A differenza di eirēnē, lat. pāx ha inizialmente un contenuto concreto. La parola indica un accordo tra due contendenti, un accordo che permette il ristabilirsi di una situazione di tranquillità precedentemente incrinata. In ambito politico la pace è il frutto di un accordo tra due entità sovrane, e il fatto che sia il perdente a chiedere la pace (pacem petere) e il vincitore a concederla (pacem dare) implica che la disponibilità dell’accordo e della situazione di pace è nelle mani del più forte. Il valore prioritario di pāx come ‘trattato’ si coglie bene negli autori latini arcaici. In Ennio, Ann. v. 207, leggiamo orator sine pace redit regique refert rem, cioè ‘il messo (l’uso di orator nel senso di legatus è frequente nel latino arcaico) ritorna senza che vi siano proposte di accorde e riferisce al re la circostanza’, è più ancora nel seguente di Plauto (Persa 753) passaggio in cui la parola compare al plurale: hostibus victis, civibus salvis, re placida, pacibus perfectis. Oltre che nei rapporti tra stati, la parola si applica per indicare il realizzarsi di una pacificazione anche tra familiari: nel Mercator di Plauto, v. 953 ss., il protagonista, che sta operando per recuperare una situazione di pace tra i genitori, usa le seguenti parole: pacem componi volo meo patri cum matre, nam nunc est irata. E all’ottenimento della pace familiare il giovane dice: uxor tibi placida et placatast; cette dextras nunc iam: dal che si desume che pāx è semanticamente collegato con la sfera di placare, così come è spesso collegato, soprattutto nella terminologia politica, col termine concordia, che designa l’unità di intenti (propriamente l’avere insieme il cuore): cfr. già Ennio, trag. v. 342 III 342 Pacem inter sese conciliant, conferunt concordiam. Il collegamento di pax con tranquillitas si coglie invece nel seguente passo dell’Ampitruo (vv. 957 s.): Iam pax est inter vos duos? | Nam quia vos tranquillos uideo, gaudeo et volupest mihi
L’affermarsi di pāx come programma politico si ha nell’età di Silla, e poi, più fortemente, nei contrastati e difficili anni che seguono. La riflessione romana sulla pace ha come punto di partenza la riflessione delle scuole filosofiche ellenistiche, ma rivendica con maggior vigore l’importanza della pace come valore non solo individuale, ma anche statale. La pace è spesso indicata come obiettivo da perseguire, anche se la speculazione mostra maggior interesse per il problema del bellum iustum. Che la guerra debba essere affrontata come extrema ratio e che debba avere come obiettivo primario il ristabilimento di un diritto violato è affermato a più riprese dai vari autori: la formula con cui i fetiales proclamavano l’inizio della guerra contiene al suo interno l’espressione di questa esigenza, col suo richiamare la legittimità dell’azione romana e col suo fare appello al fās, cioè al diritto divino.
[La formula dei feziali è così riportata da Livio I 32: Audi, Iuppiter, audite, fines, audiat, fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani: iuste pieque legatus venio verbisque meis fides sit ... si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse ... puro pioque duello querendas censeo itaque consentio consciscoque.]
La stessa problematica è ripresa e approfondita su basi teoriche da Cicerone in de republ. III 34 ss.; e tuttavia non si può semplicisticamente definire pace una situazione in cui non si realizzano atti di ostilità né di fronte a nemici esterni né all’interno dello Stato: non si può confondere tra pace e schiavitù, come lo stesso Cicerone rileva con vigore in passi della II e della XII Filippica. E anche in de officiis I 35 Cicerone osserva che pace e giustizia sono due idee che si compenetrano: la guerra è una situazione da affrontare a malincuore e con sofferenza, e la si affronta solamente nella speranza che da essa scaturisca una pace migliore, e anche l’ottenimento della superiorità militare e della vittoria non esime che detta le condizioni di pace dal rispettare elementari regole di giustizia e di equilibrio nei confronti dei vinti, come fecero, nella loro lungimiranza, i Romani primitivi.
