Cristiani nella società italiana (conferenza 7-9-04)

Umberto Vivarelli, prete anarchico, uomo di Vangelo

Ricordando un prete dei poveri si tratta di cristiani, libertà, modernismo, Vangelo, e si pongono alcune questioni
11 agosto 2004

St Jacques (AQosta), Baita Albese, 9 agosto 2004
Umberto Vivarelli, prete anarchico, uomo di Vangelo
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Libri di Umberto Vivarelli consultati:
La difficile fede cristiana, La Locusta, Vicenza 1964. DFC
La cattedra dei poveri, Ed. Cens, Liscate-Milano 1984. CDP
La strada della Croce, Ed. Cens, Liscate-Milano 1984. SDC

1 - Questa conversazione nel ricordo di Umberto Vivarelli (1919-1994) non è una biografia, naturalmente, neppure un monumento immobile e muto, non è un panegirico – ché Umberto verrebbe a tapparmi la bocca, senza tanti complimenti – ma un tentativo – che faccio sotto la mia responsabilità, per come ho saputo conoscerlo - di dare una possibile (e ovviamente tutta discutibile) interpretazione della sua esperienza, forse utile a vederne il significato per noi oggi.

2 – Se dico prete anarchico – è meglio chiarirlo – non uso anarchico nel senso ingiusto di violento, asociale, autarchico, ma col significato di “non-dipendente”.
“Gerarchia”, struttura tipica della chiesa cattolica, significa letteralmente: potere sacerdotale. La parola è venuta a significare un ordine a più gradi rigidamente subordinati, una struttura con valore sacrale. Giovanni Gentile scrisse che il regime fascista prendeva a modello dell’ordine politico-sociale la gerarchia cattolica.
Uno storico cattolico scrive che, nel medioevo, dopo la lotta per le investiture e la riforma di Gregorio VII (1073-1085), «solo il papa poteva confrontarsi con la verità; tutti i credenti, vescovi compresi, dovevano confrontarsi con l’autorità (…). D’ora innanzi, il problema che si pone ai credenti non è più di vivere secondo la verità, bensì secondo l’autorità» (Giorgio Cracco, Il medioevo, SEI, Torino 1984, p. 151).
Umberto diceva: «Abbiamo un solo Signore, quindi nessun altro signore». Quando era incardinato nella diocesi di Comacchio si rallegrava che il suo vescovo fosse così lontano…
E ancora diceva: «Io sono papa di me stesso». Non vi scandalizzate. In una scena di Resurrezione, di Tolstoj, chiedono ad uno strano tipo di anarchico, deportato in Siberia: «E lo zar, lo riconosci?». Risponde il vecchio: «Lui è zar per conto suo, e io sono zar per conto mio» (citato in Pier Cesare Bori, Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, p. 205).
Umberto Vivarelli era forse senza chiesa? No, assolutamente. Ma aveva ascoltato la parola: «Non vi chiamo più servi (…) ma amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Giovanni 15, 12-15; citato in CDP, 108). E aveva scritto: «Né padrone né servo: ecco la vocazione del povero» (CDP, 48); Dio «non vuole tra gli uomini nessun padrone e nessuno schiavo» (CDP, 102).
Non era senza maestri, senza guide autorevoli: Mazzolari, certamente, la sua guida prossima; soprattutto il Vangelo, la Parola evangelica, la sua guida continua; e i poveri, il magistero degli ultimi (“cattedra” dei poveri), quelli che hanno più sapienza che cultura (CDP, 44, 49,69), oppure la cultura che ci manca: per impararla ci occorre «scendere da cavallo», mi disse più di una volta alludendo al primo gesto del Samaritano, oppure alla caduta di san Paolo, toccato da una luce.
Ecco quello che Umberto non era: non era un prete funzionario, etero-diretto, esecutore, conforme e in uniforme (1). Nel finale del quarto Vangelo, a Pietro che lo interroga sul misterioso futuro di Giovanni, diverso dal suo, Gesù risponde: «Che te ne importa? Tu seguimi» (Giovanni 21, 18-23). Padre Calati, grande spirito, sottolineava con gioia e allegria questa risposta di Gesù a Pietro, che deve rispettare la differenza che non comprende. Se la chiesa poggia su Pietro, Giovanni posa il capo sul petto di Gesù (2).
Ma una gerarchia, un ordine c’è, nella chiesa, per Umberto: «I poveri dovrebbero avere piena cittadinanza, almeno al pari di altri – scribi, dottori, presbiteri – se ancora non siamo riusciti a dare loro il primo posto poiché, per diritto evangelico, la gerarchia mondana è capovolta e “gli ultimi saranno i pirmi”» (CDP 68-69). C’è una gerarchia, capovolta per diritto evangelico. Tonino Bello parlava di “ultimato” nella chiesa, opposto al “primato”.

