Storia del pacifismo e delle lotte nonviolente
"Pace": attraverso i secoli questa parola ha assunto significati diversi. Il primo trattato di pace affonda nella notte dei tempi, avvenne tra Egizi e Ittiti e decretava come bene prezioso l'assenza di conflitto. Esiste anche una storia della nonviolenza, di vittorie senza armi, la cui prima testimonianza risale alla Roma del 494 a.C.: uno sciopero dei plebei dell'Urbe. I concetti di guerra e pace mutano nel tempo: col cristianesimo la violenza perde lo status di "valore", ma solo nel XIX secolo la ricerca della pace comincia a farsi ideale, grazie alle prime "Società per la pace" americane.
L'etimologia della parola "pace" deriva dalla radice sanscrita paç/pak/pag - legare, saldare, unire - che si trova nel sanscrito pâç-a yâmi (lego), paç-as (calappio, corda), pag-ras (sodo, fitto) o anche nel latino pac-iscor (concordo, pattuisco). La stessa etimologia del termine "pace", quindi, non esprime uno stato che trova giustificazione in se stesso, bensì una condizione esistenziale sopraggiunta, fissata in seguito ad un patto. In definitiva, si conviene comunemente che l'idea di pace non costituisce una condizione spontanea dell'esistenza, bensì un presupposto da raggiungere attraverso l'allontanamento degli elementi conflittuali.
Se il termine "guerra" suscita immediatamente un'idea precisa, lo stesso non avviene col termine "pace". Infatti, se da un lato crediamo di assegnare al termine "pace" un significato universale, di fatto - attraverso i secoli - questo termine ha assunto, all'interno delle varie culture, significati differenti che hanno portato a concezioni diverse.
Generalizzando, si può affermare che nel corso della storia dell'umanità il concetto di "pace" ha assunto due declinazioni:
1) "pace individuale", intesa come stato di "benessere" interiore, spirituale e psicologico, raggiunto dalla persona;
2) "pace sociale/collettiva, politica", intesa come "assenza di conflitto" nella società e tra gli Stati.
Pur trattandosi della definizione più idonea, non dà tuttavia ragione della complessità che sottintende.
Se analizziamo la storia della filosofia occidentale, ci accorgiamo che esiste una "filosofia della guerra", ma non esiste una vera ed unanime "filosofia della pace".
Della guerra si ha un'idea immediata e concreta, un'idea che pur ammettendo sfumature diverse anche importanti, evoca con naturalezza un preciso stato di esistenza. Al contrario, volendo cercare e dare un significato univoco al termine pace, ci si trova di fronte all'impossibilità di formulare un concetto immediatamente definibile e, soprattutto, di indicare uno stato esistenziale immediatamente percettibile.
La guerra fa più notizia della pace, per le sue terribili ed inevitabili implicazioni, perché è stata elogiata da cantori che ne hanno esaltato la forza, la bellezza, l'eroismo, il coraggio. Nel nostro tempo, poi, la guerra ha assunto addirittura una funzione umanitaria, diventando finanche preventiva. Mentre la definizione di guerra è ricca di connotati caratterizzanti, la pace è definita soprattutto negativamente come "assenza" di guerra. In questo caso il termine più forte, è "guerra" ed indica lo stato di fatto più rilevante, mettendo in ombra l'altro termine e condizionandone il significato.
Anche se la pace è stata da sempre un "pensiero debole", essa ha in ogni modo percorso la storia dell'umanità, attraverso figure che hanno lasciato possenti tracce.
Il primo trattato di pace che la storia può documentare risale al 1285 avanti Cristo. Le due più grandi potenze del Medio Oriente, gli Egizi e gli Ittiti, erano impegnate in una lunga guerra di predominio. In seguito alla famosa battaglia di Kadesh (o più correttamente, Qades o Qadesh per gli Egizi, e Kinza per gli Ittiti), combattuta nel 1274 a.C. sulle rive del fiume Oronte vicino all'odierna valle della Beqaa, nell'attuale Siria, il sovrano ittita Hattusili III e quello degli Egizi Ramses III firmarono un trattato di pace chiamato "Patto Antico".
Nella pattuizione i due sovrani giurarono a vicenda (sia per loro sia per i diretti discendenti), "buona pace e fraternità eterna". I due sovrani s'impegnarono anche a riconoscere i territori occupati e dominati all'atto della conclusione del trattato. Entrambi, inoltre, si promettevano rispettivo aiuto sia per il mantenimento del potere in caso di rivolta interna, sia in caso di attacco assiro o comunque in caso di aggressione esterna.
Si legge nel trattato: «Il grande capo degli Hittiti non invaderà mai più il territorio dell'Egitto [.] e, da parte sua, il grande signore e dominatore dell'Egitto non invaderà mai più, a scopo di preda, il territorio degli Hittiti. Se un altro nemico attaccherà il territorio di Ramses e questi manderà a dire al grande capo degli Hittiti: "Vieni in mio aiuto contro di lui", il grande capo degli Hittiti accorrerà a sconfiggere il nemico. Ed egualmente, se un altro nemico verrà contro il grande capo degli Hittiti e questi chiederà a Ramses aiuto e rinforzi, questi verrà per sconfiggere il nemico oppure manderà la sua fanteria e i suoi carri da guerra».
La sacralità degli accordi fu suggellata anche dal richiamo alle proprie divinità. Si legge nella parte conclusiva del "Patto Antico": «Questi patti sono scritti su tavolette di argento del paese ittita e del paese di Egitto. Chi dei due contraenti non li osserverà, mille Dei del paese degli ittiti e mille Dei del paese degli egizi distruggano la casa, la terra, i sudditi. Al contrario, chi osserverà questi patti, egizio e ittita che sia, mille Dei del paese degli ittiti e mille Dei del paese degli egizi, facciano che egli viva in buona salute e con lui la sua casa, il suo paese i suoi sudditi».
