Sul processo “Verità e Riconciliazione” in Sudafrica per uscire dalle violenze dell’apartheid
Sul processo “Verità e Riconciliazione” in Sudafrica
per uscire dalle violenze dell’apartheid
(incluso nel volume collettivo di Hildegard Goss-Mayr, Paolo Candelari, Enrico Peyretti, Alberto L’Abate. Angela Dogliotti Marasso, Giovanni Ciavarella, Silvia Cosentino, Teoria e pratica della Riconciliazione, Edizioni Qualevita, www.qualevita.it, Torre dei Nolfi (AQ), ottobre 2009, pp. 39-54)
(ripubblicato in Servitium, www.servitium.it, n. 196, luglio-agosto 2011, “Pena e misericordia”, pp. 83-95)
La parola giustizia, nel discorso corrente, ha due significati distinti ma non separati: l'apparato giudiziario in uno stato di diritto, e la sua attività di giurisdizione; la giustizia come valore ideale «il cui confine con l'amore è meno facile da tracciare». Nel primo significato, la giustizia è una pratica sociale che è «una parte dell'attività comunicativa», ha carattere formalistico «non come un difetto, ma come un punto di forza», ed ha anche una sua etica: audi alteram partem. Nel secondo significato, la identifichiamo quasi totalmente con la giustizia distributiva di ruoli, compiti, diritti e doveri, vantaggi e svantaggi, benefici e impegni, secondo il principio suum cuique tribuere.
Nelle aspirazioni etiche della coscienza comune, e nella tensione civile, i due significati dovrebbero tendere a coincidere: cioè ogni giudice dovrebbe riuscire a riconoscere ad ogni cittadino ciò che gli spetta, considerando i diritti secondo una uguaglianza aritmetica rispetto all'equivalenza di valore di tutti i cittadini, e distribuendo vantaggi e impegni secondo una uguaglianza proporzionale rispetto alle diseguali condizioni e bisogni di ciascuno (trattare in modo simile casi simili).
La giustizia come pratica sociale segue una logica dell'eguaglianza e l'amore come punto ideale di compimento di ogni giustizia segue una logica della sovrabbondanza. I due piani non sono perfettamente sovrapponibili. La società deve chiedere ai cittadini l'eguaglianza - quella aritmetica e quella proporzionale - e può esigerla anche con la forza. Può anche chiedere loro la generosità - sentirsi in debito reciproco, e non solo in contrapposizione di interessi - perché ne ha bisogno per non vivere soltanto a livelli minimi o insufficienti di solidarietà, ma non può assolutamente esigerla con la forza, per la natura dei valori in gioco. L'amore supera la giustizia. Tra i due piani non c'è opposizione né estraneità totale, ma non può esservi coincidenza. Non può esservi coincidenza, ma non può cessare una specie di attrazione reciproca: la giustizia (il dovuto) è la base irrinunciabile dell'amore (il donato); l'amore (la misura generosa) orienta e garantisce la giustizia (la misura giusta).1
L'umanità sperimenta i suoi limiti nel fatto che non può funzionare senza un minimo di forza. Ciò significa che non abbiamo risolto il problema del vivere bene insieme. L'uso della forza denota lo scacco della società. Ogni volta che si arresta un ladro, la società produce i suoi ladri, perché ha mancato lo scopo di educare. Insomma, la forza non fa giustizia.2
E' per questo che sono sempre attuali, e sono sempre riproposte sia da vari fatti di cronaca, sia dalla riflessione etica e civile, le discussioni, in particolare sulla giustizia penale, sulla certezza delle pene e sulla loro giusta misura e severità, sulla riparazione dei diritti della vittima, sul rispetto, che la nostra Costituzione impone, dei diritti umani del reo, sul principio che “la legge è uguale per tutti” minacciato specialmente nelle società che privilegiano la competizione e quindi la forza individuale.
