminili, cosa rara tra i musulmani. Racconta come da giovane aveva tendenze violente e, sull’insegnamento di Gandhi, abbia dovuto «rifare se stesso». Simili trasformazioni, talora faticose, aveva indotto anche in altri, come nel fuorilegge omicida Murtaza Khan, che, scontata la condanna, era diventato un comandante dei khudai khidmatgar. Poi finì di nuovo in prigione, ma questa volta come “servo di Dio”, per la libertà della sua gente.
Nel luglio 1942 Gandhi rivolge ormai agli inglesi una sola richiesta: «Quit India» (lasciate l’India). Viene arrestato. Khan e il fratello parlano contro lo sforzo bellico. Alla fine dell’anno sono in prigione 60.000 indiani. Con i leaders del Congresso in prigione, esplode la violenza in tutta l’India, ma non nella Frontiera, dove aveva agito da educatore Badshah Khan.
Dopo la guerra, l’Inghilterra si avvia a riconoscere l’indipendenza, ma c’è contrasto tra Congresso e Lega musulmana, su chi dovrà avere il potere. Gravi violenze scoppiano tra indù e musulmani. Gandhi e anche Khan, addolorati, si recano nelle regioni più infuocate per pacificare gli animi con la preghiera e il digiuno e dimostrare la fratellanza reciproca. La violenza contagia ora anche la Frontiera, dove 10.000 khudai khidmatgar proteggono indù e sikh, (cioè le persone di altra religione, capacità che Gandhi aveva visto in loro) con la loro presenza disarmata. Il Congresso si rassegna alla richiesta della Lega, di uno stato musulmano separato.
Solo Khan e Gandhi si opposero, con ragione perché la violenza segnò ancora l’agosto 1947, quando si incrociarono due migrazioni di quindici milioni di persone, con violenze che fecero 500.000 morti. Rimase un’eredità di violenza e paura. Khan e i suoi soldati della nonviolenza resteranno in balia dei ministri musulmani, che da anni li ostacolavano. Gandhi promette di andare in Pakistan, senza riconoscere la frontiera, a costo della vita. Di Khan dice: «La sua agonia interiore mi spezza il cuore».
Nel maggio ’47, Gandhi aveva tentato, parlando con tutti, di evitare la spartizione. Frena gli indù eccitati, difende la bontà dell’Islam distinguendola dai musulmani violenti. Prega con una preghiera tratta dal Corano. Khan è con lui, angosciato per il futuro. Si separano quando Gandhi parte per Calcutta, Khan per la Frontiera.

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Il 15 agosto 1947 avveniva in pace e amicizia il passaggio delle consegne tra l’ultimo viceré inglese, Lord Mountbatten e il nuovo governo indipendente dell’India, guidato da Nehru. Gandhi, e quanti lo seguirono, avevano realizzato il prodigio storico di trattare gli avversari con rispetto, e anche amore, nel tempo stesso in cui rifiutavano caparbiamente il loro dominio. Avevano combattuto senza armi e avevano conquistato la libertà e la pace. Ma purtroppo non c’era la pace interna. Le violenze tra indù e musulmani spinsero Gandhi ad un digiuno «fino alla morte» nel gennaio 1948: la paura degli indiani di perdere “Bapu”, il Mahatma, ottenne la cessazione dei massacri. Gandhi voleva andare a piedi in Pakistan, attraverso il Punjab, la regione che aveva visto le maggiori violenze. Ma fu ucciso, con una Beretta italiana, nel pomeriggio del 30 gennaio 1948, da un fanatico indù.
Un referendum, nella Frontiera, doveva scegliere tra Pakistan e India. Badshah Khan, per evitare violenze e divisioni tra i villaggi per molte generazioni, consigliò ai khudai khidmatgar di astenersi, così la Frontiera andò al Pakistan. I khudai khidmatgar assicurarono la loro lealtà al nuovo stato. Khan chiese un’autonomia per la regione dei pathan, ma per questo fu accusato di tradimento e condannato a tre anni di carcere duro, prolungati a sette, e poi subito di nuovo incarcerato. I khudai khidmatgar furono messi al bando e distrutte le loro sedi.
Ucciso Gandhi, incarcerato Khan, i due più grandi uomini di Dio di tutta l’India erano stati sacrificati in nome della religione. Khan, in un intervallo di libertà, fondò il primo partito socialdemocratico del Pakistan. Egli trascorse in carcere trent’anni, un terzo della sua vita, e sette in esilio, ospite politico del governo afghano, ma non cessò mai di sostenere i princìpi dell’amore e del servizio, senza rancore per nessuno. Nel 1962 fu dichiarato “prigioniero dell’anno” da Amnesty International.
Alla sera della sua vita si accingeva a ricostruire ciò per cui aveva vissuto e che aveva visto distruggere da dietro le sbarre della prigione. Diceva che non cercava riposo in questa vita. «Si impara molto dalla scuola della sofferenza. Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se avessi avuto una vita facile e non avessi avuto il privilegio di gustare le gioie della prigione e tutto ciò che essa significa» (p. 231).
Easwaran, l’autore della biografia, paragona questi uomini a Francesco d’Assisi: come Francesco, alla fine della vita, vide vacillare e dissolversi ciò che aveva avviato spendendosi totalmente, movimento che però in seguito continuò a scuotere il genere umano, così è dell’opera di Gandhi, la cui alternativa nonviolenta risalta sempre di più, a fronte dei fallimenti pazzeschi della politica violenta, e così è anche di Badshah Khan, che va dimostrando la profonda consonanza dell’Islam vivo e in ripresa, con la nonviolenza.
Ciò che Gandhi ha fatto nell’hinduismo e Martin Luther King nel cristianesimo, Abdul Ghaffar, Badshah Khan, sta facendo nell’Islam, lungo le linee profonde di cammino degli spiriti e della storia umana.