Come voleva la tradizione, il trattato fu rafforzato dal matrimonio di Ramses con una figlia di Hattusili, e con una seconda figlia del re ittita qualche anno dopo.
Copie del trattato sono state ritrovate a Tebe (vicino la città di Luxor) ed a Hattusa (attuale Bogazköy situata a circa centocinquanta chilometri ad est di Ankara).
Il primo esempio storico di "guerra regolata da accordi", risale invece alla Grecia del VII secolo avanti Cristo. Le città di Calcide ed Eretria erano in guerra per ottenere il totale possesso della pianura di Lelanto. Fu questa una guerra strana, poiché nonostante l'ostilità militare, le due città non cessarono i loro rapporti di scambio, neppure durante il tempo delle battaglie. Per questo, anziché combattersi duramente, le due città fissarono alcune regole per lo scontro, regole che, incise sulla stele di Amarinto, vietavano l'uso di armi da getto.
La prima forma di lotta nonviolenta, invece, è registrata dagli storici a Roma nel 494 a.C. Nella Roma della Repubblica esisteva un enorme divario tra patrizi e plebei. Questi ultimi, pur potendo partecipare al voto, non avevano propri rappresentanti al senato perché una legge vietava loro di essere eletti. Inoltre, c'era il divieto di matrimonio tra loro e i patrizi, come anche erano esclusi dalla ripartizione delle ricchezze in caso di vittoria in una guerra. Il malcontento dei plebei sfociò in un metodo di lotta non violento: la secessione (da secédere, ossia allontanarsi, ritirarsi), ovvero l'abbandono in massa della città allo scopo di costringere i patrizi a concedere loro ciò che chiedevano.
La leggenda racconta che la prima protesta dei plebei avvenne proprio nel 494 a.C., quando fu deciso di lasciare la città, non svolgere più i compiti civili e militari e ritirarsi sul Monte Sacro (per un'altra tradizione, sull'Aventino). Questa secessione portò molte preoccupazioni fra i patrizi: per le guerre contro gli Etruschi, gli Equi e i Volsci, Roma aveva bisogno di assoldare strati sempre più larghi della popolazione, compresi i plebei. La carenza di soldati nell'esercito e la paralisi della vita sociale ad ogni protesta, costrinse i patrizi a cedere parte dei propri poteri politici ai plebei. Non solo, oltre al diritto di avere propri rappresentanti al senato (i Tribuni della plebe), i plebei riuscirono, con la loro forma di lotta nonviolenta, a far approvare la cosiddetta "Legge Canuleia", che aboliva il divieto di matrimonio fra persone facenti parte di classi diverse.
Presso quasi tutti i popoli dell'antichità è la guerra ad essere considerata lo stato abituale e pressoché permanente della storia. Tanto che nell'antica Grecia essa era ritenuta far parte dell'ordine naturale, non a caso Eraclito la definì «padre e re di tutte le cose».
Nell'antica Grecia, nonostante l'alta considerazione che si dava alla guerra, sono vissuti uomini e donne che difendevano e chiedevano la pace. Il trattamento riservato a queste persone certo non fu dei migliori, tanto che taluni pagarono amaramente le loro esortazioni alla pace. Cassandra, ad esempio, per aver suggerito al padre Priamo la pace con gli Achei fu giudicata una traditrice. Anche Aristofane, per il suo "teatro contro la guerra", fu considerato un traditore della causa ateniese, un conservatore filospartano.
Il più antico poeta greco di cui si abbia notizia, fu Esiodo (VIII secolo a.C. - VII secolo a.C.). Egli, alla guerra e allo spirito di avventura dell'epica omerica, contrappose la pace, l'onestà, la giustizia e l'amore del lavoro che procura benessere.
Una connessione fra pace e benessere si coglie anche in Omero e in Eschilo. Scrive Omero (VIII secolo a.C.) nell'Odissea, «essi tornino ad essere concordi come erano prima, siano bastevoli la ricchezza e la pace» [XXIV 486]. In Omero, tuttavia, il tema della pace ha uno spazio relativamente esiguo. Infatti, nello stesso poema la parola "pace" non compare al di fuori del passo già citato. Di rilievo è un passo dell'Iliade, dove all'interno della descrizione dello scudo di Achille, sono raffigurate una città in pace e una città in guerra [Il. XVIII 490 ss], insistendo con un certo compiacimento nella descrizione delle opere della pace.
Per Eschilo (525 a.C. - 456 a.C), invece, la guerra è legata all'idea del disastro e del lutto, per questo nei Persiani si ricorda con nostalgia il vecchio sovrano Dario, che «procurò pace a tutti gli amici».
Anche Aristofane (450 a.C. circa - 388 a.C. circa), a differenza dei suoi contemporanei, prese posizione a favore della pace. Egli, mettendo al centro delle sue commedie la crisi sociale e morale che le troppe guerre di Atene stavano generando, definì la guerra come un gigante che pesta le città greche in un mortaio, divenendo finanche padrona dell'Olimpo. Proprio nell'opera La Pace, Aristofane fa viaggiare il contadino ateniese Trigeo verso l'Olimpo per chiedere conto alle divinità della guerra che da dieci anni insanguinava la Grecia. Arrivato al cielo scopre che gli dèi, disgustati dal comportamento degli uomini, avevano lasciato da solo Ermes, il custode dell'Olimpo. Grazie all'opera di convincimento di Trigeo, Aristofane fa liberare la pace che il dio della Guerra e quello del Tumulto avevano nascosto in un antro profondo.
