L'identità dei popoli all'origine delle guerre
Gli uomini sono ignoranti, in tutti i luoghi ed in tutti i tempi; non conoscono se stessi, la loro terra, il loro passato, ed ancor meno conoscono il presente ed il passato di chi gli abita vicino, figuriamoci di chi sta dall’altra parte del mondo.
La storia della tragedia del Giappone militarista degli anni ’30 e ’40 non è conosciuta e compresa quasi da nessuno, sia in Europa che in Giappone. Il problema fondamentale è quello dell’identità: gli italiani dipingono i giapponesi di quel tempo solo come dei pazzi kamikaze che si suicidavano gridando banzai, pensando ai samurai credono che la società giapponese sia sempre stata militarizzata e che il sacrificio personale fosse parte della loro cultura. La cultura …
La cultura non è solo un’idea astratta o l’insieme delle tradizioni di un popolo, è l’insieme dei valori e dei diritti per cui gli uomini sono disposti a combattere, uccidere o farsi uccidere, è un punto di vista che dà un senso e un valore al modo in cui si vive, alle ragioni per cui si è disposti a soffrire e morire. Ma la cultura può anche essere manipolata, almeno nell’epoca moderna, ad esempio il governo italiano tramite la scuola pubblica per circa un secolo ha continuato a perpetuare il mito del risorgimento, facendo credere che tutti gli italiani si sentissero oppressi sotto il giogo austriaco e dei Borboni, che in milioni fossero pronti a combattere. Se gli italiani hanno da sempre una fragile identità e nessun senso civico è anche per questo: non solo l’unità d’Italia non è stata una guerra di popolo, ma il potere ha pure cercato di convincere gli italiani di essere eroi discendenti di eroi, mentre erano pecoroni figli di pecoroni; certo non è facile vivere partendo dall’essere pecoroni, ma è molto peggio vivere fingendo di non esserlo.
Il Giappone ha avuto per molti versi una storia simile all’Italia. Il Giappone della fine dell’ottocento era stato appena unito militarmente dai più forti signori feudali, che si erano ribellati allo Shogun, che dal 1600 deteneva il potere in maniera simile ad un re medievale con i suoi vassalli. Il Giappone dello shogunato era un paese diviso in tante regioni e province governate da signori locali, e col passare del tempo l’autorità centrale si era affievolita sempre di più. All’epoca della caduta dell’ultimo Shogun il Giappone era messo ancora peggio dell’Italia: era frazionato in tantissime realtà locali, era un paese larghissimamente rurale, e in cui i contadini nascevano e morivano in un posto senza sapere cosa ci fosse al di là della prima collina che vedevano fuori dalla finestra; non esisteva una idea di Giappone o di Giapponesi, la gente non sapeva neanche come fosse geograficamente il Giappone, né sentiva qualcosa in comune con chi abitava in un’altra regione, nessuno insomma poteva capire che cosa volesse dire “essere Giapponese”, a parte magari pochissimi uomini di cultura; il paese era fatto per più del 90% da contadini, non c’era nessuna tradizione guerriera in quasi tutta la popolazione, e nessun amore per le armi e i soldati.
Quando i capi della rivolta trionfarono il vecchio sistema cadde: la casta dei samurai venne abolita, e i samurai vennero integrati in un esercito regolare di tipo moderno, con tanto di divisa copiata dall’esercito di Napoleone III. Era quello un periodo in cui tutto ciò che era occidentale era di moda, e il nuovo governo assoldò da tutto il mondo esperti in ogni campo per modernizzare il paese, cercando di copiare il meglio degli europei adattandolo alla realtà giapponese. Fu così che incominciò il processo di spersonalizzazione dei giapponesi, buttando a mare indiscriminatamente tutta la tradizione; ma quella era solo una moda passeggera, e comprensibile visto che il paese era rimasto chiuso agli stranieri per due secoli e mezzo, la cosa peggiore fu l’atteggiamento del potere politico, che cercava di manipolare la coscienza e l’identità dei giapponesi per renderli più docili e governabili.