 

III – Gandhi a Teheran

Il libro già indicato del filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo , Leggere Gandhi a Teheran, tocca i temi dello “scontro di civiltà”, di nonviolenza e democrazia, del contributo della filosofia gandhiana al dialogo tra civiltà, quindi tratta direttamente il nostro problema su Islam e nonviolenza, esamina l’idea indiana di secolarismo e si chiede, appunto, se un Gandhi musulmano è possibile.
È evidente che il titolo dato al saggio avvicina il nome di Gandhi al regime integralista e giudicato minaccioso oggi vigente in Iran, come a sfidare la possibilità di un Islam nonviolento proprio a confronto di fenomeni duri come quel regime. C’è stato chi ha immaginato, dopo l’11 settembre, persino un dialogo tra Gandhi e Bin Laden.
Per Jahanbegloo, il fenomeno del cosiddetto «scontro di civiltà» è solamente uno «scontro di intolleranze». «L’intolleranza verso i musulmani va di pari passo con la demonizzazione dell’Occidente da parte dei fondamentalisti islamici» (p. 28). L’Autore illustra bene il «paradigma di Cordoba» (che potrebbe essere un altro titolo di questo libro), cioè i sette-otto secoli di convivenza civile, culturalmente molto fiorente, tra cristiani, ebrei e musulmani in Andalusia. Viene da immaginare cosa potrebbe essere oggi o domani l’Europa se, grazie alle migrazioni di popoli, potesse riprodursi un tale paradigma. Bisogna sperarlo e prepararlo, anche se «il nostro mondo offre ben pochi esempi all’altezza della esperienza andalusa».
Certo, come l’Occidente dovrà abbandonare la profezia malefica dello scontro di civiltà, così «l’Islam dovrà riscoprire la propria tradizione di scambio e dialogo con altre realtà culturali e religiose». «È nelle dinamiche di civilizzazione dell’esperienza andalusa, dunque, che va ravvisato il nucleo filosofico della nonviolenza nell’Islam». Il guaio è la diffusa «tendenza a paragonare gli ideali della propria fede con le pratiche di quella altrui, e viceversa». Ecco allora l’assoluta necessità del dialogo perché un nuovo paradigma di Cordoba possa essere costruito, cioè «il coraggio di immergersi in una profonda esperienza interreligiosa con le diverse tradizioni contemplative del mondo. L’aspetto contemplativo della religione, infatti, è sempre latore di un sentimento di umiltà», perciò di rispetto e di nonviolenza (pp. 24-27).
In questo nostro problema, l’importanza e la necessità di ascoltare la lezione di Gandhi sta nel fatto che la nonviolenza non può essere «intesa come pura strategia di convenienza», ma va praticata anche «dinanzi a idee o azioni che disapproviamo o addirittura consideriamo odiose», così come la libertà di espressione esiste soltanto se vale per «quanti propugnano idee che non condividiamo». Soltanto, «non si può né si deve tollerare l’offesa alla natura umana«», cioè agli esseri umani. La via per opporsi «all’inumano» è il dialogo nonviolento. Jahanbegloo propone una «tolleranza dialogica», diversa da una «tolleranza dialettica»: solo la prima riconosce l’altro in noi stessi e così «rende possibile comprendere visioni del mondo diverse dalla propria», perciò il dialogo tra culture (pp. 30-31). Questa è una caratteristica dell’autentica civiltà indiana e dunque dell’insegnamento di Gandhi.
«Il mondo è eterogeneo, ed è fondamentale rispettare le diversità». «Lo scopo ultimo non è necessariamente il raggiungimento di un accordo tra individui di idee radicalmente diverse, bensì la scoperta di un senso di empatia e solidarietà verso il mondo e gli esseri umani». «L’essenza del dialogo sta nella capacità di considerare se stessi dalla prospettiva dell’altro». Ciò richiede una «analisi decostruttiva volta a epurare gli aspetti violenti e distruttivi della propria coscienza e cultura». Questa idea di «convivenza dialogica», di «dialogo nonviolento tra culture», la riconosco affine all’idea di Raimon Panikkar, insistente sulla «pace come pluralismo», e all’idea espressa dal vescovo della pace, Tonino Bello, di «convivialità delle differenze».
La premessa, infatti, è che «la dignità umana ha una portata tale da non poter essere ingabbiata in un’unica cultura». Ora, l’apporto attuale di Gandhi, dice bene Jahanbegloo, ben più che la sola opposizione e alternativa alla violenza fisica, sta nella sua lotta all’intolleranza, che è la violenza culturale, instillata nelle menti e installata nelle strutture. Uguale, egli dice, è l’opera di Abdul Ghaffar Khan, il “Gandhi musulmano”, la cui «fede nella verità e nell’efficacia della nonviolenza scaturiva dal profondo della sua esperienza di fede Islamica», e la cui vita «dimostra tuttora che è possibile conciliare l’identità musulmana e la pratica della nonviolenza», forte e attiva, come è stata, in campo cristiano, l’esperienza di Martin Luther King. Tutti questi promotori di pace e giustizia nonviolenta non si chiedevano soltanto «in che cosa credere, bensì cosa fare delle proprie credenze», se cioè usarle come verità opposte e armate, o cammini differenti verso il rispetto e l’amore costruttivo tra gli esseri umani (pp. 33-37).