Nell'opera Lisistrata, invece, Aristofane immagina che le donne greche, per porre fine allo stato di guerra, si riuniscano e decidano un atto estremo: lo sciopero del sesso che alla fine piegherà gli uomini mettendo d'accordo tutti sull'irrinunciabilità di un'esigenza comune.
Anche nelle opere di Euripide (480 a.C. - 406 a.C.) ritroviamo interi passi che tendono ad esaltare la pace o a descrivere in modo cupo e tormentato gli orrori della guerra. Proprio Euripide, in un passo de Le Supplici, evidenzia quanto «per i mortali la pace è meglio della guerra: innanzitutto essa è amatissima dalle Muse e nemica alle Erinni e si rallegra per abbondanza di figli e gode di ricchezza: rifiutando tutto questo noi malvagi scateniamo le guerre e, uomini, rendiamo schiavo l'uomo, e, città, le città».
Per concludere il nostro viaggio nell'antica Grecia, non possiamo richiamare un passo particolarmente significativo di Erodoto (484 a.C. - 425 a.C.), che nelle Storie, fa rispondere Creso ad una domanda di Ciro che gli chiedeva quale follia lo aveva spinto a muovere guerra a lui, il quale era considerato molto più potente da non permettere nessuna illusione circa l'esito del conflitto: «[.] di tutto questo il colpevole fu il dio dei Greci, che mi esortò alla guerra. Nessuno è così folle da preferire la guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra invece i figli seppelliscono i padri: ma è piaciuto agli deì che così ciò avvenisse».
La presenza scomoda di questi letterati rappresenta una critica interna ai presupposti e alle pratiche della guerra che impregnavano l'ideologia della Grecia antica: la pace è vista da loro come situazione di normalità, contrapposta alla guerra, che è invece situazione in cui si ha un rovesciamento dell'ordine naturale.
In un mondo in cui la guerra era considerata una circostanza ben più normale della pace, solo un evento accordò tutti sulla necessità della pace, seppur temporanea: le Olimpiadi. Difatti, furono sottoscritti trattati che, disciplinando i rapporti tra le polis al fine del pacifico svolgimento dei Giochi olimpici, riconoscevano la Ekecheiria (ossia "alzate le mani"), la "tregua olimpica".
Nel mondo latino, presso gli antichi Romani, è esistita una grande contraddizione riguardo al problema della guerra e della pace: da un lato si aspirava a perseguire la pace, dall'altro l'imperialismo romano produsse guerre e distruzione, facendo coincidere l'idea della pace con la vittoria. In definitiva quella dei Romani fu una vera e propria "ideologia militare della pace", dove per pace era intesa unicamente la Pax romana portata nei territori assoggettati all'impero.
Particolarmente appropriata - e per certi versi molto attuale - è la descrizione dell'imperialismo romano data da Calgaco (Calgax), capo dei Britanni. Queste sono le parole che Publio Cornelio Tacito (55 - 117), fa dire a Calgaco nella Vita di Agricola del 98 d.C., nell'ultimo tentativo di questi di opporsi alla conquista di Roma: «Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla loro sete di totale devastazione, vanno a frugare anche il mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né Oriente né Occidente possono saziare; loro soli bramano possedere con pari smania ricchezze e miseria. Depredano, trucidano, rapinano e questo lo chiamano col nome falso di impero; hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace» (la seconda parte di questa frase "Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace", divenne famosa negli anni Settanta del secolo scorso durante la Guerra del Vietnam, poiché fu usata in numerosi manifesti di protesta con riferimento al comportamento delle truppe statunitensi).
Si adatta ben volentieri all'idea della pace che si aveva nell'antica Roma, e che giustificò in qualche modo secoli di guerre, la famosa massima che risale proprio al periodo romano: Si vis pacem, para bellum ("Se vuoi la pace prepara la guerra"). Questa massima è ricavata dalla frase Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum contenuta nel libro III dell'Epitoma rei militaris di Publio Flavio Vegezio Renato, opera composta alla fine del IV secolo. Essa fu poi ripresa anche da Cornelio Nepote nell'Epaminonda, con la locuzione latina Paritur pax bello, vale a dire "la pace si ottiene con la guerra". Ma se nell'idea di Vegezio l'adagio voleva significare che per evitare le guerre occorreva dimostrare di sapersi difendere, diversa fu senz'altro la prospettiva adottata da Cornelio Nepote.
Uno spirito critico dell'imperialismo romano lo ritroviamo in Virgilio (70 a.C. - 19 a.C.), che considera la guerra una violazione della religione e del diritto. Anzi, per il sommo poeta, il bellum appartiene alla sfera del nefas, qualificandola di volta in volta come horridum e cruentum. Il che giustifica perché nell'epica virgiliana tutte le duecento ricorrenze di bellum sono connotate negativamente e mai compaiono termini legati al lessico religioso e giuridico quali iustum, pium, felix. Quando poi Virgilio ci presenta la personificazione della guerra, abbiamo allora il Bellum mortiferum, annoverato significativamente tra i più terribili mali che affliggono il genere umano.
Tuttavia Virgilio era consapevole che la guerra poteva essere un'estrema necessità a cui si doveva talvolta ricorre, per questo egli insiste sull'esigenza di far constatare agli dèi, mediante rituali specifici, l'esistenza dell'ingiustizia che giustifica una guerra.
L'insegnamento del Cristo è stato all'insegna del motto "ama il prossimo tuo come te stesso". Un insegnamento, quindi, che chiaramente rinnega la violenza e spinge ad abbracciare la logica dell'amore e del perdono (per-dono) verso il prossimo. Ma i cristiani, tuttavia, hanno avuto diversi comportamenti in relazione a chi fosse il "prossimo" e secondo le varie epoche storiche.
