Intere opere di Euripide e di Aristofane tendono a esaltare la pace o a descrivere in modo cupo e tormentato gli orrori della guerra. Ma vi è un passo di Erodoto che vorremmo chiamare come particolarmente significativo (I 87, 4). Sono le parole con cui Creso risponde a Ciro, che gli domanda quale follia lo abbia spinto a muovere guerra a lui e al suo impero, così più potente da non permettere nessuna illusione circa l’esito del conflitto:
Nessuno è così stupido da preferire la guerra alla pace: nella pace i figli seppelliscono i padri, in guerra invece i figli seppelliscono i padri: ma è piaciuto agli deì che così ciò avvenisse.
Dunque, la pace come situazione di normalità, contrapposta alla guerra, che è invece situazione in cui si ha un rovesciamento dell’ordine naturale. Questa stessa superiorità della pace è affermata in un passo di Euripide (Suppl. 486 ss.), nel quale si colgono gli echi delle dispute sofistiche fra discorso maggiore e minore:
Invero tra i due ragionamenti noi tutti riconosciamo quello inferiore e il bene e il male e quanto per i mortali la pace è meglio della guerra: innanzitutto essa è amatissima dalle Muse e nemica alle Erinni e si rallegra per abbondanza di figli e gode di ricchezza: rifiutando tutto questo noi malvagi scateniamo le guerre e, uomini, rendiamo schiavo l’uomo, e, città, le città.
Ancora Filemone (fr. 71, CAF II, 496 s.) esalta la pace come il massimo dei beni, e condizione essenziale perché si possa godere di tutti gli altri:
nozze, feste, parenti, figli, amici, ricchezza, salute, cibo, vino, piacere, questa ce li dona
La speculazione ellenistica, sia epicurea sia stoica, mettendo sempre più in ombra il valore politico e sociale della parola pace (che era stato invece trattato nella Politica di Aristotele), conferisce ad essa un valore soprattutto spirituale, e la considera come una conquista dell’individuo: la pace è la condizione del sapiente che ritrova nel profondo di sé le condizioni per raggiungere la serenità o l’imperturbabilità.
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