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La paura quotidiana di un ennesimo infortunio, l’ansia di chi rimane a casa e teme cattive notizie

«Noi, i forzati del “turno” in Ilva»

I giovani operai e la rabbia di una generazione che varca ogni giorno i cancelli della grande fabbrica
20 agosto 2007
Fulvio Colucci

ILVA di Taranto Urla del silenzio. Sono quelle dei giovani operai dell'Ilva, quando uno di loro cade divorato dal “solito” incidente. Quando è un martello in testa a snidarti dalla trincea e ad ucciderti con la fredda, feroce, precisione di un cecchino; o quando, uscito allo scoperto, magari per verificare il maledettissimo “fine corsa”, ci pensa un tubo a tranciarti in due con la furia di una cannonata. “L'infortunio mortale - raccontano - è come il mare. Non fa differenza tra la tempesta e una bella giornata di sole. Ti prende e ti porta via con sé”.

I ragazzi dell'Ilva non ridono. Sorridono semmai, di un sorriso acerbo, enigmatico, come quello di Domenico Occhinegro, l'ultimo di loro che se n'è andato un mese fa. Facile parlare quando il cadavere di un compagno giace all'obitorio. Ammesso che si cerchino parole, che si trovino parole. Più difficile vincere la diffidenza e chiedere di aiutarci a capire in un giorno qualsiasi, un giorno come tanti, stretto fra la routine del “normalista” - ingresso in fabbrica poco prima delle sette, uscita alle 16 con una pausa per il pranzo dalle 11 alle 12 - e la giostra dei “turnisti” che corre, vorticosa, lungo l'arco delle 24 ore divisa in tre spicchi: 6,50-14,50; 14,50-22,50; 22,50-6,50 del giorno dopo con una notte in mezzo e la paura boia “di non tornare a casa”.

Angelo Franco ha perso il figlio nel giugno 2003. «Da quattro anni inseguo la verità su quelle morti»
“La proposta è quella di rispolverare in fabbrica la vecchia ‘cassetta delle idee’ e trasformarla in ‘cassetta della sicurezza’. Lì i lavoratori dell’Ilva potrebbero, in forma scritta, segnalare anomalie e disfunzioni da correggere. Una sorta di ‘verbale di constatazione’ dei pericoli da evitare. Sarebbe più facile, così, risalire anche alle responsabilità se gli incidenti, comunque, si verificassero; evitando lo scaricabarile. Sarebbe un contributo alla riduzione di rischi fatali”. Il logo dell’associazione “12 giugno” è L’urlo il capolavoro espressionista del pittore norvegese Edvard Munch. “Ci rappresenta, rappresenta il disagio dei familiari delle vittime degli incidenti sul lavoro. E rappresenta l’oggi, l’impotenza dei nostri ragazzi che lavorano all’Ilva, la necessità di ascoltare il loro grido silenzioso, di aprire loro le nostre por te”. Chi parla è Angelo Franco. Il 12 giugno del 2003, Franco, presidente onorario dell’associazione, perse il figlio Paolo in un tragico incidente nell’area dei parchi minerali. A morire fu anche il compagno di lavoro di Paolo Franco, Pasquale D’Ettorre. Da allora Franco insegue la verità. E la giustizia. “Sono stato ai funerali di Domenico Occhinegro – racconta – l’ultima vittima di questa ‘giostra mostruosa’. Sono rimasto colpito; accade sempre in questi frangenti, perché è come se capitasse di nuovo a mio figlio. Ma la richiesta di aiuto e solidarietà da parte dei genitori del ragazzo ha aperto le porte ad una nuova speranza, all’idea di non essere soli. E alla necessità di fare appello, continuamente, ai ragazzi che lavorano all’Ilva: incontriamoci, parliamo. Può capitare anche a voi e piangere, dopo, non serve. I nostri ragazzi li vogliamo vivi”. L’associazione “12 giugno” è apartitica e apolitica, come tiene a sottolineare il presidente Cosimo Semeraro. “Per questo – sottolinea Semeraro – abbiamo aggiunto nell’intestazione il riferimento ai familiari degli operai vittime del lavoro e ai lavoratori che hanno subito infortuni, malattie professionali gravi e invalidità”. L’associazione, in questa sua battaglia, ha dovuto seguire percorsi tortuosi. In molti casi lontano da Taranto. Nel gennaio del 2007, a Napoli, una delegazione ha incontrato il presidente della Camera Bertinotti e il ministro Damiano. Nell’aprile del 2007 ha organizzato un convegno a Mesagne, “ma i sindacati – ricorda Angelo Franco – erano assenti”. Motivi per polemizzare con i sindacati e la politica Franco ne ha: “Lo scorso 7 agosto – ricorda – era in programma un corteo sulla sicurezza dopo la morte di Occhinegro. Noi non eravamo invitati. Aspettiamo da mesi – prosegue Franco – la promessa di aiuto fattaci dal presidente della Provincia Florido. Il sindaco Stefàno non lo abbiamo ancora incontrato ufficialmente”. Infine la provocazione: “Chiedo all’Ilva – conclude Franco – di essere riassunto, gratuitamente. Per contribuire alla formazione dei nostri giovani. Basterebbe ripartire dal ripristino delle riunioni di sicurezza nei reparti”.
Sembra una banalità elencare i turni all'Ilva. Invece è una contabilità preziosa. Perchè dietro i numeri ci sono uomini, vite, racconti di carne e sangue, storie di piccole e grandi meschinità, ma anche di gesti solidali. “Giornalista, noi potremmo star qui a raccontare per ore, ma solo chi fa il nostro lavoro può capire!”. La diffidenza nei confronti di chi non è come loro, di chi non è uno di loro, sembra un marchio a fuoco. “Ci sentiamo abbandonati.