Ancora oggi si parla di “restaurazione del potere imperiale” in Giappone, per indicare la sconfitta dello Shogun e il fatto che formalmente l’imperatore divenne il nuovo capo dello stato. Ma è un falso storico, perché l’imperatore non aveva avuto mai alcun effettivo potere politico che potesse essere “restaurato”, si limitava a controllare la città in cui viveva e la zona circostante, ed è sempre stato considerato solo un capo religioso, o meglio un essere di origine divina perché discendente dalla dea dell’alba. I vincitori della rivoluzione erano alcuni dei più potenti samurai del Giappone, avevano eserciti e terreni, ma sapevano che se volevano mantenere il potere dovevano farlo in maniera diversa dal passato; così una volta vinta la guerra si riciclarono come politici del nuovo governo, diventando parlamentari e ministri, crearono le prime industrie con i soldi dello stato e se ne appropriarono, creando i primi grandi gruppi industriali che esistono ancora oggi (come Mitsui, che poi dopo la seconda guerra mondiale diede vita alla Mitsubishi), in quell’intreccio di pubblico e di privato che ha sempre contraddistinto la grande industria giapponese. Per poter controllare il paese era però necessario avere un capo che fosse rispettato, e che in qualche modo potesse essere rappresentativo o almeno sembrarlo, e fu per questo che i ribelli combatterono la rivoluzione in nome dell’imperatore, e non dei signori locali (anche se in realtà ovviamente erano i loro eserciti e i loro soldi che erano usati per combattere, l’imperatore non faceva nulla). Questo fece sì che l’imperatore, una volta vinta la rivoluzione, diventasse un simbolo sempre più importante, i politici crearono per legge una religione artificiale, che era un misto di shintoismo e buddhismo, dicendo che quella era la religione “pura” dei giapponesi, cioè pulita da tutte le influenze straniere (cosa assolutamente falsa, anche perché shintoismo e buddhismo sono convissuti per secoli, e nessuno poteva più distinguere cosa esattamente appartenesse ad una religione o all’altra). Questo shintoismo politico venne elevato al rango di religione ufficiale dello stato. L’imperatore fu un po’ quello che era stato Pio IX in Italia, quando involontariamente per qualche sua dichiarazione venne eretto a simbolo della lotta per l’indipendenza, la differenza è che in Giappone l’imperatore non si è tirato indietro e ha sfruttato l’iniziale popolarità dovuta solo al fatto che lo shogunato era incapace di combattere contro gli stranieri, mentre il papa si tirò indietro lasciando spazio ai Savoia, che come i signori locali giapponesi non rappresentavano un ideale universale ma un interesse e un potere di parte e regionale. Questo condizionò il differente sviluppo dei due paesi.
Si può dire che la “giapponesità”, sia stata inventata artificialmente, tramite la scuola, i giornali e la leva militare e le guerre, ma anche così la società non si militarizzò subito. La fine dello shogunato avviene nel 1868, ma ancora negli anni ’20 il Giappone rimane un paese pacifico, in cui i militari e le guerre sono malvisti da quasi tutti, nonostante agli inizi del secolo il Giappone avesse combattuto e vinto con la Russia la sua prima guerra dell’era moderna, basandosi sull’idea di comportarsi in Asia come gli europei si erano comportati nel resto del mondo, cioè colonizzando e dominando le altre popolazioni, stabilendo una loro “zona di influenza”.
Il problema fu che con il passare del tempo i militari assumevano sempre più potere, in più gli industriali erano sempre al governo, e le industrie hanno bisogno di materie prime (di cui il Giappone è praticamente totalmente privo), fu così che il potere spinse per una progressiva militarizzazione della società: l’obiettivo era la Corea e poi la Manchuria, un territorio ricchissimo di industrie e risorse minerarie. La Cina era in un periodo di gravissima debolezza e divisione interna, ma il territorio era vastissimo ed era necessario un esercito immenso per poterne mantenere il controllo, bisognava quindi poter mobilitare l’intera popolazione. Da quando iniziò la guerra in Manchuria il Giappone rimase sempre in guerra fino alle due bombe atomiche, infatti i giapponesi non parlano di seconda guerra mondiale ma della “guerra dei 15 anni”.