3 – La sua anarchia era l’altra faccia della positiva libertà. «Abbiamo un solo Signore, quindi siamo liberi da tutti». L’uomo è libertà, la libertà è «radice prima e ultima dell’uomo» (CDP 39). Il potere vero e giusto è la libertà personale (CDP 96).
Corollario di questo pensiero è che il giusto potere non è il “potere su” altri (come immediatamente viene intesa la parola potere), ma il “potere di”, il “potere per”, cioè quella “possibilità” di vivere e sviluppare la vita che il potere ingiusto toglie agli impoveriti. Il potere giusto non è divisibile, non è esclusivo: o è di tutti (la “onnicrazia” di Aldo Capitini), o è potere ingiusto perché di alcuni a scapito di altri. Questo pensiero è l’opposto del detto gerarchico di Mussolini: «O sei un capo, o hai un capo». Se la regola è «o si domina o si è dominati», siamo condannati ad essere disumani, senza relazione paritaria.
Per Umberto non si deve avere paura della libertà, e quindi non si deve venderla e prostituirla ai padroni e dominatori della storia (CDP 120). E neppure, aggiungerei, si deve chiedere in elemosina o graziosa concessione: la libertà si esercita, pagandone il prezzo. Chi paga il prezzo più alto, afferma e ottiene la libertà per sé e per gli altri: penso alla Resistenza al nazifascismo. Chi riceve la libertà in eredità da chi l’ha affermata per tutti, non deve aver paura di difenderla e svilupparla esercitandola.
Ma c’è una cattiva libertà, una «idolatria della libertà»: io sono il mio dio; sono padrone assoluto del mio destino. È una libertà «che pone la speranza nelle sue sole forze e fa della storia la scena e la palestra delle imprese gloriose» (CDP 119). È la libertà delle «libere volpi fra libere galline» (Fidel Castro, con parole riprese tante volte da Luigi Bettazzi).
C’è una contraffazione della libertà, una «dittatura della libertà», la quale «non conosce che una giustizia: distruggere, annientare, uccidere chiunque è o può diventare il nemico» (ivi). E qui Vivarelli denuncia, nel 1984, «la complicità diretta e organizzata degli Stati Uniti, che attraverso la Cia sono strumento di presenza, invadenza, dominio delle società multinazionali» (ivi). Si tratta di una libertà-dominio, come scelta politica, che «diviene arma di terrorismo», così che tutti devono convincersi «di essere continuamente esposti al capriccio delle polizie e degli squadroni della morte» (allude specialmente all’America Latina, nel 1984).
E questo avviene nella «civiltà libera e cristiana» (ivi). In essa le chiese sono chiamate a rispondere: in chi credono? In chi sperano? Chi amano? E questa «forse è l’ultima occasione di questa maledetta (sic) civiltà cristiana, perché il sale possa riprendere sapore e non sia gettato via per essere calpestato» (CDP 88).
Oggi quando si dice libertà, e lo si scrive sui manifesti politici, il significato dominante è libertà dagli altri, la libertà violenta di espandersi a danno dei diritti altrui, la libertà dalle leggi che antepongono la soluzione del problema di tutti rispetto alla soluzione privata, leggi che vengono chiamate “lacci e lacciuoli”. La parola libertà suona anzitutto scissa e opposta all’idea di giustizia, idea vilipesa come una riduzione e un’offesa alla libertà. Ma, tra le molte cose che si possono dire sul rapporto, che è anche reciproco, tra giustizia e libertà, vale ciò che ricorda Gustavo Zagrebelsky: si può, si deve talora, rinunciare poco o tanto alla libertà esteriore per la giustizia; non si può mai rinunciare alla giustizia per la libertà (G. Zagrebelsky e C. M. Martini, La domanda di giustizia, Einaudi 2003, p. 14).
La libertà non contraffatta, non di dominio, non «arma di terrorismo», è la «libertà dei figli di Dio», espressione evangelica ricorrente in Umberto. Mi pare che significhi:
1) Dio, la sua luce di verità e di vita, rende liberi, non-dipendenti da maestri o padroni. Un primo articolo della “costituzione” (per così dire…) che Gesù dà alla chiesa, dice: «Tra voi non sia così», non sia come «i re e i capi delle nazioni [che] le signoreggiano, e quelli che fanno sentire il potere su di esse sono anche chiamati benefattori» (Luca, 22, 25 e paralleli). «Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Corinti, 3, 17).
2) questa libertà data da Dio, è ricevuta per vivere nel servizio reciproco costruttivo, che è imitazione della libera creatività e inventività costruttiva del Padre;
3) è libertà di tutti i suoi figli, da far fiorire in forme comunitarie paritarie e in pratiche di fraternità. Nessuno può sentirsi superiore ad altri, come il fariseo dritto in prima fila. Siamo tutti peccatori perdonati, come il pubblicano in fondo al tempio (Luca 18, 9-14). Nessuno sa far tutto e tutti sappiamo fare qualcosa, e dunque tutti hanno il diritto di esprimere e dare alla comunità il loro libero spontaneo contributo.