Sorvolerei sulla parte del libro di Jahanbegloo (cap. 3, pp. 54-73) che sviluppa il contributo che la diffusione della nonviolenza, intesa come autodisciplina e servizio empatico, può dare alla costruzione di una democrazia umanistica e partecipativa, in cui ripercorre le grandi linee dell’apporto di Gandhi, le sue fonti ispiratrici, il suo Programma costruttivo. Oggi «non può darsi cultura della democrazia senza dialogo interculturale» (p. 70). Sorvolo anche sulla parte relativa agli apporti pratici della filosofia gandhiana al dialogo tra le civiltà: la sua tempestiva (proprio cento anni fa, in Hind Swaraj ) e preveggente teoria critica della civiltà occidentale, il suo pensiero sul rapporto diritti-doveri, come sulla libertà e sulla verità. Per Gandhi «la civiltà va misurata in termini di progresso morale» (p. 72). Nel quinto capitolo, su secolarismo e secolarizzazione nel mondo Islamico, l’Autore osserva che i due esempi principali di secolarizzazione (Turchia di Kemal Atatürk, e Iran dello scià Reza Pahlevi), adottando il modello francese della laicité repubblicana, piuttosto monolitico ed esclusivista, contrario alla religione, invece del modello di secolarismo indiano (di Gandhi, Nehru, Azad, Ambedkar, Roy, Vivekananda, Aurobindo, Radhakrishnan), che rispetta e dà pari opportunità a tutte le fedi, hanno provocato una reazione fondamentalista nell’Islam. Oggi le società islamiche hanno bisogno di «elaborare un concetto alternativo di secolarismo (come quello indiano) e non semplicemente un’alternativa ad esso», che le fa ricadere nel fondamentalismo (pp. 91-101).
Segnalo piuttosto ciò che l’Autore scrive a proposito del mondo musulmano: molti attivisti e intellettuali musulmani hanno oggi «l’opportunità di unirsi in un fronte comune, al fine di esplorare alternative nonviolente alla violenza globale che contrassegna la nostra epoca». E ciò non solo grazie alla fede, che l’Islam ha in comune con Gandhi, nella «infallibile assistenza di Dio» a chi lotta per la giustizia, ma anche perché nella stessa tradizione islamica si trovano ispirazione ed esperienze storiche di nonviolenza attiva. Qui Jahanbegloo ricorda di nuovo la lunga profonda azione di Badshah Khan, che già conosciamo (pp. 49-53). Riprende poi (nel cap. 4, pp. 74-90) la raffigurazione dell’Islam, dopo l’11 settembre 2001, nei media internazionali, nel concetto che ne ha avuto Bush e in alcune espressioni di Benedetto XVI, come «una religione della violenza». Non si tratta di contrapporre un’apologia dell’Islam come «una religione della pace». Nessuna delle grandi religioni è immune, nella sua storia, da episodi, anche numerosi, di violenza. Così è dell’Islam, del quale però abbiamo già ricordato il “paradigma di Cordoba”, e possiamo ricordare aspetti simili nell’impero ottomano (p. 79).
È un fatto, però, scrive Jahanbegloo, che oggi «la civiltà Islamica sembra aver perduto la bussola». Non ha soltanto dimenticato il suo antico splendore, ma «ha perso anche la capacità di comprendere le ragioni e i meriti di un passato così glorioso». Da creatori e promotori, come furono nella storia, i musulmani si sono ridotti a consumatori di idee (pp. 79-80). A ciò si aggiunge che «la maggior parte degli occidentali sa poco o nulla dell’Islam e, pertanto, formula giudizi e impressioni sulla base delle immagini più ripugnanti, esotiche e scioccanti che giungono dal mondo musulmano» (p. 78).
Davvero, la costruzione di pace tra le civiltà umane vive oggi un momento difficile. Per questo Jahanbegloo insiste nel denunciare l’ignoranza che l’Occidente, ma anche l’Islam, ha di quelle componenti, non solo in tempi storici lontani, ma pure in tempi a noi vicini, di nonviolenza musulmana, e torna a richiamare, oltre Abdul Ghaffar Khan (ovvero Badshah Khan), l’ancora meno noto Maulana Abul Kalam Azad.
Questi teorizza «l’unicità della religione» e l’accoglienza verso fedi diverse; dalla misericordia e dal perdono divino (centrali nel Corano) trae l’esigenza della misericordia e del perdono tra gli uomini. Egli scrive: «La verità ha molteplici sfaccettature e il conflitto e l’odio sorgono perché gli individui rivendicano il monopolio della verità e della virtù». «L’umanità è un unico popolo e un’unica comunità, esiste un solo Dio per tutti gli uomini e, per tale ragione, essi devono servirlo assieme e vivere come membri di un’unica famiglia». Pensieri come questi sono fondamenti spirituali della concezione e della pratica positivamente nonviolenta delle relazioni umane. Il presidente indiano Zakir Husain (1897-1969) così parlò di Maulana Azad: «Il più importante servizio reso da Maulana è stato insegnare ai popoli di qualsiasi religione che questa ha due nature. La prima divide e crea odio. Questa è la natura fasulla. L’altra, il vero spirito della religione, avvicina i popoli e favorisce la comprensione. Essa risiede nello spirito di servizio, nel sacrificio di sé al prossimo, e implica la fede nell’unità, nell’essenziale unità delle cose». Vi riconosciamo esattamente lo spirito di Gandhi.