Il raggiungimento di una pace stabile e duratura è elemento programmatico della politica augustea: l’attività militare con cui Roma attraverso secoli di combattimenti ha esteso il suo dominio su tutto il bacino del mediterraneo è reinterpretata come opera di pacificazione dei popoli all’interno di un grandioso progetto civilizzatore. La politica imperiale di Augusto fa uso dell’idea di pace con evidenti fini propagandistici. Nel 9 a.C. L’imperatore fa erigere nel Campo Marzio l’Ara Pacis Augustae, con rappresentazioni mitologiche che mostrano allegoricamente il benessere e la felicità di un mondo pacificato dalle armi romane per opera della lungimiranza e della generosità del principe. Sincero e ispirato interprete sia dell’ansia di pace che percorre il mondo romano, dopo decenni di violenze e lotte pressoché ininterrotte, sia di alcuni motivi dominanti della politica augustea è Virgilio in versi famosi (Aen. VI 847 ss.):
... Excudent alii spirantia mollius aera | (credo equidem), vivos ducent de marmore voltus, | orabunt causas melius caelique meatus | describent radio et surgentia sidera dicent: | tu regere imperio populos, Romane, memento | (haec tibi erunt artes) pacique imponere morem, | parcere subiectis et debellare superbos.
Appare dalla parte finale del brano citato che altra caratteristica del pacifismo augusteo è la connessione tra pāx e clementia L’atteggiamento di disponibilità alla clemenza è affermato da Augusto nel suo memoriale (Monumentum Ancyranum), che afferma testualmente: victor omnibus veniam petentibus civibus peperci. Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui), e di questa concezione si fa interprete anche Orazio nel carme secolare (vv. 49 ss.): quae que vos bobus veneratur albis | clarus Anchisae Veneris que sanguis, | impetret, bellante prior, iacentem | lenis in hostem ("e quelle grazie di cui vi prega col sacrificio di bianche vacche l’illustre discendente di Anchise e di Venere, le ottenga, lui superiore al nemico che combatte, mite col nemico prostrato a terra"). Nell’epoca imperiale il richiamo alla pace diverrà consueto, e sarà normale per gli imperatori fare coniare monete con l’immagine della dea Pace.
Le descrizioni dell’età dell’oro, numerose nell’età augustea, hanno tutte come denominatore comune la pace, intesa sia come assenza di conflitti sia soprattutto come assenza di indigenza, di avidità, di frode, di necessità di lavoro (perché la terra produce spontaneamente ciò di cui l’uomo ha bisogno e nei fiumi scorrono latte e miele): in qualche caso l’idea della pace è considerata nella sua accezione più radicale, vale a dire non solo come pace fra gli uomini, bensì come pacificazione di tutta la natura, tanto che le pecore non avranno più da temere gli assalti vespertini degli orsi contro l’ovile. Nell’età di Augusto sembra che ci si stia avviando a una rinnovata età dell’oro: è il sogno a cui dà voce Virgilio nella IV Ecloga. Quanto questa aspirazione fosse utopistica appare per esempio dalla lettura delle Elegie di Tibullo, ove l’aspirazione individuale a una vita pacifica ha scarse possibilità di realizzarsi in un ambiente e in un’epoca in cui l’acquisizione di meriti militari è uno dei modi più consueti per consentire all’individuo di emergere nella società.
Qualche spirito critico, come Tacito, potrà rilevare che questa pace porta con sé una limitazione della libertà di parola, o farà rilevare da un capo straniero che sotto questo nome pace si nasconde in realtà una politica espansiva e di spoliazione sistematica:
Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.
Se altri, come Seneca, preferirà insistere sulla serenità del sapiente, è ancora Tacito a farci sapere che la pace proclamata e conclamata dalla propaganda non corrisponde in realtà a un’esigenza pienamente avvertita e vissuta: lo dimostra, se non altro, la disavventura capitata all’intellettuale Musonio Rufo, la cui propaganda pacifista non solo non trova nessuna accoglienza nella truppa, ma addirittura viene messa a tacere con modi bruschi e violenti:
Miscuerat se legatis Musonius Rufus equestris ordinis, studium philosophiae et placita Stoicorum aemulatus, coeptabatque permixtus manipulis, bona pacis ac belli discrimina disserens, armatos monere. Id plerisque ludibrio, pluribus taedio; nec deerant qui propellerent proculcarentque, ni admonitu modestissimi cuiusque et aliis minitantibus omisisset intempestivam sapientiam.
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