4 – Quale tipo di prete e di cristiano vediamo nella persona e nella testimonianza di Umberto Vivarelli?
Non ho trovato negli scritti consultati la parola “sacerdote”, ma sempre “prete”. Nei diari letti qui da Francesco Geremia, stesi in anni precedenti, Umberto Vivarelli usa le parole “sacerdote” e “sacerdozio”. Togliatti, nella politica della “mano tesa” ai cattolici, aveva disposto che l’Unità non scrivesse mai “prete”, che allora suonava spregiativo, ma sempre “sacerdote”. Il Nuovo Testamento non è d’accordo con Togliatti, e neppure col linguaggio cattolico precedente il Concilio (tornato in auge dopo), perché non nomina mai con termini sacrali i ministeri ecclesiali (3). Umberto Vivarelli mi pare che debba essere visto inserito in una linea storica di preti e di laici che – i primi senza polemiche, senza rotture, senza ritirarsi dal ministero (allora scandaloso, non come oggi), e spesso con intensa vita spirituale e forte coscienza pastorale – vedevano l’unità fraterna dei cristiani (ma, ancor più, di tutti gli esseri umani) togliendo importanza alle differenze giuridiche canoniche sacralizzate. Per costoro, i diversi ruoli sono comprensibili in via pratica per le esigenze funzionali della comunità, ma, appunto, sono differenze funzionali, che svaniscono totalmente se si guarda al rapporto profondo di ognuno con Dio e con gli altri. A questo livello, vale la gerarchia della carità (Pietro e Giovanni) e il primato dei poveri. Ciò non era rifiuto della chiesa nella sua realtà storica, ma sano e meditato ridimensionamento di quel giuridicismo sacralizzato che infatti il Concilio ha tentato di correggere, ispirandosi alle fonti più genuine, ma che al Concilio ha resistito duramente, come vediamo.

