Intervista a Riccardo Orioles sulla riluttanza a uccidere in guerra

Soldati che non sparano

Gli studi del generale Samuel Lyman Atwood Marshall hanno evidenziato come molti soldati, anche in condizioni di addestramento e disciplina ferrea, manifestino una forte resistenza all'atto di uccidere. Perché?
11 settembre 2024
Redazione PeaceLink

Soldati che non sparano

Un'intervista a Riccardo Orioles sulla riluttanza a uccidere in guerra Il fucile spezzato, simbolo antimilitarista

Il fenomeno dei soldati che rifiutano di sparare, anche in situazioni di combattimento attivo, è un tema che preoccupa gli strateghi militari. Sta emergendo dopo alcune inchieste giornalistiche sulla guerra in Ucraina. Negli ultimi mesi, in particolare, i resoconti dalla linea del fronte ucraino hanno riportato numerosi casi di nuove reclute che sembrano manifestare una forte riluttanza a ingaggiare il nemico.

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S.L.A. “Slam” Marshall fu un veterano della Prima guerra mondiale e uno storico delle operazioni durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1947 fece sussultare il mondo militare e civile quando dichiarò che, in una compagnia di fanteria media, non più di un soldato su quattro sparava effettivamente le proprie munizioni mentre entrava in contatto con il nemico. Le sue considerazioni si basavano su interviste condotte immediatamente dopo i combattimenti durante il secondo conflitto mondiale, sia in Europa che nelle zone di guerra del Pacifico. Per rimediare a questo squilibrio, Marshall propose di attuare delle modifiche all’addestramento di fanteria per garantire che i soldati americani nelle guerre future riuscissero a fare fuoco sul nemico con maggior successo. I suoi studi condotti durante la guerra di Corea dimostrarono che gli spari furono più che raddoppiati rispetto alla Seconda guerra mondiale.

Fonte

Per comprendere meglio questo comportamento, abbiamo intervistato il giornalista Riccardo Orioles sugli studi del generale Samuel Lyman Atwood Marshall.

D - Gli studi di Marshall hanno evidenziato come molti soldati, anche in condizioni di addestramento e disciplina ferrea, manifestino una forte resistenza all'atto di uccidere. Che ne pensi?

R - E' molto citato negli studi militari moderni. Marshall, americano, considerava importante la formazione sostanzialmente cristiana dei cittadini. Altri, successivamente, hanno messo l'accento su una difficoltà fisiologica a infliggere la morte ad altri; qualcuno ha citato una generale difficoltà dell'essere umano a concepire un qualsiasi rapporto con la morte comunque intesa. In ogni caso, le conclusioni di Marshall sono generalmente accettate.

D - Il passaggio da un esercito di leva a un esercito di professionisti ha influenzato questo fenomeno? Il libro del generale Marshall: "Men Against Fire: The Problem of Battle Command"

R - Il passaggio dall'esercito di massa a quello di mestiere non ha tuttavia a che vedere con gli studi di Marshall ma, nelle varie fasi storiche in cui si verifica, a considerazioni di efficienza tecnica e più ancora di opportunità politico-sociale.

D - Nel corso della storia, sono stati adottati diversi metodi per superare questa riluttanza innata. Quali sono stati i più comuni?

R - L’avversione istintiva alla morte di un altro essere umano in guerra è stata un grosso problema. A questo tabù si è cercato di ovviare o con mezzi chimici - dalla benzedrina al Pervitin - o con un addestramento specificamente mirato - quello descritto da Kubrik, talvolta citato in modo semiserio dalla pubblicità dell'US Marine Corps - alla loro rimozione. Già prima delle droghe "militari", tuttavia, si ricorreva a larghe distribuzioni di superalcolici: rum, grappa, vodka, cognac, secondo i vari eserciti. O anche semplicemente di vino. Quest'ultimo, secondo Hanson, era già in uso nelle battaglie oplitiche. 




Note: Intervista a cura di Alessandro Marescotti

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