Nei primi secoli del cristianesimo si ha notizia di obiettori di coscienza al servizio militare. Il più famoso obiettore cristiano è san Massimiliano (divenuto il santo degli obiettori di coscienza), poi vi sono san Marcello, san Maurizio, san Basilide, san Vittore.
Durante i primi tre secoli del cristianesimo, sulla scia delle lettere di san Paolo, si asserisce il dovere di resistenza passiva, la Chiesa era quindi non violenta, anzi essa fu perseguitata producendo una lunga lista di martiri. Risalgono a questo periodo gli scritti e le azioni dei primi pacifisti della Chiesa, quali Tertulliano (150 - 220 circa), Origene (185 - 254), Ippolito di Roma (170 circa - 235), Cipriano (210 - 258), Atenagora di Atene (II secolo) e Lattanzio (250-320 circa). Questi, basandosi sulla centralità dell'amore cristiano, l'agape, professavano un pacifismo radicale per cui nessuna guerra poteva essere e moralmente accettabile.
Ma quando il cristianesimo diventa religione di Stato, la teoria e la pratica cristiana sulla guerra cambia, anzi lo stesso termine "martire" acquista nuova valenza: inizialmente si è uccisi perché martiri, ora si è martiri perché si è uccisi in guerra. Non dimentichiamo che il cristianesimo diventa religione dell'Occidente proprio sotto il segno della guerra, quando l'imperatore Costantino vide nel sole qualcosa che assomigliava al segno di una croce con una scritta: In hoc signo vinces (in questo segno vincerai). Egli si convinse così che la croce, simbolo del Cristo, fosse apportatrice di vittoria sui nemici: l'imperatore dette allora istruzioni affinché quel simbolo fosse riprodotto sulle sue insegne.
La Chiesa di Roma, poi, arriverà ad elaborare la cosiddetta dottrina della "guerra giusta", a promuovere le Crociate contro l'infedele, ad assoggettare al cristianesimo "Nuovi Mondi". Tuttavia, per fortuna, voci critiche all'interno della Chiesa non sono mai mancate.
Pochi periodi storici hanno avuto un rapporto quotidiano con la guerra come il Medioevo. Essa, tuttavia, è affidata al gruppo dei "competenti della guerra", ai quali è concessa della terra (il Feudo) in cambio dell'auxilium militare, ossia la disponibilità ad accorrere in armi quando il proprio signore avesse avuto bisogno di loro. Nel Medioevo la guerra è dunque fatta da chi la vuole fare, assumendo il valore di un "aristocratico esercizio di virtù". Per questo essa è circondata da tutta una costruzione concettuale legata al diritto, alla morale e alla religione. Poche sono le voci critiche contrarie alla guerra nel Medioevo, e tutto si concentra sulle regole e sul diritto durante la guerra.
Una di queste è quella di Francesco d'Assisi (1181 o 1182 - 1226). Egli partecipa alle crociate, ma senza combattere. Anzi si reca in Terra Santa per convincere sia i crociati sia il sultano a non combattersi fra loro.
A proposito di crociate, Nikolaus Krebs o Nikolaus Kryffs (1401-1464), un cardinale tedesco conosciuto con il nome italiano di Nicola Cusano, fu una grande voce critica contro la guerra in Terra Santa, propugnando la tolleranza tra le fedi monoteiste. Egli partiva dal presupposto che l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islamismo avevano elementi in comune: entrambe avevano una concezione monoteista e un'idea della fede comune. In definitiva il cardinale Cusano affermava con coraggio che la molteplicità delle fedi equivaleva ad avere più punti di vista dello stesso Dio. A suo giudizio era assurdo dividersi e per di più combattersi. Tuttavia un'insidia si nascondeva nelle idee del cardinale: egli sperava in una conversione pacifica delle altre religioni al Cristianesimo.
Un altro esempio di uomo di pace è stato Pietro Valdo (1140 circa - 1217 circa). Egli fu il precursore dell'opposizione alla pena di morte, ma anche un grande predicatore della pace e dell'azione nonviolenta. Il gruppo che si formò dalla sua predicazione, praticava l'obiezione di coscienza vivendo in uno spirito comunitario.
Il Medioevo termina con la scoperta di un nuovo mondo, ed inizia con la guerra a quei popoli che da sempre abitarono quelle terre: la nobile responsabilità di portare il Vangelo a quei popoli che ancora l'ignoravano, di cui l'europeo si sentì investito, fu invocata come alibi per le spoliazioni e per gli eccessi d'ogni genere contro quei popoli considerati primitivi e senza governo.
Voci controcorrente si sollevarono contro la guerra agli indios e, soprattutto, contro il trattamento riservato loro dagli occidentali: si iniziò a parlare così di diritti umani uguali per tutti. Il domenicano Bartolomé de Las Casas (1484 - 1566) fu una di queste voci critiche. Rimanendo fortemente turbato dalla violenta campagna militare, per la conquista del territorio, il frate domenicano si dedicò alla difesa degli indios, predicando l'ingiusto sistema coloniale: perché quando giunsero «tra questi agnelli mansueti» gli spagnoli, arrivarono «come lupi, tigri e leoni crudelissimi e affamati da diversi giorni».
Tesi di partenza del domenicano, passata alla storia, fu che «né la gloria di Dio, né lo zelo per la fede, né il desiderio di soccorrere il prossimo, né quello di servire il re, era stato il movente della conquista, ma solo l'avidità e l'ambizione» di spregiudicati e avidi personaggi. Famoso per la sua Historia general de las Indias, egli è considerato dalla storia "protettore degli Indios".