5 - Quella linea storica di cristiani, preti e laici, è, se non sbaglio, risalente al grande movimento del modernismo, represso poliziescamente da Pio X, ma proseguito come fiume carsico, emerso serenamente nel Concilio di 40 anni fa. Attraverso Mazzolari, Umberto Vivarelli, come altri della sua generazione, attingeva a radici antiche e vive. Altri saprebbero illustrare meglio di me questi legami e legati spirituali e i loro contenuti. Maurilio Guasco è uno degli storici che hanno lavorato e lavoreranno su questa storia della spiritualità in Italia (a cura sua e di Rasello è uscito Mazzolari e la spiritualità del clero diocesano, Morcelliana).
Un mantello di Elia è passato sulle spalle di vari Elisei. Qui a St. Jacques c’è Michele Do, che, tramite sorella Maria dell’eremo di Campello - della quale possiede preziosa viva memoria e documenti, che prima o poi vorrà mettere a disposizione degli storici – riceveva, coltivava e ritrasmetteva a tanti, in dialogo fervente, lo spirito e la passione di Ernesto Buonaiuti, oltre che, per altre vie, l’eredità spirituale di Mazzolari, di padre Acchiappati, e di vari altri spiriti vivi.
Primo Mazzolari (1890-1959) è il maggiore ispiratore dell’ultima generazione, alla quale Vivarelli appartiene. Formatosi nel seminario del vescovo di Cremona, dal 1871 al 1914, Geremia Bonomelli, Mazzolari respirò di quel vescovo lo spirito liberale, la fiducia nella democrazia (in Mazzolari fiducia più critica, in Bonomelli più ingenua), respirò la libertà di coscienza e di parola, l’impegno per la “povera gente” (per Bonomelli erano gli emigranti). Quando feci la tesi in giurisprudenza, storia del diritto, sui rapporti tra Stato e Chiesa, studiai l’opera di questo vescovo Bonomelli, conciliatorista, autore di proposte di soluzione della questione romana molto più evangeliche di quella adottata col Tratttato del 1929, che ha fatto del Vaticano uno stato. Parlai allora di Bonomelli con padre Bevilacqua, prete dell’Oratorio di Brescia (altra bella figura di questo filone spirituale; di lui ho pubblicato un gustosissimo aneddoto su il foglio n. 280, aprile 2001). Bevilacqua mi raccontò che a lui giovane il vecchio Bonomelli diceva: «Mi raccomando: predica Gesù Cristo, non il potere temporale!». Erano i primi anni del secolo, e la fedeltà alla chiesa era ufficialmente fedeltà al temporalismo!
Il modernismo reagiva per sollevarsi da queste miserie, ma aveva obiettivi più alti e vasti. Per cercare un rinnovamento della chiesa e uno svecchiamento della cultura ecclesiastica, che potesse incontrare e parlare al mondo contemporaneo, era portato a cercare e ripensare le fonti del cristianesimo. Settori più critici e radicali, piuttosto aristocratici ed elitari, furono anche spericolati nella dottrina e generarono allarme e condanna sommaria e sproporzionata, in quel clima cattolico chiuso e statico, stretto in difesa impaurita e tutto riassunto nella figura sovrana e sovrumana del papa. Ma altri settori, specialmente italiani, si dedicavano a rinnovare gli studi biblici, la predicazione, la pastorale, con sensibilità più religiosa e sociale, più spirituale, e non soltanto scientifica. Perciò investivano cerchie più larghe nella chiesa (e forse per questo preoccuparono la gerarchia), privilegiando l’esperienza liturgica, coltivando una ecclesiologia mistico-sacramentale più che giuridico-istituzionale, ritornando alla Bibbia, impegnandosi nell’azione caritativa-assistenziale, ed anche anticipando aperture ecumeniche. Molti di questi motivi saranno finalmente assunti dal Concilio Vaticano II.