Davvero Maulana Azad e Ghaffar Khan rappresentano, in quanto personaggi eminenti, la realtà ben più estesa alla base dell’Islam nonviolento. E tuttavia il mausoleo di Azad, davanti alla moschea Jama Masjid, a Delhi, è piuttosto dimenticato dai musulmani. «Il mondo islamico non potrà più partorire nuovi Azad e Ghaffar Khan?». Intanto, sappiamo di filoni nonviolenti oggi presenti nel mondo islamico, anche in Iraq. Poi, Jahanbegloo vede necessario e possibile che i musulmani riscoprano «la propria civiltà, affinché possano debellare la piaga culturale del fondamentalismo e tornino ad essere, in virtù di un’analisi critica dell’Islam, protagonisti della storia universale» (pp. 84-88).
È compatibile il credo islamico con le società multiculturali? Bhikhu Parekh (v. nota 26) risponde che i musulmani accentuano il multiculturalismo dove sono minoranza e non lo tollerano dove sono maggioranza (p. 80). Mi viene facile osservare che esattamente così si sono comportati in genere i cristiani, specialmente i cattolici, fino alla importante accettazione della libertà di coscienza nel Concilio Vaticano II. Perché ciò non potrebbe avvenire nell’Islam, realtà così complessa ed eterogenea non riducibile ad un’unica posizione? In realtà, ciò comincia ad avvenire nell’Islam europeo. Ma l’Occidente continua ad ignorare la nonviolenza islamica antica e recente, e persino la spiritualità della mitezza, centrale nella corrente mistica del sufismo.
Le conclusioni del filosofo iraniano su nonviolenza e Islam sono queste: «Nella lotta nonviolenta i valori musulmani non sono certo assenti». «La comunità internazionale non può più ignorare che l’Islam offre realmente una soluzione pacifica alle piaghe della società». Molti operatori della cultura e della religione islamica dispongono di valori e modelli pratici per «unire le proprie forze a quelle dei non musulmani e mettersi alla ricerca di alternative nonviolente alla conflittualità globale del nostro tempo». I musulmani hanno bisogno, per affrontare la loro sfida (una sfida che riguarda tutte le culture), di «considerare l’altro non dalla propria prospettiva e tradizione religiosa, ma adottando un approccio interreligioso e interculturale», instaurando così un dialogo con diverse tradizioni e orizzonti, che nulla toglie alla fedeltà alla propria tradizione. Su questo banco di prova «la tolleranza e la nonviolenza dell’Islam vengono sottoposte all’esame dei fatti» (pp. 89-90).
«Un Gandhi musulmano è possibile?» si chiede in chiusura Jahanbegloo. La sua risposta è positiva. Il terrorismo odierno è sprigionato da una quantità di fattori, ma viene associato quasi solo all’Islam e ai musulmani. La violenza estrema e inedita dell’11 settembre, terribile simbolo dell’attacco all’Occidente, vendetta sul suo dominio, ha provocato la risposta tutta e solo militare degli Usa, che a sua volta ha alimentato il terrorismo islamico, nell’ideologia dello “scontro di civiltà”. Con ottica ristretta, non si è visto altro che violenza nella storia dell’Islam, e si è dimenticato che nessuna religione, cristianesimo compreso, è immune da violenza di matrice religiosa. Imparare la storia dell’Islam nonviolento aiuterebbe l’Occidente a capire e a migliorare il mondo. L’“esercito” nonviolento di Abdul Ghaffar Khan, si ispirava direttamente alla religione Islamica. Ghaffar Khan considerava l’Islam una religione della nonviolenza, al contrario dei fondamentalisti di oggi. Ma il Pakistan ufficiale ha dimenticato questo suo Gandhi musulmano, lo ha imprigionato ancora per quindici anni, sospettato come antislamico dai musulmani ortodossi perché aperto alle religioni (proprio come Gandhi). Il suo movimento di elevazione sociale è stato soppresso. Eppure, egli è tuttora una «importante fonte di ispirazione per tutti i musulmani convinti che l’Islam sia in grado di sottrarsi alla follia del terrorismo e del fanatismo» (p. 111). Se diciamo che tocca ai giovani musulmani, in ogni parte del mondo, considerare questa potenzialità di civiltà e di pace propria dell’Islam, non pretendiamo certo di dare alcuna lezione, ma affermiamo soltanto quel compito che è di ogni cultura, di ogni religione, per assicurare un futuro al mondo, e un futuro più giusto.
Qualcuno potrebbe giudicare ottimista questo libro di Jahanbegloo su Islam e nonviolenza. A me pare che non nasconda affatto problemi e difficoltà. Illudersi è un errore, ma errore pari e contrario è scoraggiare le speranze e soffocare le possibilità, ignorandole. Invece di fare soltanto previsioni più scure o più chiare, merita lavorare e collaborare in modo costruttivo (vedi Scheda 2).