Come mai quelli che fino a qualche anno prima erano pacifici contadini diventarono dei feroci soldati, famosi per aver violentato, massacrato, schiavizzato e torturato milioni di vittime in tutta l’Asia? È stata una questione di educazione, una cosa che Mussolini non aveva mai considerato pensando che bastasse far fare qualche marcia alla gente per farla diventare un soldato. Invece la chiave è nell’educazione, se gli uomini pensano che il capo dello stato sia un dio in terra, se gli viene insegnato che le altre razze sono inferiori, se li si obbliga ad ogni inizio di giornata in classe ad alzarsi in piedi e cantare l’inno nazionale, se si parla dei samurai come se in passato tutti lo fossero (erano solo il 5% della popolazione) e tutti fossero disposti a morire senza battere ciglio, se si prendono dei bambini e gli si inculcano queste idee e questo modo di pensare, allora non avrà importanza se non hanno mai preso in mano un fucile, saranno comunque degli assassini perfetti e affidabili, perché il difficile non è premere il grilletto, è non avere alcuna paura di morire, non avere alcuna pietà per l’avversario, e non avere alcun dubbio sulla giustezza della propria causa e sulla vittoria finale.
Tutte le più grandi atrocità derivano dalla mancanza di coscienza, dalla mancanza di identità. I giapponesi che andarono in guerra portandosi dietro le spade dei loro nonni e bisnonni samurai pensavano realmente che i loro antenati sarebbero stati orgogliosi di loro, e quelle spade li facevano sentire come degli eroi di altri tempi. Purtroppo ancora oggi i giapponesi si sentono discendenti dei samurai, e ancora sanno poco o niente di chi fossero realmente, come vivessero e in cosa credessero i samurai; paradossalmente prendono da film occidentali come “l’ultimo samurai” (che sono totalmente antistorici) l’idea romantica del samurai come cavaliere medievale e si convincono che quella fosse la realtà, basandovi molti dei valori della moderna società.
Il militarismo sfrenato giapponese è stato dunque creato da due fattori fondamentali: la presenza di politici capi delle più grandi industrie, desiderosi di conquistare territori ricchi di risorse e di essere in guerra per poter pagare a se stessi le commesse per gli armamenti, e una educazione sempre più rigida, fatta di insegnamenti falsi creati appositamente per educare all’obbedienza. Questo tipo di situazioni si può ritrovare in forme anche un po’ meno estreme, come nel caso dell’America moderna, in cui i politici non sono proprietari di industrie, ma vengono sovvenzionati dalle industrie di armi e da tutte quelle società che dopo la conquista di un nuovo territorio possono spartirsene le ricchezze vincendo appalti fasulli; anche l’educazione americana è simile a quella giapponese in un certo senso: non essendoci bisogno di una mobilitazione di massa non si punta ad ottenere una obbedienza cieca, ma a stimolare il lassismo, la pigrizia, o la fiducia irrazionale nella “missione” della nazione, si può vedere ad esempio nei film di guerra di Hollywood sulla seconda guerra mondiale, in cui, a parte rarissime eccezioni, c’è sempre un manipolo di americani che distrugge o riesce a bloccare divisioni intere di tedeschi, cosa che, come diceva Montanelli, fa domandare coma abbiano fatto i tedeschi a resistere per anni se bastava una manciata di americani per sbaragliarli tutti. Inoltre si può pensare ai discorsi di Bush sulla guerra al terrorismo, in cui parlava continuamente di “evildoers”, un termine che normalmente in inglese non si usa mai e che è traducibile come “malvagi”, una parola che è presa di peso dalla bibbia, e che dimostra come gli americani siano stati convinti a combattere una guerra santa contro un grande Male, informe, terribile, oltre che ovviamente imprendibile. Se gli americani fossero stati educati veramente, se gli fosse stato insegnato che il male assoluto non esiste e che bisogna prima pensare alle tante ingiustizie in casa propria prima di potersi proporre come giudici delle ingiustizie altrui, se il potere invece che pensare alla propria conservazione e perpetuazione rendendo la popolazione sempre più stupida avesse pensato al bene della gente, oggi il mondo sarebbe completamente diverso.