Mi pare che questo modernismo più profondamente spirituale sia la tradizione spirituale e operativa, nel suo sviluppo storico, a cui Umberto Vivarelli attinge e appartiene. Egli aveva questa cultura, non teorizzata in formule e dottrine, ma vissuta ed espressa in parole dirette, da volto a volto, con una calda comunicazione, e in scelte di vita. Aveva quella cultura-sapienza, che, senza disprezzare né ignorare i libri, senza giudicare inutile il distacco riflessivo, sapeva tradurre in vita, in rapporto umano, ciò che imparava e riceveva dalle pagine sapienti come dai contatti personali. Umberto Vivarelli era – nonostante la sua sana ironia sugli intellettuali – un intellettuale fornito di corpo, di mani e di piedi, oltre che di intelletto. Era un oratore e uno scrittore incisivo, soprattutto un conversatore. Era un intellettuale popolare. Oggi in certe bocche “popolano” diventa sinonimo di “plebeo”, di “volgare”. Il carattere “popolare” di Umberto, per origine familiare, per educazione ed esperienza, era nobile. Infatti egli sapeva come pochi riconoscere, difendere, rivelare, la nobiltà e la sapienza del popolo umile, dei poveri, nobiltà ignorata e nascosta, tradita e offesa spesso anche da chi pretende interpretarla senza ascoltarla.
Quando abbozza un ritratto di una generazione di preti dei poveri (CDP 54), fa involontariamente il proprio ritratto, o almeno disegna il proprio ideale. Soprattutto, quando ricorda quella madre che pregava ogni giorno coi figli, che stentavano a capire, «per non diventare mai ricchi»; e quando cita quella montanara di questa valle d’Ayas, che diceva: «Se c’è un paradiso, il Signore lo deve dare agli altri… Noi l’abbiamo già avuto vivendo con il Vangelo dentro» (ivi), è allora che Umberto testimonia la nobiltà di questi «poveri di cose, signori nello spirito» (ivi).
Quel modernismo più spirituale cercava e accoglieva un’immagine di Dio interiore, intima. Bollato come riduzione sentimentalistica, era invece un cammino di verità: «la luce che illumina ogni uomo» (Giovanni 1,9). E dove lo illumina, se non nell’intimo della persona? Era liberazione da quello che Michele Do chiama «un dio estrinseco, esteriore», di cui si può parlare, ma di cui non si vive. La tradizione spirituale vitale che arriva a noi attraverso questi fratelli-maestri si apre oggi su nuovi orizzonti. La religione del cuore umano, di ogni cuore che non si riduca al di sotto dell’umano, che non finisca nell’asfissia del possedere e consumare, e quindi dominare e uccidere, è religione universale. Il dialogo tra le religioni (che ha in Raimon Panikkar uno dei maggiori pionieri) è oggi il nuovo più largo ecumenismo, in cui le religioni si riconoscono con rispetto, non si colonizzano a vicenda, non si confondono nel sincretismo, ma danno ciascuna il meglio di sé; ed è l’antidoto più serio alla guerra di civiltà, ai vari fondamentalismi feroci, quello islamista, come quello economicista, come quello cristianista, che ha in Bush e nella sua banda evangelical-politica il braccio armato. Gli studi di Pier Cesare Bori (ultimo: Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 1820, Genova-Milano 2004) mostrano sempre meglio che la via interiore a Dio, comunque chiamato, è analoga in tutte le spiritualità umane: pluralità e analogia tra le vie differenti. La linea cattolica di cui parliamo a proposito di Vivarelli apriva e continua ad aprire brecce nella vecchia tenace pretesa “totalitaria” del cattolicesimo: la pretesa di essere e di avere intero tutto ciò che gli altri hanno in frammenti, o in frantumi deformi. Cercando la comunicazione, giusta e critica, tra uomo moderno e Vangelo, il movimento modernista conteneva in germe l’attuale ricerca di fraternità interreligiosa e di un’etica universale per la sopravvivenza dell’umanità (vedi il Parlamento mondiale delle religioni, vedi la ricerca di un’etica mondiale, di Hans Küng, Kuschel, Bori, Boff, e altri).
I cattolici modernisti più spiritualmente saggi non erano eretici, ma aiutavano, dall’intimo della chiesa, quelle provvidenziali “eresie”, o lacerazioni, che aprono porte e finestre per uscire e per entrare, far visita e ricevere visite, scambiare doni con ospiti e compagni di cammino, di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo avvertiti: «Guai a voi che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini: non entrate voi e non lasciate entrare chi vorrebbe» (Matteo 23, 13 e ss.). Quelle correnti d’aria da respirare non tolgono nulla alla persona unica di Gesù il Cristo, ma riconoscono lo Spirito che si è posato su di lui effuso su tutta la terra.