A questo riguardo mi sembra molto importante l'esperienza fatta nella Repubblica Sudafricana, per superare le conseguenze delle gravi ingiustizie del regime razzista dell'apartheid3. Tre libri, oltre a vari articoli e una importante lezione accademica di Johan Galtung, ci informano su questa vicenda ricca di indicazioni: il libro è di Marcello Flores, Verità senza vendetta,4 quello di Antonello Nociti, Guarire dall'odio5, quello di Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono6
Marcello Flores
Molte parti del rapporto finale, pubblicato nell'ottobre '98, della Truth and Reconciliation Commission (TRC) sudafricana, presieduta dal vescovo anglicano Desmond Tutu, compaiono, con un'ampia introduzione del curatore, nel libro di Flores. L'obiettivo, dopo la fine del regime di apartheid, non era e non poteva essere la "giustizia dei vincitori", tipo Norimberga, ma la verità dei fatti per la necessaria riconciliazione della società. Infatti, quella società non avrebbe potuto sopportare una resa penale dei conti senza lacerarsi irreparabilmente. Inoltre, non c'erano vincitori perchè il conflitto, di cui tutti prima prevedevano la conclusione in un bagno di sangue, si era chiuso con un saggio compromesso, senza vincitori né vinti. Avevano commesso delle violenze non solo i bianchi nella difesa violenta della violenza sistematica dell'apartheid, ma anche membri dell'African National Congress nella loro lotta, sentita come "guerra giusta". Ai colpevoli la TRC non chiedeva il pentimento morale, a scanso di facili ipocrisie, ma l'ammissione completa delle loro colpe, e concedeva l'amnista personale – non generale! - in cambio della verità, restando su di loro solo la sanzione morale della società. Questi obiettivi non vengono sempre raggiunti, ma l'esperimento è molto interessante, proprio nella ricerca di continua riduzione della violenza, anche di quella legittimata.
Come osserva Jean-Marie Muller, nel suo lavoro filosofico sulla nonviolenza, «non è possibile sconfessare, rifiutare e disarmare gli estremismi senza rimettere in causa le ortodossie che gli forniscono giustificazioni. Per spezzare la logica di violenza degli estremismi dobbiamo cominciare col rompere con tutto ciò che, nella nostra propria cultura, legittima e onora la violenza come la virtù dell'uomo forte»7, tutto ciò che vede come insuperabile la necessità della punizione istituzionale. Nel paragrafo "La violenza del sistema penale"8, Muller osserva che «la storia della repressione dei crimini da parte dello Stato è forse più spaventosa della storia dei crimini». E cita Simone Weil, per la quale molto spesso la condanna pronunciata dall'apparato giudiziario non è altro che «la più bassa vendetta»9. In una società democratica e laica, «la funzione della giustizia non è di punire una colpa, ma di giudicare un delitto, non è di castigare un colpevole, ma di mettere in condizioni di non nuocere un uomo pericoloso»10, e dunque, in molti casi è possibile, in alternativa al carcere - che, di fatto, separa e de-socializza invece di ri-socializzare - sviluppare le forme di mediazione ricostruttiva del rapporto spezzato tra autore del delitto e vittima, e le misure di restituzione nel caso di infrazioni contro i beni altrui.
Flores inquadra la singolare vicenda sudafricana del superamento dell'apartheid, tra i fenomeni di transizione verso la democrazia di molti paesi a regime autoritario o dittatoriale, avvenuta negli anni '90. Le rivoluzioni popolari nonviolente del 1989 che hanno permesso l'abbattimento del Muro di Berlino11 sono il simbolo migliore di questa transizione, insieme al processo sudafricano. In tutti questi casi sorge il delicato problema del "fare i conti con il proprio passato". Ma anche in paesi già democratici si nota la tendenza verso una "lettura giudiziaria" della storia dell'ultimo cinquantennio: processi ai nazisti in Francia e Italia, caso Pinochet, tribunali internazionali per ex-Jugoslavia e Rwanda, fino alla futura più vasta competenza della Corte penale internazionale, avviata a Roma nel luglio 1998. Sintomi, questi, ci pare, di un bisogno positivo nel nostro tempo, che è violento, di giudicare la propria violenza.