Anche il teologo domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546) si consacrò ai diritti dei popoli aborigeni, divenendo il precursore della Carta dei diritti dell'uomo (che poi vedrà la luce nel 1789) e dello ius gentium adottato dall'Assemblea delle Nazioni Unite nella dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 (sull'argomento mi permetto di rinviare al mio, La prima Carta dei Diritti Umani nacque nel Nuovo Mondo, in Storia in Network, numero 110, dicembre 2005).
Il XVI secolo, che vede il prolungarsi dell'epoca delle cosiddette "guerre di religione", è caratterizzato da una corrente filosofica del pacifismo umanistico. Tra i maggiori esponenti ricordiamo il teologo, umanista e filosofo olandese Erasmo da Rotterdam (1466 - 1536).
Rifacendosi al messaggio cristiano il pensatore olandese ripudia la guerra perché considerata la causa di tutti i mali. Egli non esita a rimproverare finanche la Chiesa, domandandosi negli Adagia perché essa, «il cui fine nel mondo è la predicazione del Vangelo e cioè del messaggio di pace più radicale, è diventata complice, se non addirittura responsabile di guerre?».
Famoso è il suo opuscolo Querela Pacis, in cui espone il suo lamento in favore della pace. Contro la follia distruttiva della guerra, Erasmo quindi lancia la sua appassionata orazione in favore della pace, appellandosi alla ragione e al Vangelo: con la ragione si può arrivare alla pace fonte di prosperità e di buoni costumi; dal Vangelo si possono attingere i modelli che insegnano alla mitezza. Partendo dal presupposto che non esistono guerre giuste, perché i conflitti non sono altro che i mezzi con i quali i potenti perseguono i propri interessi, Erasmo arriva a lanciare il suo anatema contro tutti i cristiani bellicosi, considerandoli "falsi cristiani".
Sulla scia di Erasmo, Emeric Crucé (1590-1648), attraverso il suo scritto del 1623 Le nouveau Cynée, propone un'assemblea composta da ambasciatori di tutto il mondo che, attraverso il potere d'arbitrato nelle controversie tra gli Stati, garantisse la pace universale e il libero commercio.
Questa idea sarà poi ripresa anche dall'Abate de Saint-Pierre (Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe - 1713), da William Ladd (An Essay on a Congress of Nations - 1840) e da William Jay (War and Peace - 1842).
Nel giusnaturalismo seicentesco, invece, la questione della pace trova la collocazione all'interno della riflessione che vuole legare la guerra al diritto, renderla legale attraverso una sua regolamentazione. In questo modo tutte le nefandezze ad essa collegate sarebbero state ridotte. Portavoce di questa elaborazione è stato il giurista, filosofo e scrittore olandese Ugo Grozio (1583 - 1645).
Nel XVIII secolo si sviluppò in Europa e negli Stati Uniti la pratica crudele e meschina dello schiavismo. L'attività di rendere schiavi gli uomini attivò numerose persone che si batterono con metodi nonviolenti per la sua abolizione.
Il pacifista John Woolman (1720-1772) è un riferimento significativo alla lotta nonviolenta per l'abolizione della schiavitù, ma anche un grande predicatore della nonviolenza, non scendendo a nessun compromesso sul tema della pace. Egli fu anche il promotore, assieme ad altri suoi amici, della "disobbedienza fiscale", in pratica si rifiutò di pagare le tasse che avrebbero poi finanziato le guerre contro i nativi americani e contro i francesi. Tra i suoi lavori ricordiamo "Il Giornale", "Alcune considerazioni sulla condizione dei neri", "Un appello per i poveri".
Esplicitamente pacifista fu anche il movimento avviato da Montesquieu (1689 - 1755), Voltaire (1694 - 1778), Rousseau (1712 - 1778), Diderot (1713 - 1784), d'Alembert (1717 -1783), ed altri, noto col nome di Illuminismo. Anzi, la nascita del pacifismo moderno si fa risalire proprio al periodo illuministico. Infatti, la vigorosa predicazione illuminista di una cultura per i diritti umani fu affiancata da un altrettanto energica cultura della pace.
La visione della guerra che gli Illuministi avevano della guerra si collega direttamente al dispotismo, al mancato progresso del commercio, all'ignoranza dei secoli bui del Medioevo, alla mancanza di cultura. Rousseau, autore tra l'altro del Giudizio sul progetto di pace perpetua, scriveva a proposito della guerra: «Vedo popoli disgraziati gemere sotto un giogo di ferro, il genere umano schiacciato da un pugno di oppressori, una moltitudine di affamati, oppressa dal dolore e dalla fame, della quale il ricco beve in pace le lacrime e il sangue, e dovunque il forte armato del terribile potere delle leggi contro il debole».
Più crudo è il filosofo francese François-Marie Arouet, meglio conosciuto con il pseudonimo di Voltaire. Egli presenta la guerra come un contenitore di altri mali e, soprattutto, come frutto della volontà dell'uomo. In primo luogo la guerra è per Voltaire un «flagello inevitabile», un «ingrediente», assieme alla peste e alla carestia, «di questo basso mondo». Essa deriva in particolare dalla «immaginazione di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi e ministri [...] Queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre, non solamente senza aver alcun interesse al processo, ma senza sapere neanche di cosa si tratta. [...] tutte d'accordo in un sol punto: quello di fare tutto il male possibile». La guerra è dunque per il filosofo francese «eroica macelleria», «un'impresa infernale» condotta da uno Stato contro un altro Stato, dall'uomo contro l'uomo.