6 – Umberto Vivarelli, uomo di Vangelo. Ha vissuto di Vangelo. Non un collotorto “scorporato” – direbbe David Maria Turoldo - ma un uomo corposo, come un pescatore di Galilea, che ha capito Gesù e cammina dietro a lui. Ha sempre il punto di vista evangelico, è dall’interno del messaggio evangelico che guarda il mondo, l’esistenza, il cammino e le vicende dell’umanità e dei singoli nella storia. Il Vangelo è la sua educazione, la sua letteratura, la sua cultura, la sua antropologia, la sua poesia, la sua memoria, il suo pane quotidiano. Dal Vangelo coglie prontamente le citazioni per esprimersi, per riconoscere i tipi umani e le diverse scelte di vita. Non dico che fosse ignorante del resto, che fosse uomo di un solo libro. Tutt’altro: aveva sempre, in camera, un libro impegnativo in corso di lettura. Ricordo anche il suo gusto per la musica bella: passeggiando al mattino presto, per la strada tra i vigneti di Fontanella, ascoltava il Terzo programma Rai. Dico che la sua struttura personale, mentale, morale, vitale, è quella evangelica. Non ne faccio un panegirico: struttura evangelica non significa perfezione e irreprensibilità (dire questo non è vedere motivi di reprensibilità), ma cammino sulla via giusta. Struttura personale evangelica significa santità nel senso originario, per cui i credenti inseriti in Cristo erano detti santi.
Uomo evangelico significa qualcosa di più che credente in Dio, e più che teologo (uno che parla, anche molto bene, pensatamente, di Dio). Significa uno che ha incontrato Dio nella carne e nella storia di Cristo, e dei poveri, e in quel cammino procede.
La sua lettura del Vangelo è esistenziale, qualifica gli atteggiamenti concreti nei rapporti personali e sociali. Il Vangelo come Umberto lo legge, parla di questo, non parla di un dio chissà dove. Sono «parole di vita», è un libro di vita. Un libro che decodifica il mistero dell’esistenza quotidiana ed è luce e guida in essa.
È una lettura, la sua, che si avvale anche di studi esegetici, ma non lascia il Vangelo in mano a linguisti, storici, esperti, in una nuova dipendenza clericale. Ritorna sempre ad un ascolto diretto, che va da Gesù al discepolo. Dopo lo studio, sa raggiungere una “seconda ingenuità”, cioè una “genuinità”, in presa diretta con la vita, che libera il Vangelo da troppe mediazioni, tali che distanziano la Parola dalla vita e la sterilizzano.
Quindi, Umberto riconosce la vicenda evangelica nella vita: Dio è crocifisso nell’uomo (CDP 61, 86), nelle vittime dei poteri omicidi e torturatori (CDP 86). Scrive: «Il tradimento delle parole dell’uomo, che sono carne e sangue della sua lotta e crescita nella storia, è anche tradimento della Parola di Dio: sempre crocifissione dell’uomo e di Dio coincidono nella storia» (CDP 61).
Il Vangelo è annuncio di vita e libertà da attuare nel mondo, nella storia, certo senza la pretesa di farne una realizzazione totale, insuperabile, in questa o quella forma fissa, sia ecclesiale o sociale. Perciò, il Vangelo va continuamente ritrovato e riascoltato, oltre ogni impossessamento ecclesiastico o culturale. Ogni sua «confisca» - come quella dei potenti e delle potenze che si sono fregiate e si fregiano dell’etichetta di “civiltà cristiana” – ha «svuotato spiritualmente il Vangelo» e lo ha «confiscato come strumento di oppio contro i servi e di ricatto contro i ribelli» (CDP 61).
La Parola è stata «imprigionata per servire da alibi e da tutela di poteri idolatri». Ne è stata operata una «manomissione e una violentazione perché divenisse rivestimento religioso a nascondere e a barattare bestemmie anticristiane». Questa «annessione coloniale e imperialistica delle parole del Crocifisso da parte delle parole dei dominatori di turno», in questa «antica manipolazione del Vangelo», è dovuta in parte a «ingenuità e impreparazione di molti credenti, certamente non illuminati dallo Spirito», ma sicuramente c’è anche una «responsabilità della intelligenza e della cultura cattolica» (ancora CDP 61).
Umberto Vivarelli conduce spesso questa polemica con la cultura delle accademie e delle lauree, non certo per antintellettualismo sciocco e per disprezzo populistico, ma per forte esigenza di spiritualità vissuta, di cultura della vita, di sapienza autentica. «Dovete scendere da cavallo», mi ha detto qualche volta quando ha visto in uno come me qualche modestissima tendenza di quel genere.
Dunque, il Vangelo va liberato dalla «confisca» borghese. Uomini come Umberto ricevono e trasmettono il Vangelo come una fiamma che brucia le scorie della vita personale, sociale, ecclesiale; le scorie di una religione ripiegata, passiva, consolatoria, dolce-pia, cerotto che non risana, che tollera e lascia le persone e la società nella iniquità, nella violenza strutturata, e si limita a inzuccherarla con santi miracolosi, con apparizioni da effetti speciali del cinema elettronico, con cerimonie di massa esaltanti, con appartati “luoghi dello spirito”, che hanno anche un loro valore, ma rischiano di funzionare come eccezioni che confermano la regola di un Vangelo relegato a lato della vita reale.
Per uomini come Umberto, il Vangelo è anche duro, severo, è un contatto penoso e costoso, perché incide e cambia; specialmente per quelli, come Umberto, che insistono sulla traduzione sociale del Vangelo, non come operatori diretti nell’azione sociale e politica, ma come stimolatori e orientatori chiari ed esigenti con sé e con gli altri.
C’è una «infezione culturale della casta sacerdotale» perché «non restituisce la Parola ai poveri» (CDP 65), anche nella liturgia (CDP 65-69). C’è un «fossato culturale e spirituale tra una chiesa-gerarchia e una chiesa-popolo. La fedeltà alla “ortodossia formale” rimane il terreno di competenza e la prerogativa della casta culturale», che si appaga di «parole, concetti, formule» e di una «fede-dottrina facilmente autorizzata perché non dice eresie e schiva errori» (CDP 66). Invece, «la fedeltà alla “ortodossia-vita” è sperimentata e sofferta da quanti nella storia quotidiana sentono l’urgenza di una fede che, con tutti i rischi e le incertezze, si incarna nella fatica di operare per la libertà, la giustizia, la fraternità in mezzo agli uomini e per gli uomini» (CDP 66-67).