Ma questo nostro tempo è anche, in qualche misura più di altri momenti storici, consapevole e allarmato della propria violenza: ha bisogno, da un lato, di smascherare e perseguire violenze finora per lo più coperte dall'impunità del potere politico, e dall'altro di contenere nei limiti del diritto e in forme quanto più possibile ristrette di forza, con nuovi princìpi e istituzioni, la risposta della giustizia a quelle violenze, per evitare di prolungarne la catena. Di contro questo bisogno emergente, conflitti per la cui soluzione pacifica si è fatto poco e tardivamente, vengono “risolti” con cosiddette “guerre umanitarie” e guerre “giustiziere”, che violano chiaramente e gravemente quei limiti del diritto e pongono nuovi ancor più gravi problemi di impunità dei maggiori poteri politici ed economici.
Antonello Nociti
Il libro di Nociti mostra come a partire da una situazione di durissima violenza strutturale, il Sudafrica ha saputo compiere una transizione nonviolenta alla democrazia, senza vendette, e avviare un processo di superamento del razzismo, grazie alla saggezza e all'inventiva di alcuni uomini saggi e pazienti, da entrambe le parti.
Non la vendetta, non il colpo di spugna per una falsa pacificazione, non l'oblio delle enormi sofferenze inflitte o subite, ma la verità detta e riconosciuta, l'ascolto delle vittime o dei loro familiari, l'ammissione di colpa da parte dei carnefici, per costruire una riconciliazione non fragile.
In Sudafrica «è emersa una giustizia per molti versi nuova, che mira più a capire che a punire, più a riaprire il dialogo tra le vittime e i loro persecutori che a creare nuove barriere», dice Nociti. Il processo di riconciliazione non è scontato, ma questa esperienza è da conoscere e da meditare, anche per promuovere e proseguire dinamiche di riduzione della violenza legalizzata di cui gli stati anche democratici hanno il monopolio e che sembra tuttora, fatalisticamente, necessaria e irrinunciabile per l'ordine e l'amministrazione della giustizia.
Davanti a crescenti fenomeni e ideologie di razzismo e intolleranza - che Nociti segnala con forza serpeggianti nella società italiana nei confronti degli immigrati non europei, col pericolo di un apartheid in Italia! -, di fronte a conflitti ad alta temperatura di odio patito e riversato sull'avversario, i cercatori di pace nonviolenta guardano alla coraggiosa e geniale esperienza sudafricana come proposta di un cammino realistico e concreto, da ripensare in ogni determinato contesto, per il quale una società lacerata, una umanità lacerata, può "guarire dall'odio". In Jugoslavia, in Israele e Palestina, è mancata questa consapevolezza, l'intelligenza di saper uscire dalla guerra.
Johan Galtung
Né Flores né Nociti hanno potuto citare la lectio magistralis tenuta a Torino da Johan Galtung, laureato honoris causa in sociologia del diritto nel gennaio 1998.12 In quella occasione Galtung per primo rilevava bene gli aspetti di questa esperienza sudafricana fortemente innovatori dello stesso processo penale tradizionale, verso il superamento della sua relativa violenza, innegabile sebbene sottratta ai privati e regolata dalle garanzie processuali. Nella TRC sudafricana, più della punizione l'obiettivo è la restituzione di dignità alle vittime offese (presenti solo marginalmente e non da protagoniste nel processo tradizionale, spesso anche causa per loro di nuove dolorose esperienze), attraverso il pubblico ristabilimento della verità dei fatti, e possibilmente attraverso la ricostruzione del rapporto sociale e umano tra offensore e vittima. La vittima, più che di vendetta, ha sete di riconoscimento delle proprie ragioni che sono state offese, e sono la sua dignità violata, disconosciuta ma non perduta. Il colpevole, confessando, riconoscendo di avere offeso un diritto, può anche esporre i motivi che, in quel dato clima e mentalità, lo portavano a compiere quegli atti. Il riconoscimento reciproco delle sofferenze e delle paure, delle cause che hanno spinto ad errori e offese, in questo come in altri grandi conflitti, è base solida per poter costruire la riconciliazione e sperare di guarire la società da quella violenza.