Molti ritengono l'abate Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre (1658-1743), il precursore della teoria pacifista moderna. Egli, intorno al 1713, in occasione del congresso di Utrecht, elaborò un progetto di trattato per cercare di raggiungere una "pace perpetua" nel turbolento mondo cristiano. L'abate proponeva di creare nell'ambito della Cristianità una "Lega Permanente delle Nazioni" che avesse non solo l'autorità di regolare le controversie tra gli Stati, in modo che non diventassero armati, ma avesse anche l'autorità per coordinare la politica economica internazionale.
Per concludere la visione che il "Secolo dei Lumi" diede al problema della pace, non si può riferire che, tuttavia, l'Illuminismo, pur condannando ogni guerra offensiva, lasciava aperta la legittimità solo alle guerre difensive. Per questo motivo l'Assemblea Costituente Francese inserì nella Costituzione il seguente principio: «La Nazione Francese rinuncia ad intraprendere qualsiasi guerra che abbia come mira la conquista, e non userà mai le sue forze contro la libertà di nessun popolo». Purtroppo, nella pratica, anche la "nuova Nazione francese" si adeguò ad una politica armata, dichiarando il 20 aprile 1792 guerra all'imperatore d'Austria.
Partendo dal presupposto che la guerra «è il male peggiore che affligge la società umana ed è fonte di ogni male e di ogni corruzione morale», Immanuel Kant (1724 - 1804) cercò in qualche modo di creare le premesse che avrebbero potuto portare alla "pace perpetua".
Il filosofo tedesco afferma che l'uomo, senza ricorrere ad altro fondamento se non alla propria ragione, può muoversi nel contesto dei punti di riferimento (valori) cui ancorare la propria volontà di azione. La pace è considerata da Kant tra i valori più importanti.
Nel suo saggio Per la Pace Perpetua, Kant elabora una teoria per articolare i diversi elementi del problema della pace, proponendo il modo per evitare la guerra e avviarla alla sospensione definitiva. Egli afferma che gli esseri umani non sono veramente tali se ammettono anche solo teoricamente la guerra come risoluzione di contrasti; la vera pace si realizzerà solo quando sarà impossibile fare la guerra, ovvero quando gli Stati si organizzeranno giuridicamente per impedirla. Il perfezionamento morale dell'uomo passa quindi attraverso l'espulsione della guerra dalla storia, in altre parole può emergere solo quando vi è il tentativo di conciliare politica e moralità. Ovviamente, per Kant, se l'umanità riuscirà ad espellere la guerra dai rapporti personali, considerando l'altro come fine e non come mezzo, riuscirà ad eliminarla anche da quelli internazionali.
Anche nell'Ottocento non mancano pensatori che ripudiano la guerra, specie nel nuovo campo delle scienze sociali e del pensiero positivista. Tra questi Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint Simon (1760-1825), Isidore Marie Auguste François Xavier Comte (1798-1857), Herbert Spencer (1820-1903).
Sain-Simon, teorico della "filosofia positiva" e di un approccio scientifico ai problemi sociali e politici, auspicò l'avvento di una nuova società orientata a migliorare le condizioni del proletariato e indirizzata alla realizzazione del messaggio evangelico di pace.
Il filosofo e sociologo francese Comte, invece, criticando la società del suo tempo, ritenuta teologica e militare, prevedeva la nascita di una nuova società basata sul lavoro e sullo studio del sociale, dove al posto della casta militare si sarebbe sostituita una di industriali e capitalisti, mentre la parte intellettuale sarebbe dovuta essere monopolio dei sociologi.
Il filosofo britannico Herbert Spencer, invece, sulla base della denuncia dei diritti dell'uomo, azzardò finanche un'ipotesi su un'integrale riconciliazione dell'uomo verso se stesso, verso gli altri e verso il proprio ambiente.
Le prime "Società per la Pace" nacquero nell'Ottocento. I primi furono gli Stati Uniti, nel 1815 e nel 1828, con associazioni che si ispirarono alla "Società Americana per la Pace" dal quacchero William Penn (1644-1718). Penn, che fu il fondatore della Pennsylvania, divenne celebre per i famosi Great Treaty del 1683 e del 1701, in cui si consideravano gli Indiani d'America al pari dei cittadini americani, stabilendo collaborazione e rispetto reciproci.
In Europa la prima società pacifista fu fondata dal conte Jean-Jacques de Sellon (1782-1839) nel 1830. Sul vecchio continente, grazie ad autorevoli voci, il movimento pacifista si ampliò, arrivando a celebrare il primo congresso internazionale della pace il 22 giugno 1843 a Londra (seguiranno i congressi di Bruxelles nel 1848 e quello di Parigi nel 1849).
Grazie a questi congressi, nel 1891 si formò a Berna il Bureau International Permanent de la Paix, che mise radici in Italia grazie ad Ernesto Teodoro Moneta (1833 - 1918), Premio Nobel della Pace nel 1907.
Nel corso dell'Ottocento in Europa si costituirono altre società pacifiste e dal 1848 si diffuse in molti paesi la "Lega per la Fraternità Universale" creata in quello stesso secolo da Elihu Burritt (1810-1879), personaggio che seppe battersi pacificamente contemporaneamente contro la schiavitù, la dignità dei lavoratori e contro la guerra. Anche lo scrittore e filosofo Henry David Thoreau (1817-1862) si adoperò contro la guerra e in favore dell'abolizione della schiavitù e del riconoscimento dei diritti civili uguali per tutti, teorizzando - nel suo saggio Disobbedienza civile - la resistenza passiva contro le leggi e l'obiezione di coscienza.
In generale nell'Ottocento e agli inizi del Novecento si sono sviluppate una serie di correnti all'interno del pacifismo. Studiamole brevemente.
La corrente del pacifismo laico si collegava alle teorie economiche liberali che volevano la riduzione delle spese militari e la promozione del libero commercio.