7 – Anche Omero a tratti si addormentava. A volte, qua e là, la prosa di Umberto, che non era Omero, cade nell’enfasi. L’enfasi è l’aggiunta di accenti e di aggettivazione esterna, quando non si sente o non si riesce a rendere tutta l’energia interna del discorso. Non c’è da stupirsi che, specialmente cercando di parlare di cose grandi, proviamo l’insufficienza della nostra parola, e cerchiamo di rafforzarla con artifici. Possiamo trovare, per questo motivo, anche nei profeti più grandi, grida, paradossi, scompostezze. La Parola agita il profeta. Ma forse queste sbavature della prosa di Vivarelli sono anche una caratteristica generazionale. Oggi, specialmente chi è più giovane e dunque pensa e scrive essendosi formato in temperie culturali e spirituali successive, parla con piglio meno sicuro e più problematico (che non vuol dire con minor desiderio di fede e di verità) di chi ha vissuto e lottato in altre circostanze. Ogni generazione è un passaggio dai padri ai figli, porta in sé le fatiche e le ferite dei padri, insieme alle loro visioni, e porta in germe le scoperte, gli interrogativi e le nuove fatiche dei figli.
Mi sono soffermato un momento perplesso anche là dove Umberto Vivarelli dice che la parole evangeliche sono «parole assolute» (CDP 86). A rigore, assoluto significa sciolto da ogni relazione con altri. Evidentemente, qui voleva dire: parole forti, vere, di vita. Ho collegato questa espressione a quei punti dei suoi scritti in cui mi pare di cogliere toni di condanna della «civiltà pagana» (CDP 15 e ss). Egli ripete che «l’uomo non basta a sé stesso» (DFC 30, 48, 50, 67). «Il cristiano crede in Dio, non nella natura umana» (DFC 67).
Mi pongo alcune domande: Umberto afferma forse che l’uomo, se non si rivolge a Dio con la fede e con la vita, non è veramente se stesso, ma un uomo a metà? L’unico umanesimo è la religione cristiana? Non c’è una luce di Dio data ad ogni uomo sincero con la propria coscienza (Giovanni 1,9)? Dio non raggiunge forse e non tocca il cuore di chi non lo riconosce in Gesù Cristo? Umberto vuole proporre una teoria sull’uomo, oppure porta qui la testimonianza della propria esperienza di uomo che nella fede ha trovato un’aggiunta che eleva e che non si può più perdere senza smarrirsi e negarsi? Insomma, dice: «Io senza la fede sarei dimezzato», oppure dice: «Ogni uomo è dimezzato se non ha la mia fede?». Mi pare di poter chiaramente rispondere che dice la prima cosa, non la seconda.
In altre parole: la cultura e la spiritualità cristiana che Umberto Vivarelli, come altri personaggi simili, rappresenta, ha riconosciuto e rispettato, come ha fatto Bonhoeffer, l’umanesimo secolarizzato? Bonhoeffer constata – se ancora vale come tale, nei nostri tempi recentissimi, notevolmente mutati, la sua osservazione acuta, ma compiuta sul mondo europeo degli anni 1930-40 - che viviamo in un mondo senza religione, diventato adulto, non dipendente dalla divinità, che non sente il bisogno di Dio per affrontare e dare una risposta a tutti i problemi (4). Questa non era per Bonhoeffer la fine del cristianesimo, ma una sua trasformazione in fede non “religiosa”. Per altri aspetti, oggi sembra tornare a crescere la dimensione “religiosa”, ma in forma primitiva, di terapia dell’angoscia psichica, storica e cosmica.
Insomma, queste domande riguardano la dibattutissima questione teologica del rapporto tra natura e grazia. La creatura umana non è immagine di Dio, non è guidata dalla coscienza verso di lui, non è completamente umana, se non ha la grazia della fede? Senza minimamente osare di entrare nella questione, segnalo un’utile distinzione che propone Pier Cesare Bori, già citato, nei suoi studi sulla pluralità analoga delle vie religiose: la distinzione tra profezia e sapienza, tra la parola dall’alto e l’esperienza interiore elaborata dal basso (p. es. in Universalismo, op. citata, pp. 7-8, 65, 68 e ss). I due aspetti sono presenti anche nel Vangelo cristiano. Sulla base della sapienza spirituale, pur se diversamente interpretata in teoria, è possibile un consenso etico, pratico, tra le religioni, le culture, gli umanesimi, per la difesa e l’affermazione della dignità umana, a cominciare dalla difesa della sua minacciata sopravvivenza, ed è possibile un dialogo spirituale aperto sul mistero vivo.
Terminati questi appunti per ricordare e tentare di capire Umberto Vivarelli, e imparare qualcosa del molto che ci viene da lui, mi sembra di dover ricominciare, per ripensare meglio, probabilmente correggere e dir meglio molte cose, e vederne altre ancora. Ma ogni passo ha il suo momento.