Una situazione come quella sudafricana, che era tra le più violente, ha potuto compiere una transizione non così cruenta come si temeva, ed anzi esemplare nella ricerca di riconciliazione. Dunque, uscire dalla violenza a ripetizione è possibile. Le risorse ci sono, vanno scoperte e valorizzate.
I "conti col passato" fatti dalla TRC si differenziano sia da soluzioni quali l'amnistia generale italiana del 1946, oppure il "punto final" (data limite per l'accusabilità dei militari della dittatura argentina, poi scagionati in massa per "obbedienza dovuta", fino ai successivi processi regolari, finalmente), sia dal processo penale tradizionale, che esercita una giustizia quasi solo retributiva, o correttiva. In questo c'è verità (e pena) senza riconciliazione. Nel "punto final" c'è riconciliazione senza verità. L'ambizione e necessità del Sudafrica è la verità con la riconciliazione.
Ma ciò, segnala Galtung, è una proposta di progresso nella nonviolenza per ogni comune processo penale. In esso, lo Stato che accerta il reato e punisce il reo, si sostituisce alla vittima, espropriandola del diritto di vendetta, e a Dio, esercitando il diritto di castigo. Questa dello Stato è una violenza legittimata, regolata, limitata, razionale e non passionale, certamente preferibile alla vendetta privata, ma è pur sempre una violenza, che dunque non opera davvero per liberare la società da questa infezione. Come l'economia è un "mercato dei beni", c'è qui un "mercato dei mali", che retribuisce male con male, e dunque non riduce il male complessivo di cui la società soffre. La giustizia retributiva (anche quando non vuole essere vendicativa, ma rieducativa, come prescrive la Costituzione italiana, art. 27) accoppia ad un delitto una pena, cioè una sofferenza; risponde al male col male, raddoppia il male. Alla violenza dell'autore sulla vittima risponde la violenza dello Stato sull'autore.
Nel processo giudiziario, protagonisti sono il criminale e il giudice. La vittima è tagliata fuori, quasi invitata a saziarsi della pena inflitta al condannato (caso estremo: i familiari che assistono all'esecuzione mortale, in Usa!). Soluzione arcaica, forse deterrente (o eccitante? la criminalità è spesso recidiva), ma per nulla risolutiva. La frattura sociale rimane, e quando spacca un'intera società è insopportabile: fascisti-antifascisti in Italia dopo il '45; bianchi-neri in Sudafrica dopo il 1990-94. Ma le due fratture sono state affrontate ben diversamente: con l'amnistia-oblio nel caso italiano (oblio peraltro impossibile, cosicché la violenza impunita né diversamente superata, ma soltanto rimossa resta pericolosamente annidata nel corpo e nella memoria avvelenata della società), con l'amnistia-verità nel caso sudafricano (e comunque, in questo caso, un'amnista personale, date le condizioni richieste, e non generale).
La vera guarigione dell'offesa sarebbe la ricostruzione del rapporto violato, spezzato. E' ciò che propone la vittima al colpevole col perdono morale e religioso, è ciò che cerca il colpevole chiedendo perdono alla vittima. Ma anche la società, col mezzo della legge, potrebbe muoversi in questa direzione, verso la riduzione della "violenza giusta" o "giustizia violenta", con una giustizia restaurativa o riparatrice dei rapporti interpersonali e della coesione sociale13. Galtung, senza alcuna illusione di rapide realizzazioni di una giustizia priva di ogni pena, propone che nel tradizionale "modello giustizia" si introducano gradualmente elementi del "modello verità e riconciliazione": potrebbe restare la pena, ma accompagnata dall'obbligo del condannato di riflettere, di scusarsi con la vittima (o la sua famiglia), di fare qualcosa che significhi una restituzione. Il giudice, la vittima, il colpevole possono dialogare tra loro per determinare la forma di questa restituzione-riconciliazione, che, insieme alla pena stabilita, chiuderebbe il caso. Ci sono studi, iniziative, prime attuazioni di questa ricerca, che gli esperti conoscono, specialmente nel campo della giustizia minorile. L'esperienza sudafricana è un nuovo impulso importante.