L’identità dei popoli come delle singole persone non è cosa semplice a comprendersi, ma si possono fare alcuni esempi, oltre a quelli già citati, di errori talmente grandi da non poter essere negati da nessuno: prendete ad esempio l’invio dei militari italiani in Iraq e in Afghanistan, in Italia non ci sono mai stati attentati di matrice islamica, non ci sono pericoli di invasioni da parte di stati del medio oriente, insomma non c’è alcuna ragione di interesse in quella zona del mondo, e lo stato italiano spende i soldi dei suoi cittadini così, spingendo i soldati italiani ad uccidere e farsi uccidere solo per fare piacere agli americani; intanto in Italia ci sono le due più grandi organizzazioni criminali del mondo (la mafia e la ‘ndrangheta), e una terza che non se la passa male (la camorra), che succhiano miliardi di euro ogni anno, uccidono col commercio della droga, rovinano le famiglie e le imprese con lo strozzinaggio, ma nessuno ha mai proposto di usare l’esercito contro di loro (che sarebbe l’unico uso morale dell’esercito, che difenderebbe in quel caso lo stato e i cittadini da un male vero). Come può uno stato così ergersi a paladino della libertà?
Avere una propria identità significa essere consapevoli dei propri difetti, dei propri problemi, e che anche nel caso fossimo un poco migliori di alcune altre persone questo non ci autorizza a prendere queste persone a bastonate o pretendere che siano nostre schiave perché noi siamo “migliori” . Le guerre, soprattutto quelle combattute in età moderna dagli stati democratici, si fondano quasi sempre su questa idea di essere migliore, portare la democrazia con le armi è solo una versione aggiornata del mito della missione britannica nel mondo in favore dei buoni selvaggi, tutto viene ammantato di falsità ed ipocrisia, ma non bisogna semplicemente condannare tutti, perché il popolo ci crede a queste idee perché ci è sempre sguazzato dentro, e per la maggior parte le persone credono veramente di vivere nella migliore società del mondo, quella con le regole più giuste. Anche parte dei potenti a volte crede sinceramente in queste idee, l’esempio più famoso è quello di Churchill, che fu imperialista fino al midollo fino alla fine dei suoi giorni, non perché non si fosse sforzato di studiare e conoscere la realtà, e nemmeno per interesse personale o per recitare una parte politica, ma perché credeva sinceramente che quell’epoca vittoriana che aveva vissuto quando era bambino fosse bella, elegante, e desse orgoglio e lustro all’Inghilterra ed agli inglesi.
Tuttavia la maggior parte dei politici è in malafede, e non crede a nulla di quello che dice, anzi non crede a nulla e basta. L’unica cosa che si possa fare è cercare di creare una cultura alternativa a quella offerta dal potere nelle scuole, nei film, nella televisione, una cultura che parli della realtà, che descriva gli uomini e le situazioni così come sono, senza demonizzarli e senza nasconderne la miseria, che non parli per stereotipi o per vuote parole, che sia unicamente autocritica, e guardi agli altri solo per imparare cosa di buono e di cattivo fanno, cosa funziona e non funziona. Se poi si è così interessati a migliorare la situazione altrui basterebbe creare uno stato giusto, se vi fosse sulla terra un posto in cui si vive realmente bene, in cui vi sono giustizia e risorse per tutti, in cui lo stato provvede ai cittadini di tutto il necessario per vivere senza privarli della loro libertà ed individualità, se un posto così esistesse non sarebbero necessarie le bombe intelligenti per esportarne l’esempio, tutti quanti sarebbero portati ad imitarlo senza bisogno di alcuna violenza.
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