La città? E' lontana. Un miraggio, oltre il mare. Il sindaco Stefàno, in Consiglio comunale, ha detto che indossa la tuta da operaio. Ma l'ha mai visto un treno nastri? Dovrebbe stare un giorno con noi. Dentro lo stabilimento siderurgico. Senza preavviso. E senza squilli di fanfare. Dovrebbe presentarsi ai cancelli della fabbrica, entrare, indossare l'elmetto, la tuta pesante che quando fa caldo è peggio di una tortura. E lavorare. Correre per timbrare sei volte il cartellino con il timore di far tardi, sentendo tutto il peso del tempo che è un vero tiranno; conoscere noi, le nostre ansie, le mogli a casa appese al filo del Televideo, la paura di veder comparire - da un momento all'altro, da un giorno all'altro - la notizia: incidente mortale all'Ilva. E un nome, un cognome, che non vorrebbero mai leggere”.

Per loro, i ragazzi dell’Ilva, l’azienda stessa appare un’entità vicina, vicinissima, eppure astratta. C’è, vede tutto, organizza tutto: dalle mansioni ai budget di reparto per incentivare il lavoro fino ai tornei di calcetto; prova ad alimentare lo spirito di corpo premiando “sensibilità” spiccate verso la fabbrica e record di produttività; e a fine anno ci sono anche buoni acquisto per i più meritevoli: dal vestiario ai momenti di svago in discoteca. Ma a furia di finire sui giornali e in TV - tra inquinamento e morti bianche - l’Ilva sembra diventare altro.

In questo contesto si acuisce, anche psicologicamente, il solco tra lavoro e produzione, ma si alimenta anche lo strappo avvertito dagli operai rispetto alla città. Non sentirai mai un giovane lavoratore lamentarsi perché l’azienda infrange le regole, anzi: “A disposizione - raccontano - c’è tutto quello che la legge prevede dal punto di vista della sicurezza personale: dal casco, alla tuta, ai guanti”. Citeranno, piuttosto, quei giovani, i titoli dei giornali, spiegando che “tutti additano l’Ilva, i titoloni sul ‘gigante malato’ non si contano; tutti parlano della sicurezza oppure tutti dicono che bisogna rivedere l’atto d’intesa salvo poi ritrovarsi al prossimo funerale di un nostro compagno e piangere l’ennesimo morto sul lavoro”. Ecco il punto.

Finito il tempo dell’“orgoglio siderurgico” dei padri, quando l’Ilva era pubblica, e i nostri cipputi si permettevano il lusso di studiare, formarsi sul ciclo di produzione dell’acciaio, farne un tutt’uno con i concerti di Giorgio Gaber alla Vaccarella o con le biblioteche popolari, stimolati da quel genio incompreso che fu Peppino Francobandiera. Certo, c’era il Partito (comunista). E c’erano i sindacati. Ora l’Ilva è qualcosa da chiudere dietro la porta di casa quando il turno è finito. Facendo calare il silenzio fino al giorno dopo. “Non parliamo. A casa non parliamo mai di lavoro - spiegano i ragazzi - perché dialogare non è facile. E dialogare con chi poi? Certo, resiste ancora il mito.

Tanti di noi avrebbero sognato di fare il carabiniere come rivelò un sondaggio alcuni anni fa. Essere fuori, essere ‘altrove ’ Di questo parliamo sì; oppure lo pensiamo e ce lo teniamo dentro. Parlare può essere controproducente. Teniamo dentro quella voglia di cambiar vita per non cedere alla rassegnazione o all’indifferenza. Un segreto? Sappiamo di non avere la forza perché chi pensa, tra noi, è in minoranza. Qui c’entra l’individualismo, c’entra il fatto - dice con coraggio uno di loro - che siamo una generazione sbagliata, sospesa tra telefonini, partite di calcetto, automobili e palestre.

Pronta, con il primo stipendio, a far mutui di decine di migliaia di euro per una macchina di grossa cilindrata”. Persino provare a modificare l’orario della pausa pranzo, pur raccogliendo tremila firme, è stato impossibile.

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