 

 

IV – I cristiani e Gandhi
Quale è stata e quale è l’influenza di Gandhi sui cristiani? È abbastanza conosciuto e ammirato, ma quanto tra i cristiani è arrivato del suo stimolo a scoprire e praticare la nonviolenza?
Il più noto lottatore nonviolento cristiano, Martin Luther King, della chiesa battista, ne ricevette sicuramente un influsso essenziale, eppure in forme proprie originali, non imitative.
Tento ora una interpretazione d’insieme, a rischio di sommarietà, della posizione dei cristiani sulla nonviolenza. Evidentemente, l’argomento merita una ricerca molto più ampia e approfondita.
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Mi sembra che, sulla nonviolenza, i cristiani siano divisi, nel passato e nel presente, almeno su tre posizioni:
1) Quelli (ministri nella loro chiesa, oppure laici) che leggono nei testi sacri e nella tradizione l’immagine di un Dio giustiziere e punitore, di cui magari pretendono e presumono di attuare essi stessi il giudizio nella storia, individuando e sradicando l’errore e il male con ogni mezzo: l’autorità dottrinale, il potere politico e giudiziario, la diplomazia, la pressione economica, la propaganda e, se occorre, anche mediante una violenza bellica che ritengono, per questo motivo, “giustificata” e anche meritoria, osando addirittura rivestirla di valore messianico. Lo abbiamo visto fino ai nostri giorni, e non solo nel passato. Il precetto, centrale nel vangelo, di amare i nemici viene spiritualizzato, relegato nella morale privata e messo fuori dalla vita pubblica. Ma scrive Jean-Marie Muller: «Quando la religione ha benedetto la violenza, la violenza non è diventata sacra, ma la religione è diventata sacrilega» .
2) Quelli che sentono nell’appello evangelico e nello Spirito di Cristo la chiamata all’amore universale, fino ai nemici, da realizzare anche nella storia, con la gestione positiva e costruttiva dei conflitti. Essi sono consapevoli della presenza del male, ma si impegnano a contrapporvisi non con mezzi uguali o simili, ma con spirito, mezzi e fini profondamente alternativi e creativi. Questi cristiani ricevono da Gandhi uno stimolo a riscoprire la nonviolenza evangelica sentita dai cristiani delle origini, poi accantonata dopo il compromesso costantiniano con l’impero.
3) Quelli che rimangono incerti, e sono la massima parte dei cristiani: da una parte non approvano la violenza, la condannano in linea di principio; approvano e sostengono l’azione mite e giusta; ma, dall’altra parte, poiché, per la loro sensibilità religiosa e morale, hanno una consapevolezza dolorosa del male del mondo e lo condannano, si rassegnano ad accettare che, nei conflitti acuti, siano inevitabili mezzi violenti per opporsi ad azioni violente, e che ciò possa e debba essere tristemente giustificato, tollerato, a causa dell’imperfezione del mondo, come inevitabile e necessario. Forse è qui il maggiore problema nel rapporto tra cristiani e nonviolenza. A me pare di vedervi una debolezza di giudizio e di azione, causata dal turbamento del male, affrontato con una tiepidezza di spirito, né caldo (appassionato, innovatore) né freddo (cinico, disperato) . In realtà, davanti allo scandalo doloroso del male, la reazione forte e positiva è proprio quella che troviamo nei maestri della nonviolenza attiva, Gandhi, King, Capitini: né ottimismo ingenuo, né, tanto meno, rassegnazione, e neppure imitazione dei mezzi per opporvisi, ma costruttiva indignazione sofferta, che, come è stato detto del grande spirito di Etty Hillesum, «trasforma il dolore in forza» . «La nonviolenza non è in Capitini uno sguardo che forza la realtà ad essere buona, ma è la forza con cui il dolore del mondo viene attraversato senza essere razionalizzato, per scoprire che proprio l’impossibilità di spiegarlo ci dice che altrove sono le parole con cui rintracciare la nostra origine» .
I cristiani del secondo tipo (se vale un poco questo schema), cioè i cristiani persuasi e impegnati nella nonviolenza attiva, che scelgono i metodi di lotta politica nonviolenta, fanno questa scelta per ragioni razionali e morali, per una più effettiva e reale giustizia nei rapporti umani, per non collaborare ma ridurre la mole di sofferenza che i metodi violenti scaricano addosso all’umanità più povera. Ma fanno questa scelta anche per ragioni precisamente cristiane, derivanti dalla fede cristiana. Ha detto bene Enzo Bianchi: «Oggi più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e misura la capacità di testimoniare l’Evangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini, proprio sulla dottrina e sulla prassi della pace. Questo significa che la pace è dono di Dio e compito profetico dei cristiani nello stesso tempo» . Queste ragioni di fede animano in modo laico la prassi nonviolenta, che dunque i cristiani possono condividere con chiunque ne è persuaso senza che condivida la loro fede.

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È stato individuato un cammino della chiesa dal neutralismo alla nonviolenza. Alberto Melloni, storico del cristianesimo contemporaneo, della scuola bolognese di Giuseppe Dossetti, ha posto la questione della pace – di «una sintesi sulla pace» - nella lista d’attesa di un futuro concilio. Egli osserva che, nel Novecento, i papi e i cattolici hanno compiuto alcuni passi: sono passati dal neutralismo, che non metteva in discussione la teoria della guerra giusta, alla mediazione (risultata fallimentare), ad una lettura teologica e profetica della pace. Questo terzo passo lo ha compiuto papa Giovanni XXIII nella enciclica Pacem in terris, 1963, con una posizione più chiara di quella espressa dal Concilio Vaticano II. Un ulteriore passo, che in realtà è ancora in via di compimento, sarebbe la «irruzione della nonviolenza come chiave di soluzione adottata a livello di massa dai cattolici e non solo da loro» (e qui Melloni cita M. L. King e Desmond Tutu). Sulle “nuove guerre” a cavallo del cambio di millennio, papa Wojtyla (Giovanni Paolo II) e molti capi di chiese hanno dimostrato che «l’impegno cristiano per “sfilare” dai contrasti militari ogni motivazione religiosa è stato inflessibile». Io aggiungerei che, pur in questo innegabile forte impegno, ci sono state delle oscillazioni, almeno nel papa e in alcune posizioni cattoliche, nel togliere ogni giustificazione alla guerra. Melloni osserva che la chiesa (cattolica, ma anche altre chiese) ha resistito bene al «tentativo osceno» di «usarla come collante di un’identità occidentale»: fino dal 1986, con la preghiera interreligiosa di Assisi, ha prevenuto la guerra di religione e di civiltà contro l’Islam. Scrive Melloni: «Se oggi la civiltà occidentale non è disposta a entrare nella spirale suicidaria della sicurezza a costo della vita, se non è disposta al sacrificio delle proprie libertà in cambio di una pace che non c’è, lo deve anche alla chiesa». Il cristianesimo «ha già salvato l’Occidente» col suo «essere più mediterraneo e più mondiale di ogni altro segmento della cultura». Per dimostrarsi oggi non solo pacifica e pacifista, ma anche nonviolenta, la chiesa cattolica – continua Melloni – dovrebbe non solo chiedere perdono (come fece col mea culpa di papa Wojtyla nella quaresima del 2000, anno giubilare, per le colpe di «taluni figli della chiesa»), ma dovrebbe concedere perdono: «A chi guardi e viva la vita cristiana oggi sembra evidente che la chiesa non perdona». Da qui Melloni trae il titolo del suo libro: chiesa madre e matrigna. «In una chiesa senza perdono l’immagine di Gesù tende necessariamente a scivolare in una caricatura dolorista, a puntellarsi col senso del magico». «Il Gesù del Vangelo (…) è un Gesù che perdona. Perdona e cammina». Ora, lo spirito di perdono, certo non semplicista e sottomesso, significa, nei conflitti tra gruppi umani, la lotta nonviolenta, che cerca tanto la giustizia quanto la riconciliazione con l’avversario.
Nella misura in cui le chiese cristiane, nel loro cuore, stanno effettivamente compiendo un simile cammino, lo devono certamente alla memoria evangelica che è la loro sostanza, e ai movimenti che la vanno riscoprendo, nonostante tutti i limiti, ma lo devono anche allo stimolo e all’esempio alto che, nel pieno del Novecento insanguinato, Gandhi ha dato loro con la sua «forza di amare».