Il pacifismo liberademocratico e repubblicano, invece, chiedeva il passaggio dal dispotismo al libero esercizio della sovranità del popolo. In questo modo il popolo avrebbe limitato la volontà dei sovrani di fare la guerra.
Anche le Logge massoniche costituitesi in Europa aspiravano alla pace, aspirando alla creazione di una "Società delle Nazioni" che avrebbe in qualche modo limitato l'uso della guerra nelle controversie internazionali.
I socialisti, invece, auspicavano il superamento del capitalismo, poiché - come fu detto al Congresso di Stoccarda del 1907 - «le guerre sono la conseguenza della concorrenza degli Stati capitalistici, ne consegue che cesseranno solo con il venir meno del capitalismo». Il pacifismo socialista, tuttavia, ammetteva l'uso della forza nelle mobilitazioni sociali.
Il pacifismo non violento, che poi vedrà il suo massimo rappresentante in Gandhi, chiedeva la riorganizzazione egualitaria della vita sociale come strumento di cambiamento.
Anche i movimenti per i diritti delle donne, oltre a chiedere i loro sacrosanti diritti, accoglievano l'opzione della pace e del disarmo degli Stati. Tra le figure più famose ricordiamo le americane Lucretia Coffin Mott (1793-1880), Julia Ward Howe (1819-1910) e Jane Addams (1860-1935); l'inglese Florence Nightingale (1823-1910), ispiratrice di Henri Dunant, fondatore della Croce Rossa; l'austriaca Bertha von Suttner (1843-1914).
L'Ottocento si concluse con la creazione dell'International Peace Bureau (1891), organizzazione internazionale attualmente attiva sulle questioni della pace e del disarmo (la costituzione fu il risultato di consultazioni all'Universal Peace Congresses, un luogo di raccordo in cui annualmente s'incontravano le varie "Società per la pace" europee e statunitensi), e il riconoscimento di alcune convenzioni, approvate alla Conferenza Internazionale dell'Aja del 1899, sul regolamento pacifico dei conflitti internazionali e sui limiti della violenza bellica.
Il nuovo secolo, invece, iniziò con un progetto, presentato alla Conferenza Internazionale dell'Aja del 1907, sulla creazione di una Corte Internazionale di Giustizia.
Il Novecento, tuttavia, è stato il secolo delle guerre più terribili della storia: due guerre mondiali e una rimasta più o meno allo "stato freddo" in Europa, ma combattuta altrove. Ciò nonostante, il Novecento segna alcune tappe fondamentali riguardo il tema della pace. Il Preambolo dello Statuto dell'ONU è un chiarissimo invito affinché il diritto internazionale e la volontà dei popoli si fondino su un imperativo di pace: «Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, [...] a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e alle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà, e per tali fini a praticare la tolleranza ed a vivere in pace l'uno con l'altro in rapporti di buon vicinato, ad unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ad assicurare, mediante l'accettazione di principi e l'istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell'interesse comune, ad impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli, abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini. Di conseguenza, i nostri rispettivi Governi, per mezzo dei loro rappresentanti riuniti nella città di San Francisco e muniti di pieni poteri riconosciuti in buona e debita forma, hanno concordato il presente Statuto delle Nazioni Unite ed istituiscono con ciò un'organizzazione internazionale che sarà denominata le Nazioni Unite».
Va sottolineato tuttavia che l'ONU, pur prescrivendo il divieto alla guerra, non proibisce l'uso della forza nelle azioni internazionali di polizia a carattere umanitario. Nell'uso della forza, però, non è compresa la cosiddetta "guerra preventiva".
Un'altra tappa fondamentale per la "conquista della pace" è stata la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea Generale dell'ONU. Tale dichiarazione fu la base di partenza della fondazione di Amnesty International.
L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 12 novembre 1984 durante la 57ma Seduta plenaria, ha anche approvato la Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace. In essa si sottolinea che «per garantire l'esercizio del diritto dei popoli alla pace, è indispensabile che la politica degli Stati tenda all'eliminazione delle minacce di guerra, soprattutto di quella nucleare, all'abbandono del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali e alla composizione pacifica delle controversie internazionali sulla base dello Statuto delle Nazioni Unite».
La fondazione nel 1998 del Tribunale Penale Internazionale, organismo giurisdizionale competente a giudicare i responsabili di genocidio, di crimini contro l'umanità e di crimini di guerra, ha rafforzato la tutela dei diritti umani e il divieto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Purtroppo tutte queste disposizioni sono state disattese dagli Stati, e, all'interno dell'ONU, resta tutt'oggi quel "mostro giuridico" che si chiama "veto" praticato dai cinque membri permanenti dal Consiglio di Sicurezza.
Il Novecento ha visto mobilitarsi per la pace intellettuali, politici e artisti. Tra questi mi vengono a mente, ma i nomi che si possono fare sono per fortuna molti, Bertrand Arthur William Russell (1872-1970), Albert Einstein (1879-1955), Jacques Maritain (1882-1973), Norman Mattoon Thomas (1884-1968), Josef Metzger (1887-1944), Carl Von Ossietzky (1889-1938), don Primo Mazzolari (1890-1959), Dorothy Day (1897-1980), Aldo Capitini (1899-1968), Linus Pauling (1901-1994), Raoul Follereau (1903-1977), dom Helder Camara (1909-1999), don Lorenzo Milani (1923-1967), Johan Galtung (1930), Erich Fromm (1900 -1980), Hans Jonas (1903-1993), Norberto Bobbio (1909-2004).
C'è stato anche chi ha cantato la pace condannando la guerra, come Joan Baez, Bob Dylan, Donovan, Crosby, Stills & Nash, John Lennon, I Nomadi, Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini.
