«Noi, i forzati del “turno” in Ilva»
Urla del silenzio. Sono quelle dei giovani operai dell'Ilva, quando uno di loro cade divorato dal “solito” incidente. Quando è un martello in testa a snidarti dalla trincea e ad ucciderti con la fredda, feroce, precisione di un cecchino; o quando, uscito allo scoperto, magari per verificare il maledettissimo “fine corsa”, ci pensa un tubo a tranciarti in due con la furia di una cannonata. “L'infortunio mortale - raccontano - è come il mare. Non fa differenza tra la tempesta e una bella giornata di sole. Ti prende e ti porta via con sé”.
I ragazzi dell'Ilva non ridono. Sorridono semmai, di un sorriso acerbo, enigmatico, come quello di Domenico Occhinegro, l'ultimo di loro che se n'è andato un mese fa. Facile parlare quando il cadavere di un compagno giace all'obitorio. Ammesso che si cerchino parole, che si trovino parole. Più difficile vincere la diffidenza e chiedere di aiutarci a capire in un giorno qualsiasi, un giorno come tanti, stretto fra la routine del “normalista” - ingresso in fabbrica poco prima delle sette, uscita alle 16 con una pausa per il pranzo dalle 11 alle 12 - e la giostra dei “turnisti” che corre, vorticosa, lungo l'arco delle 24 ore divisa in tre spicchi: 6,50-14,50; 14,50-22,50; 22,50-6,50 del giorno dopo con una notte in mezzo e la paura boia “di non tornare a casa”.
La città? E' lontana. Un miraggio, oltre il mare. Il sindaco Stefàno, in Consiglio comunale, ha detto che indossa la tuta da operaio. Ma l'ha mai visto un treno nastri? Dovrebbe stare un giorno con noi. Dentro lo stabilimento siderurgico. Senza preavviso. E senza squilli di fanfare. Dovrebbe presentarsi ai cancelli della fabbrica, entrare, indossare l'elmetto, la tuta pesante che quando fa caldo è peggio di una tortura. E lavorare. Correre per timbrare sei volte il cartellino con il timore di far tardi, sentendo tutto il peso del tempo che è un vero tiranno; conoscere noi, le nostre ansie, le mogli a casa appese al filo del Televideo, la paura di veder comparire - da un momento all'altro, da un giorno all'altro - la notizia: incidente mortale all'Ilva. E un nome, un cognome, che non vorrebbero mai leggere”.
Per loro, i ragazzi dell’Ilva, l’azienda stessa appare un’entità vicina, vicinissima, eppure astratta. C’è, vede tutto, organizza tutto: dalle mansioni ai budget di reparto per incentivare il lavoro fino ai tornei di calcetto; prova ad alimentare lo spirito di corpo premiando “sensibilità” spiccate verso la fabbrica e record di produttività; e a fine anno ci sono anche buoni acquisto per i più meritevoli: dal vestiario ai momenti di svago in discoteca. Ma a furia di finire sui giornali e in TV - tra inquinamento e morti bianche - l’Ilva sembra diventare altro.
In questo contesto si acuisce, anche psicologicamente, il solco tra lavoro e produzione, ma si alimenta anche lo strappo avvertito dagli operai rispetto alla città. Non sentirai mai un giovane lavoratore lamentarsi perché l’azienda infrange le regole, anzi: “A disposizione - raccontano - c’è tutto quello che la legge prevede dal punto di vista della sicurezza personale: dal casco, alla tuta, ai guanti”. Citeranno, piuttosto, quei giovani, i titoli dei giornali, spiegando che “tutti additano l’Ilva, i titoloni sul ‘gigante malato’ non si contano; tutti parlano della sicurezza oppure tutti dicono che bisogna rivedere l’atto d’intesa salvo poi ritrovarsi al prossimo funerale di un nostro compagno e piangere l’ennesimo morto sul lavoro”. Ecco il punto.
Finito il tempo dell’“orgoglio siderurgico” dei padri, quando l’Ilva era pubblica, e i nostri cipputi si permettevano il lusso di studiare, formarsi sul ciclo di produzione dell’acciaio, farne un tutt’uno con i concerti di Giorgio Gaber alla Vaccarella o con le biblioteche popolari, stimolati da quel genio incompreso che fu Peppino Francobandiera. Certo, c’era il Partito (comunista). E c’erano i sindacati. Ora l’Ilva è qualcosa da chiudere dietro la porta di casa quando il turno è finito. Facendo calare il silenzio fino al giorno dopo. “Non parliamo. A casa non parliamo mai di lavoro - spiegano i ragazzi - perché dialogare non è facile. E dialogare con chi poi? Certo, resiste ancora il mito.
Tanti di noi avrebbero sognato di fare il carabiniere come rivelò un sondaggio alcuni anni fa. Essere fuori, essere ‘altrove ’ Di questo parliamo sì; oppure lo pensiamo e ce lo teniamo dentro. Parlare può essere controproducente. Teniamo dentro quella voglia di cambiar vita per non cedere alla rassegnazione o all’indifferenza. Un segreto? Sappiamo di non avere la forza perché chi pensa, tra noi, è in minoranza. Qui c’entra l’individualismo, c’entra il fatto - dice con coraggio uno di loro - che siamo una generazione sbagliata, sospesa tra telefonini, partite di calcetto, automobili e palestre.
Pronta, con il primo stipendio, a far mutui di decine di migliaia di euro per una macchina di grossa cilindrata”. Persino provare a modificare l’orario della pausa pranzo, pur raccogliendo tremila firme, è stato impossibile.
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