 

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Scheda 1
Impossibile la guerra “civilizzata”
C’è sempre chi dice che la nonviolenza gandhiana ebbe gioco facile con gli inglesi che sono dei gentiluomini, ma non può funzionare in altri conflitti. Oltre gli esempi già riferiti, ricordo l’esempio che mi ha colpito nel libro di Easwaran, Badshah Khan il Gandhi musulmano (nell'edizione italiana, Sonda, Torino, 1990, a pp. 14-15): con i pathan "selvaggi" gli inglesi ritenevano impossibile la "guerra civilizzata" e necessaria la punizione collettiva dei civili; il bombardamento aereo di obiettivi civili fu praticato dagli inglesi, ben prima dei tedeschi a Guernica, su Kabul e Jalabad nel 1919 dalla Royal Air Force (L. Dupree, Afghanistan, Princeton University Press, Princeton 1980, p. 442), e su villaggi della Frontiera (O. Caroe, The Pathans: 550 B.C. - 1957 A.D., St Martin's Press, New York, 1958, p. 408; Caroe fu l'ultimo governatore della Frontiera prima dell'indipendenza e scrive dei pathan con comprensione, rispetto e affetto; il suo libro è il più completo sui pathan, benché filobritannico).
Alla conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la Gran Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento aereo su civili !!

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Scheda 2
Tra le molte (sempre insufficienti) indicazioni su Islam e nonviolenza, segnalo:
- dal mio libro La politica è pace, Cittadella, Assisi 1998, le pagine 124-135 (Islam e pace; Studi su Islam e nonviolenza; Uomini di pace nell’Islam) con i relativi rinvii, che oggi sono da aggiornare.
- gli atti ancora inediti di un convegno su “Islam, violenza, nonviolenza”, del Centro Studi Sereno Regis, di Torino (www.serenoregis.org), dell’11 novembre 2000.
- alcune voci della bibliografia storica Difesa senza guerra, reperibile in rete.
- il libro di Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Ed. Gruppo Abele 1997. L'autore, studioso thailandese, musulmano, in questo libro sostiene la speciale attitudine della cultura Islamica all'azione nonviolenta (nonostante i fenomeni contrari, vistosi ma limitati); inoltre, narra ed analizza (pp. 24-31) un'azione nonviolenta nel Pattani (Thailandia) nel 1975.
- Mahmoud Mohamed Taha (1909 o 1911-1985), Il secondo messaggio dell'Islam, Emi, Bologna 2002. Taha, detto “il Gandhi del Sudan”, imprigionato dagli inglesi, fu condannato e impiccato come eccessivo riformatore dell’Islam. Il nuovo messaggio è per lui quello della prima fase del Profeta, alla Mecca, libero dalle compromissioni con le esigenze politiche del periodo di Medina, perciò più spirituale e teso alla pace del musulmano «con sé stesso, con il suo Signore, con ogni essere e ogni cosa».
- Nella citata bibliografia in rete si trovano indicazioni sulla resistenza nonviolenta al dominio serbo, da parte della popolazione albanese del Kossovo, prima della sciagurata guerra del 1999, popolazione in gran parte musulmana. Così sulla resistenza civile della popolazione al terrorismo Islamista in Algeria. Sulla lotta nonviolenta palestinese, certo parallela a forme violente, sono ormai reperibili molte informazioni, da Mubarak Awad, al caso tipico del villaggio di Bil’in, alle associazioni familiari miste palestinesi-isaraeliane, in particolare Parent’s Circle (di genitori di vittime in entrambi i popoli).