A questo modello sudafricano non si è pensato per chiudere in modo alto e non liquidatorio l'emergenza del terrorismo in Italia. Ad esso si dovrebbe ora pensare per cercare di sanare le ferite degli odii etnici e della guerra in Kossovo, in tutta la vecchia Jugoslavia, e in ogni simile conflitto, come quello così aspro e profondo tra Israele e Palestina. Certo, occorre una ispirazione morale superiore all'idea oggi prevalente di politica, ottusamente forzista. 14
Tre sono i pilastri del "modello verità e riconciliazione" in Sudafrica, indicati da Galtung:
1) l'autore del delitto, alla vittima chiede perdono o comprensione, restituisce almeno moralmente, ripara l'offesa per quanto possibile; allo Stato offre la confessione della verità, in cambio dell'amnistia personale;
2) la vittima offre al colpevole confesso il perdono in cambio delle scuse, dopo essere stata ascoltata pubblicamente sulle proprie ragioni e sofferenze, ciò che costituisce un importante risarcimento morale e psicologico dell'oscuramento e del silenzio che la violenza le ha imposto;
3) lo Stato dà al colpevole l'amnistia personale in cambio della verità, e alla vittima il risarcimento anzitutto morale, in cambio della chiusura del caso.
Il funzionamento non è garantito, ha le sue incertezze e difficoltà.15 Ma il dato positivo è che da un lato la vittima non è sostituita ed esclusa, ma è protagonista del processo ricostruttivo della relazione rotta, con la possibilità di affermare pubblicamente la propria dignità negata ed offesa; dall'altro lato, il colpevole non è solo colpito, ma invitato ed aiutato ad uscire dal ruolo negativo.
Il Sudafrica, posto nella necessità di evitare la giustizia penale tradizionale per salvare la propria società, - conclude Galtung - ha aguzzato l'ingegno e l'inventiva, e così ha aperto nuovi sentieri nella giurisprudenza e nella nonviolenza positiva e concreta, col considerare il crimine sia nella relazione autore-società-Stato (in funzione di Dio giustiziere), sia nella relazione autore-vittima, con lo scopo primario di ricostruire entrambe queste relazioni, e non solo la prima.16
Desmond Tutu
Dopo i testi precedenti, è uscito nel maggio 2001 il libro del vescovo anglicano Desmond Tutu, presidente della TRC, premio Nobel per la pace 1984, Non cè futuro senza perdono. Questa testimonianza è specialmente chiara sotto l'aspetto umano, storico, morale.
«Esistono abissi di depravazione in cui tutti possiamo sprofondare (…), ognuno di noi possiede in alto grado la capacità di compiere il male (…), non c'è spazio per compiacersi di se stessi o per puntare il dito con arroganza (…). Per fortuna, c'era anche un'altra parte (…) quella in cui si rivelava la grande generosità d'animo, la straordinaria magnanimità nel perdonare, di coloro che per le sofferenze patite avrebbero avuto ogni diritto di essere ostili verso i loro persecutori» (p. 110-111).
«Durante la mia esperienza nella Commissione, mi sono sentito ricolmare dall'esaltante sensazione che l'umanità è capace di bene» (p. 190). «Le persone "comuni" sono capaci di cose straordinarie» (p. 116, 119). «L'amore è più forte dell'odio» (p. 69).
«L'apartheid era riuscito a disumanizzare tanto i suoi difensori quanto le sue vittime» (p. 22). «Quando si disumanizza una persona infliggendole danno e sofferenza, inevitabilmente si disumanizza se stessi» (p. 80-81).