L'esperienze del Mahatma Gandhi in India, di Martin Luther King negli Stati Uniti e di Nelson Mandela in Sudafrica, invece, hanno segnato tappe fondamentali nella storia delle "rivoluzioni nonviolente" per la trasformazione sociale.
Mi preme ricordare anche l'instancabile opera di due "ingegneri della pace": Giovanni XXIII (al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, nato nel 1881 e pontefice dal 1958 al 1963) e Giovanni Paolo II (al secolo Karol Józef Wojtyla, nato nel 1920, pontefice dal 1978 al 2005). I due pontefici, in un mondo dominato dalla Guerra Fredda e diviso tra capitalismo e socialismo, hanno saputo levare la loro voce per richiamare il fondamentale valore della pace.
Il primo ha lasciato il suo testamento di pace nell'enciclica Pacem in terris, capolavoro della sua "ingegneria di pace". In questa enciclica, pubblicata l'11 aprile 1963, Giovanni XXIII descrive la pace non come assenza di guerra, ma come "giustizia di Dio" da realizzarsi su questa terra con l'aiuto di tutti gli "uomini di buona volontà" (sull'argomento mi permetto di rinviare al mio "Pacem in terris: per sfuggire alla Terza guerra mondiale", in Storia in Network, numero 105, luglio-agosto 2005, http://www.storiain.net/artic/artic5.asp).
Giovanni Paolo II, invece, accanto alla severa autocritica di alcuni comportamenti della Chiesa (famosi restano i mea culpa "gridati" in occasione del Giubileo del 2000), è stato un grande pedagoga della pace, elaborando anche nuovi principi etici in merito all'"ingerenza umanitaria" (sull'argomento mi permetto di rinviare al mio "Papa Wojtyla e la sua "Guerra" evangelica contro le guerre", in Storia in Network, numero 102, aprile 2005, http://www.storiain.net/artic/artic5.asp).
La pace viene tutt'ora rappresentata da due emblemi che hanno caratterizzato le contestazioni del nostro tempo: il simbolo tondo di "Peace & Love" e la "Bandiera arcobaleno".
Il primo simbolo nacque nel 1958 come logo della Campaign for Nuclear Disarmament, un'organizzazione pacifista fondata, fra gli altri, da Bertrand Russell. Il simbolo, disegnato da Gerald Holtom, rappresenta un cerchio (il mondo) al cui interno sono raffigurate le lettere N (Nuclear) e D (Disarmament) così come sono raffigurate dai marinai nelle trasmissioni a distanza con le bandierine.
Anche il secondo simbolo, la Bandiera arcobaleno, nasce nelle campagne che riguardavano la contestazione nucleare. Molto probabilmente nasce in Inghilterra nel 1958, durante una manifestazione pacifista guidata tra gli altri da Bertrand Russel. Inizialmente la bandiera aveva delle strisce colorate con al centro, al posto della scritta "Pace", la colomba bianca opera di Pablo Picasso. Molto probabilmente i colori dell'arcobaleno utilizzati nella bandiera sono stati anche scelti come segno della "convivialità delle differenze". Va inoltre ricordato che questi colori, solo cinque, appaiono anche nella "Bandiera delle Razze" (Flag of Race), dell'associazione per i diritti civili fondata dal leader democratico nero, reverendo Jesse Jackson.
In italia la bandiera fu utilizzata per la prima volta da Aldo Capitini nella marcia della pace del 24 settembre 1961.
A partire dal settembre 2002 la bandiera della Pace è stata oggetto della campagna "Pace da tutti i balconi" che ha portato centinaia di migliaia di persone in Italia ad esporre la bandiera dal davanzale o dal balcone di casa per dire un secco "no" al concetto di guerra preventiva e alla guerra in Iraq.
Con i venti di guerra che spirano sul nostro pianeta, non si può non concludere affermando che la pace è molto più che il risultato di trattati tra governi o di accordi tra potenti. Essa deve essere intesa come valore universalmente riconosciuto e voluto, come accettazione delle differenze, come educazione alla complessità, come ricerca della relazionalità dei rapporti interpersonali e interstatuali.
Pace, dunque, come dominio della giustizia in assenza di violenza (violenza, sia quella visibile sia quella subdola e indiretta), ma anche come valore universale di rispetto per la vita, la libertà, la solidarietà, la tolleranza, i diritti umani e l'uguaglianza tra uomo e donna.
Non è quindi la forma di governo che garantisce la pace, né tanto meno un insieme di trattati o accordi internazionali. Essa è garantita solo ed esclusivamente dal comportamento e dalle scelte degli individui.
Gandhi, a questo proposito, affermava che: «Non vi è una Strada alla Pace, la Pace è la Strada» per significare che solo "vivendo la Pace" è possibile camminare sulla sua Strada, nella sua verità.
Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia, di von Suttner B. - Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1989
Vincere la guerra, Principi e metodi dell'intervento civile, di Muller J. M. - Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999
Historia de la Paz. Tiempos, espacios y actores, a cura di Muñoz F. A. e Lòpez Martìnez M., Instituto de la Paz y los Conflictos, - Editorial Universidad de Granada, Granata, 2000
La bandiera arcobaleno tra storia e leggenda, di Desiderato G., in AA.VV., Bandiere di pace, - Chimienti Editore, Taranto, 2003
Un movimento per la pace. Per una storia del pacifismo, di Gagliardi R. - Edizioni Alegre, Roma, 2003
Storia della pace. Idee, movimenti, battaglie, istituzioni, di Moro R. - Il Mulino, Bologna, 2004
Guerra e pace nel 20° secolo, di Lepre A. - Il Mulino, Bologna, 2005
Come si dice "pace" nel mondo http://win.storiain.net/arret/num138/appendice.asp
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