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NOTE

1 Gandhi in From Yeravda Mandir, Ahmedabad 1935, p. 55, citato da Pontara in Il pensiero etico politico di Gandhi, saggio introduttivo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. CXLI (in una traduzione modificata rispetto a Gandhi, La forza della verità, Sonda 1991, vol. I, p. 480). Avverto qui che preferisco scrivere “nonviolenza” in parola unica, anche correggendo la grafia di titoli e testi citati, per seguire l’insegnamento di Capitini, ormai accolto largamente, almeno in lingua italiana, che vuole evidenziare il senso positivo del concetto, sebbene includente il rifiuto della violenza.
2 Mi permetto di indicare, come spunti da rielaborare, Dieci tesi su religioni, violenza, nonviolenza, che ho pubblicato in Quaderni Satyagraha, n. 3, giugno 2003, pp. 93-96. Indico anche Quaderni Satyagraha n. 12, luglio 2007 “L’11 settembre di Gandhi”.
3 Di Galtung indico soprattutto Pace con mezzi pacifici, Esperia 2000; di Jahanbegloo, filosofo iraniano docente in Canada, abbiamo in italiano Leggere Gandhi a Teheran, Marsilio 2008. Di questo Autore, sul punto delle forme rigide o morbide di religioni, si veda p. 76
4 Gandhi, Young India, 23 settembre 1926, in Search of the Supreme, Ahmedabad 1931, vol. III, p. 39, citato da Pontara, Il pensiero etico politico di Gandhi, cit., p. CXLII.
5 Gandhi, La forza della verità, cit., vol. I, p. 479, citato da Pontara, Il pensiero etico politico di Gandhi, cit., p. CXLII.
6 Cfr i miei articoli I discepoli di Cristo si fanno carico del mondo, in Servitium, n. 121, su La tolleranza, gennaio febbraio 1999, pp. 61-72 e Tollerare, cioè farsi carico, in Esodo, Anno XXI, n. 1, gennaio-marzo 1999, pp. 6-11.
7 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit., p. 189-190.
8 Ivi, p. 194.
9 Cfr Balducci, Gandhi, Ediz. Cultura della Pace 1988, pp. 22-23.
10 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit., p. 193.
11 Ivi, p. 192. Rilevo in queste parole un’assonanza evangelica: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per gli amici» (vangelo secondo Giovanni 15,13)
12 Ivi, p. 187.
13 Cfr Pontara, Il pensiero etico politico di Gandhi, cit., p. CXLII-CXLIII. Si vedano in Balducci, Gandhi, cit., pp. 17-23, fonti e significati di questa posizione gandhiana sulle religioni.
14 Gandhi, La forza della verità, cit., vol. I, p. 479-480.
15 Pontara, Il pensiero etico politico di Gandhi, cit., p. CXLIII.
16 Ivi.
17 Balducci, Gandhi, cit., p. 5.
18 Si veda Gandhi, La forza della verità, cit. , pp. 501-523.
19 In Harijan, 23 marzo 1940, citato da Pontara in Il pensiero etico politico di Gandhi, cit., p. CXL.
20 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit., p. 31.
21 Young India, 15 novembre 1931; cfr Giuliano Pontara, La personalità nonviolenta, Ed. Gruppo Abele, 1996, p. 60.
22 Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano (traduzione di Lorenzo Armando, Ed. Sonda, Torino 1990 (originale 1984), pp. 250). È uscita presso lo stesso editore una seconda edizione di questo libro, nel 2008, di pp. 213, con prefazione di Elvio Arancio e Luisa Mondo (in cui si ritrovano tratti del presente testo, finora inedito, circolato nell’ambiente nonviolento, ora da me rivisto e aggiornato in questo articolo) e una postfazione di Nanni Salio.
23 Ramin Jahanbegloo, Leggere Gandhi a Teheran, Marsilio 2008, pp. 111.
24 Gandhi, Antiche come le montagne, Ed. Comunità, Milano 1965, p. 168; citato da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa University Press 2004, p. 271.
25 Jahanbegloo è studioso di Isaiah Berlin, sul quale ha pubblicato Conversations With Isaiah Berlin nel 1992 (vedi anche La Stampa, 30 gennaio 2009, p. 37). In Iran è stato in prigione cinque mesi nel 2006, oggi lavora in Canada alla Toronto University.
26 Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita, maestro zen, nel libro Nel rifugio della mente. La risposta zen al terrorismo, Mondadori, Milano 2007, include l’intervista immaginaria Che cosa direi a Osama Bin Laden, (diffusa in rete nel sito http://www.esserepace.org/traduzioni.html#), segnalata da Nanni Salio nell’intervento Nonviolenza versus terrorismi (in: L’11 settembre di Gandhi. La luce sconfigge la tenebra, in Quaderni Satyagraha, LEF, Firenze 2007, pp. 87-98). Un altro testo anch’esso immaginario Bin Laden incontra Gandhi, di Bhikhu Parekh, un grande studioso indiano del pensiero gandhiano, è nello stesso numero di Quaderni Satyagraha, pp.77-85).
27 Il volume di Francisco A. Muñoz, Mario Lòpez Martìnez (eds.), Historia de la Paz. Tiempos, espacios y actores, Instituto de la Paz y los Conflictos, Editorial Universidad de Granada, 2000, è un lavoro pionieristico nella costruzione di una specifica storia della pace, che percorre, attraverso i tempi e le culture umane, soprattutto le idee, situazioni, strutture, protagonisti di relazioni pacifiche tra differenti popoli e civiltà. Il capitolo 6 è dedicato a Convivencia de cristianos y musulmanes en la Frontera de Granata (pp. 189-228). Nonostante il materiale già raccolto qui, i curatori avvertono che gli archivi spagnoli hanno ancora documenti da esplorare su quel periodo, trascurato dagli storici. Mi permetto un aneddoto: anni fa, in un convegno sulla pace in un paese maghrebino, sentendo parlare sia l’arabo sia lo spagnolo andaluso, notai somiglianze di pronuncia di alcune lettere. Lo dissi ad un convegnista di Granada, che mi rispose: «Ochocientos años conviviendo, somos arabos!».