Il concetto morale centrale che ha guidato i lavori della Commissione, e che Tutu mette in rilievo è il concetto africano tradizionale di ubuntu. Esso «riguarda l'intima essenza dell'uomo». La persona che ha ubuntu «è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole, condivide quello che ha, (…) ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti o umiliati» (p. 32), perché «una persona è una persona attraverso altre persone» (p. 33). Su questo «universo morale» (p. 70, 148, 187) che tutti ci accomuna, Tutu vede fondata l'esperienza sociale di perdono vissuta dal suo popolo, pur con limiti e problemi (egli parla di insuccesso della TRC con la popolazione bianca, p. 173, e di reticenza dell'esercito, p. 176-177).
Si è trattato di un «processo di amnistia» (p. 24), non di amnesia (anche se le due parole hanno la stessa radice), e di una amnistia non generalizzata, ma personale: i colpevoli anche dei peggiori crimini contro i diritti umani e la dignità delle persone hanno avuto «la libertà in cambio della verità» (p. 49), cioè – come già sappiamo - a condizione della confessione piena del loro delitto, purché commesso per motivi politici. Le confessioni complete sono state tante. La legge istitutiva della TRC non richiedeva il pentimento, ma le udienze favorivano la domanda di perdono da parte dell'offensore e la concessione da parte delle vittime, quindi la riconciliazione tra le parti, per costruire la riconciliazione nazionale. L'amnistia era quindi un perdono sociale e giuridico, non necessariamente morale, ma questo poteva venire dall'incontro nella verità tra colpevole e vittima. Né l'amnistia dava l'impunità, perché procurava l'umiliazione e la riprovazione pubblica (cfr p. 42-43).
L'offeso che perdona ricorda all'offensore la sua colpa, lo accusa. Da ciò la negazione della memoria, il rifiuto di ricordare (p. 199, 200), che Tutu constata in alcuni degli oppressori razzisti sudafricani, ma che tutti conosciamo nel "negazionismo" relativo a grandi delitti storici, come la persecuzione nazista degli ebrei.
A bilanciare l'amnistia c'era l'obbligo della riparazione, almeno morale. Un risarcimento materiale alle vittime è riuscito molto più lento, ridotto e tardivo. Ma la prima esigenza delle vittime, o dei loro familiari, era la possibilità di parlare, di essere finalmente ascoltati in pubblico (le udienze erano trasmesse in televisione), di riavere il rispetto e la dignità calpestati nei loro corpi e nelle loro anime (p. 49-54, 134, 171, 174, 203). La riparazione della memoria e della verità è la principale riparazione del danno, anche se comporta nuovo dolore per chi ha sofferto: «La verità ferisce ma il silenzio uccide» (p. 84).
Colpevoli erano tanto poliziotti, militari, politici a servizio del sistema segregazionista, quanto lottatori per la liberazione, che, dopo la rinuncia alla nonviolenza, nel 1960 (p. 82), caddero nella «tragedia di diventare come quelli che più odiavano» (p. 105), commettendo anch'essi dei crimini. Questa osservazione vale purtroppo per entrambe le parti (anche se di forza diseguale) in tante altre lotte con fini giusti ma mezzi ingiusti.
Il Sudafrica, nella fragilità della sua nuova democrazia, non poteva retribuire male con male, ed ebbe così l'occasione di ritrovare una giustizia superiore, restaurativa o ricostruttiva. «Nello spirito dell'ubuntu, fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l'opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso» (p. 46). «Fare giustizia non significa punire bensì risanare» (p. 119-120). Questa idea di giustizia come cura e guarigione delle ferite ritorna molte volte nel libro (p. 149, 152, 161, 167, 119-20). Nel concludere la riflessione sulla esperienza, nella TRC, del «cercare di risanare un popolo traumatizzato e ferito» (p. 212), Tutu dice che i membri della Commissione hanno fatto un buon lavoro «per il fatto di avere assunto su di noi una parte del dolore» e per essere stati dei «guaritori feriti» (p. 213).