Enrico Peyretti, 9 agosto 2004

(1 ) Tale era l’abito; mi raccontarono del rettore di un seminario, negli anni 60, che, ad un seminarista che portava un cappotto nero corto sopra la talare, diceva: «Conformarsi, conformarsi!», cioè gli inoculava il virus della obbedienza-vizio, non virtù.

(2) «Il Vangelo di Giovanni si conclude con questo: “Che importa a te? Che importa a te? Guardate che questa cosa mi fa sussultare di gioia! A Pietro, al papa che vuole racchiudere tutto nel suo ministero petrino, nel suo monolitismo romano, Gesù risponde: che importa a te?» in Benedetto Calati, Il sacramento primordiale, trascrizione non rivista dall’Autore, fascicolo I Germogli n. 9, Edizioni Banca del Gratuito, Fano 1999, p. 11. Vedi poi in B. Calati, Sapienza Monastica, Studia Anselmiana, Roma, 1994, pp. 240; 252.

(3) Nel Nuovo Testamento, “iereus”, sacerdote, è usato soltanto riferito a Gesù Cristo e al popolo cristiano; non è mai chiamato sacerdote chi svolge un servizio nella chiesa. Per i vari ministeri ecclesiali sono adottati termini laici, presi dalla vita quotidiana e dall’amministrazione civile: diacono (servitore), presbitero (anziano, prete), episcopo (sovrintendente). Il prete è un anziano della comunità, con la funzione riconosciuta, per la sua esperienza nella fede, di fare memoria della parola e dell’eucarestia di Gesù, e così unire e animare la comunità. Un altro è profeta, perché ha ricevuto una luce maggiore, a vantaggio di tutti, per muovere e incoraggiare tutti. Altri hanno altri doni. Solo la carità spicca su tutti i doni, che senza di essa non sono nulla (1 Corinti 12 e 13).
Il sacerdozio non è di alcuni e non di altri. Nella chiesa c’è un unico sacerdozio, che è quello di Gesù Cristo, se è vero che è l’unico mediatore tra Dio e l’umanità. Il sacerdozio di Gesù è comune a tutti i battezzati. Non c’è un sacerdozio dei preti e un altro, minore, dei battezzati. Per cui non si può dire “ministero sacerdotale”, come se altri ministeri non lo fossero; ma “sacerdozio ministeriale”, cioè esercitato nella forma del particolare ministero presbiterale.
Il Concilio adottò il linguaggio del Nuovo Testamento, quasi sempre reintroducendo l’antico termine “presbitero”. Ma dove afferma (Lumen Gentium, n. 10), in un inciso, citando Pio XII, che la differenza tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale non è solo di grado ma di essenza, dice una cosa incomprensibile: se sono differenti per essenza, sono due sacerdozi diversi; ma nel cristianesimo c’è un unico sacerdozio, partecipato in forme diverse. La differenza non può essere essenziale, ma solo nel modo di esercitarsi. Quando chiesi spiegazione di questo passo al card. Pellegrino, mi rispose che non l’aveva, e che bisognava cercarla nei verbali dei lavori conciliari. Quel passo conciliare a me pare, salvo chiarimenti, una concessione retrograda alla teoria del classismo sacrale nella chiesa, alla teoria non evangelica dei «duo genera christianorum» di cui parla il Decretum Gratiani, del 1140.

(4) Per me è nuovamente evidente che non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell'incompletezza delle nostre conoscenze; se infatti i limiti della conoscenza continueranno ad allargarsi - il che è oggettivamente inevitabile - con essi anche Dio viene continuamente sospinto via, e di conseguenza si trova in una continua ritirata.
Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo; Dio vuole esser colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte. Questo vale per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Ma vale anche per le questioni umane in generale, quelle della morte, della sofferenza e della colpa. Oggi le cose stanno in modo tale che anche per simili questioni esistono delle risposte umane che possono prescindere completamente da Dio. Gli uomini di fatto vengono a capo di queste domande - e così è stato in ogni tempo - anche senza Dio, ed è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione per loro. Per quel che riguarda il concetto di " soluzione ", le risposte cristiane sono invece poco (o tanto) cogenti esattamente quanto le altre soluzioni possibili. Anche qui, Dio non è un tappabuchi; Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita; Dio vuole essere riconosciuto nella vita, e non solamente nel morire; nella salute e nella forza, e non solamente nella sofferenza; nell'agire, e non solamente nel peccato. La ragione di tutto questo sta nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo - Egli è il centro della vita, e non è affatto " venuto apposta " per rispondere a questioni irrisolte. (passi da Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa).

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Altre note - Vivarelli: libertà di coscienza (v. mia relazione su Mazzolari 1986 e Vivarelli su obiezione di coscienza di Mazzolari che scrive con pseudonimo quando gli è vietato di scrivere)
- materiale d’archivio Vivarelli a Fontanella
- figura del cristiano oggi: 1° Vangelo e fede 2° chiesa; chiesa varia, non uniforme, convocata dallo Spirito entrato nei cuori e non passaggio obbligato e “unico” dello Spirito per raggiungere i cuori; chiesa fraternità di spiriti e coscienze
- Vivarelli non “istituzionale”: unità non nell’Uno-Tutto (Croce, liberale; libertà dei forti; ma organicismo) ma nell’Uno-Tutti (Capitini, personalismo inclusivo di ognuno, nessuno escluso, comunicante, compresente)
- In politica diceva: sono internazionalista

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