28 Vedi specialmente Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1990; Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003.
29 Antonio Bello, Scritti di pace, Tipografia Mezzina, Molfetta 1997, passim.
30 L’opuscolo gandhiano, del 1909, tradotto nelle edizioni del Movimento Nonviolento nel 1984, col titolo Civiltà occidentale e rinascita dell’India, sta per essere ripubblicato da Gandhiedizioni, di Pisa: www.ganchiedizioni.com . Su questo scritto di Gandhi si è svolto, nei primi mesi di quest’anno, un seminario nel Centro Studi Sereno Regis di Torino, www.serenoregis.org
31 Osservo a questo punto, a proposito dell’Iran, che è la patria di Jahanbegloo, che egli non cita, come esempio di nonviolenza Islamica, la rivoluzione popolare che scacciò lo scià nel 1979. Su questa rivoluzione nonviolenta, posso segnalare: - Il n. 22 della collana Quaderni della DPN, col titolo Resistenze civili: le lezioni della storia (ed. La Meridiana, Molfetta 1993, pp. 163) è la traduzione della seconda edizione 1989 di Les leçons de l'histoire. Résistances civiles et défense populaire non-violente, in Les dossiers de Non-violence Politique, n. 2, che illustra ampiamente numerosi casi storici di lotte nonviolente, tra cui anche Iran 1978-79. La traduzione italiana purtroppo esclude anche le tre ampie pagine 81-83 della rivista francese che descrivono il sollevamento popolare in Iran 1978-1979, il quale, opponendosi senz'armi all'esercito (in quel tempo il quinto al mondo per potenza) per lunghi mesi, portò infine alla cacciata dello Scià senza compiere alcuna violenza, sebbene col sacrificio di centinaia di vittime della repressione. Solo dopo il ritorno dell'ayatollah Khomeiny dall'esilio in Francia ci furono violenze civili e statali.
- David Morrison, Philip Taylor, Shastri Ramachandaran, Media, guerre e pace, Ed Gruppo Abele, Torino 1996. Nella seconda parte del libro (I mezzi di comunicazione come risorsa per la pace), Ramachandaran, nel paragrafo I mezzi di comunicazione dei popoli (pp. 132-146), esamina in breve, sotto questo specifico aspetto, il caso Iran 1979, insieme a vari altri casi storici. Sull'Iran, l'Autore scrive: «La più sorprendente rivoluzione basata sui mezzi di comunicazione del popolo – la cosiddetta "stampa di bazar" - per ironia qualificata "anti-moderna” è l' esperienza iraniana» (pp. 138-139).
- Mouna Naïm, La fuite du chah d'Iran, su Le Monde, 18 gennaio 1999, e col titolo Vent'anni dopo, su Internazionale, 19 febbraio 1999.
- Sulla vicenda iraniana ha scritto anche Ryszard Kapuściński, Shah-in-shah, Feltrinelli 2001. Questo autore polacco, dalle ampie intelligenti conoscenze e prospettive sulla pluralità delle civiltà umane, parla della rivoluzione nonviolenta iraniana anche in L’altro (Feltrinelli 2007, pp. 49-50). Unico scrittore occidentale presente a Teheran in quei giorni, era sorpreso dalla disattenzione di tutti gli altri per quel fenomeno.
32 Maulana Abul Kalam Muhiyuddin Ahmed (1888 - 1958) fu uno studioso musulmano e un importante leader politico del movimento di indipendenza indiano, sostenitore dell’unità tra indù e musulmani, contro la divisione dell’India. Collaborò con Gandhi, anche nella Marcia del sale, e presiedette una sessione del Compresso. Dopo l'indipendenza, divenne ministro della pubblica istruzione del governo indiano. Egli è comunemente ricordato come Maulana Azad, aveva adottato Azad (libero), come nome di scrittore.
33 Vedi la relazione di Martina Pignatti, del 14 gennaio 2009, nel Centro Studi Sereno Regis, di Torino, nel sito: http://admin.peacelink.it/articles/article.php?w=articles&id=28918&p=1
34 Cfr Tariq Ramadan, Islam e libertà, Einaudi 2008 e tanta altra letteratura simile.
35 L’ambasciatore Roberto Toscano, nella prefazione al libro di Jahanbegloo, ricorda che nel febbraio 2008 un partito democratico e nonviolento ha avuto una schiacciante vittoria elettorale sul partito fondamentalista, nel nord-ovest del Pakistan. Leader del partito affermatosi è un nipote di Abdul Ghaffar Khan (p. 13).
36 Ne ho scritto in Martin Luther King e Gandhi, intervento nelle iniziative delle Chiese Battiste in Piemonte per il 40° anniversario della morte di Martin Luther King, Torino, 11 aprile 2008, ora nel sito http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
37 Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, prefazione di Roberto Mancini, traduzione di Enrico Peyretti; Pisa University Press, 2004, p. 170.
38 Cfr Apocalisse 3, 15-16.
39 Nadia Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Edizioni Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 5, 124, 142 e passim.
40 Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella editrice, Assisi, 2004, pp. 9-10.
41 Enzo Bianchi, in AA. VV. La pace, dono e profezia, Edizioni Qiqaion, Magnano, 1991, p. 5.
42Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna. Un discorso storico sul cristianesimo che cambia, Einaudi, Torino, 2004
43 Concilio Vaticano II, 1962-1965, Costituzione Pastorale La Chiesa nel mondo contemporaneo, Parte II, cap. V, nn. 77-90.
44 Si vedano: Giuseppe Mattai, Bruno Marra, Dalla guerra all’ingerenza umanitaria, Sei, Torino, 1994; Massimo Toschi, L’angelo della pace. Il Vangelo nel tempo della guerra, Quaderni di Missione oggi, info@saveriani.bs.it (articoli dal 1993 al 2002).
45 Le citazioni dal libro indicato di Melloni sono tratte dalle pagine 135 (le prime due), 137, 139, 140, 141, 143.

 

 

 

 

 

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