Quello della TRC, dice il vescovo Tutu, è stato «un compito profondamente spirituale» (p. 64, ma anche 55-70). Momenti di preghiera e di riflessione silenziosa, personali ma anche comuni, hanno avuto luogo nelle riunioni della Commissione, specialmente quando più intense e strazianti si facevano le rievocazioni (p. 89, 152). Le scelte del presidente nel dirigere la Commissione sono state guidate dalla "teologia", come dice Tutu (p. 67-70), cioè da un chiaro pensiero cristiano: «Un atto diabolico non significa che sia un diavolo colui che lo compie» (p. 67).
Il regime segregazionista è definito «pigmentocrazia», cioè fondato sul colore della pelle (p. 71), e «sicurocrazia» (p. 177), perché, come in vari paesi latinoamericani, il pretesto del "pericolo comunista" giustificava con l'ideologia della sicurezza (p. 136) l'oppressione peggiore. La stessa ideologia securitaria produce oggi in Italia una politica al limite del razzismo verso gli immigrati. In Sudafrica l'orrendo armamentario era il solito: sequestri, torture, avvelenamenti, sparizioni, spionaggi, calunnie, omicidi di stato. Anche le chiese praticavano facilmente la separazione razziale, e una di esse la giustificava teologicamente (p. 140), ma furono «in generale molto più pronte, rispetto ad altre istituzioni, a confessare le proprie manchevolezze» (p. 167, 204-205).
«Ricucire la nazione avviando un processo di riconciliazione» era lo scopo necessario. Ma il compito della TRC era di promuovere, e non di raggiungere quel grande obiettivo (p. 124). Nell'avviare questa impresa – riconosce Tutu – grande parte ha avuto Nelson Mandela «con la sua fede appassionata nel perdono e nella riconciliazione» (p. 140). E grande parte hanno avuto le donne, con «le loro straordinarie doti di flessibilità e di coraggio». Esse, quando venivano a testimoniare, «raccontavano quasi sempre di fatti successi a qualcun altro; mentre quando erano gli uomini a testimoniare parlavano quasi invariabilmente di fatti accaduti a loro stessi» (p. 172).
Sono molto interessanti le osservazioni di Tutu sulla tesi sostenuta da Simon Wiesenthal, che i vivi «non possono perdonare al posto di coloro che in passato hanno sofferto e non sono più al mondo». Tutu ritiene invece, anzitutto riguardo alle chiese, che «implicherebbe una visione stranamente atomistica della natura di una comunità non prendere atto che vi è realmente continuità tra il passato e il presente, e che coloro che vi hanno appartenuto in passato condividono la vergogna e la colpa, ma anche la lode e l'assoluzione, del presente». Quanto alle comunità civili, Tutu trova difficile comprendere come mai gli ebrei di oggi accettino cospicui risarcimenti per le loro vittime di ieri, ma ritengano di non potere perdonare per conto loro. «Il vero perdono investe anche il passato, tutto il passato, per rendere possibile il futuro. Non possiamo continuare a macinare rancore anche per altri, che non possono esprimersi di persona. Dobbiamo accettare che quello che facciamo lo facciamo per le generazioni passate, presenti e future. È questo che fa di un popolo un popolo e di una comunità una comunità, nel bene nel male» (pp. 203-207).
A Marietta Jaeger un uomo rapì ed uccise la figlia Susie, di sette anni. Nei primi momenti, la donna avrebbe ucciso quell'uomo con le sue mani. Poi si convinse che la scelta migliore e più sana fosse quella di perdonare. «Coloro che non trascendono il desiderio di vendetta forniscono al criminale un'altra vittima: inaspriti, tormentati, resi schiavi del passato, finiscono per mortificare la propria vita. (…) La nostra incapacità di perdonare è certamente fonte di rovina. (…) Io credo che l'unico modo per ritrovare l'interezza, la salute, la felicità sia quello di perdonare» (p. 119-120).
Enrico Peyretti
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