"Quella città fumigante"
Spalle alla porta: dell'inferno. Un sospiro più a sud. Lì cola la ghisa, qui scola la vita. E viceversa om eglio ancora insieme nello shaker di padreferro, servire tiepido a millecento gradi in bicchieri cilindrici borchiati di lava. Le case: palazzine testarde. Nacquero siamesi nell'accasermaggio rionale sotto il comando dell'industria ammiraglia. Diventò un recinto, poi un paese, infine una città fumigante. Decenni dopo, non si può dire quando il Nero s'impose. Forse bastò una settimana, forse ci volle un mese. Decenni dopo, non si può dire quale fosse il colore di base: bianco, giallo, avana. Un verde muffestre solletica scienze; un viola gigliato sollecita dubbi. Per coerenza morale e urbanistica, il cimitero ufficiale è a due lotti di sterpi. La casa dei morti perenni è a casa dei morti viventi.
La vista sul cortile è altri cortili, altre serrande, sterrati verso le croci e crisantemi tra gli sterrati. Baracche di presunti fiorai. Colline di ecologica pena. Fichi compressi in giardini di un metro. Naufraghi ignari, ragazzi vocianti scavalcano l'ala di un campo interdetto per suolo letale. Il Nero sceneggia la neo carboneria: gli iscritti non sanno di esserlo e non sarà un plotone a inchiodarli.
Una nube. L'uomo guarda e non vede: ha già visto. Curvo come un gancio, poggia i gomiti sul microbalcone e usa le mani per reggersi il mento. E' lì da pochi minuti ma già il Nero gli ha tinto il pigiama. Non se ne cura: ne ha un altro, forse lo indosserà. La moglie al mercato è un sollievo, l'estate ad un passo un problema. Muove gli occhi di lato e per strada, tre piani più giù. L'auto è sempre davanti, quale scemo sarebbe così scemo da rubarla. Semmai andrebbe messa in moto: da quanto non succede?
Ricordarlo è faticoso. Quasi come voltarsi e andare a spegnere il televisore torrido, nel cucinino a un metro. La scatola storce parole indistinte. Continuasse così, se le va. Una tazza senza piattino sulla sedia di paglia. Un fumetto del dopoguerra fa il cappello a una latta. Cassintegrato. Scompone: integrato, ma in cassa. Anni 48, due al fuorilimite. Particolare pesante. Resisti, lo hanno rincuorato: ora sei out, ma a rientri trimestrali sbarcherai verso i cinquanta e sarà finalmente pensione. Puoi anche chiedere l'amianto, gli hanno detto in sindacato: che non significa invocare il mesotelioma per farla finita, ma inseguire l'abbuono legale per indennità. Ha lavorato ovunque da che ricorda, a contratto solamente lì.
Altoforno e manutenzione: le uniche due parole che dovevano servirgli. Così gli intimarono. Nel tempo, ne imparò altre. Apirolio, per esempio: lubrifica, raffredda. A 800 gradi, anche, sguinzaglia diossina. Questo lo avrebbe scoperto poi. O gli idrocarburi policiclici aromatici: aromatici, grande. Conosce gli orari di visita d'ogni ospedale. Nella terra dei morti viventi il dolore funziona solo sino a un certo cancello. Raggiuntolo, i residenti iniziano a pensare a quando toccherà a loro farsi sbucciare l'arancia, sussurrare sto meglio o sto peggio, pregare d'andarsene, basta, grazie, ho sonno, sparite. Allora smettono di piangere e di compiangere, di fare sogni e di avere incubi. Anche di fare visite.
La trincea non gli manca, i compagni sì. Quelli rimasti e il loro ottimismo, misteriosa benzina. Quelli svaniti e i loro dettagli, ostinati tatuaggi. Dà da vivere, si disse. Gli dissero. Le due figlie piccole e oramai adulte lo hanno reso nonno di nipoti che non abbraccia, felice di non poterlo fare: sono emigrate e si sbattono altrove, ma respirano aria. Dà da vivere: prova a capire come ha fatto, per ventitré anni, con quella barzelletta di mensile e una famiglia addosso. Vagamente rivede notti, domeniche, straordinari, raddoppi. Riascolta le urla ed i suoni di ossa spaccate, la loppa che incontra la ghisa, lo scoppio e i frantumi, le facce sfregiate degli uomini stesi. Quanti canali per la stessa maledetta merda. Non gli manca, non può mancargli. Gli manca il turno. L'idea. La certezza di un senso. Il fastidio di doversi svegliare. Gli manca anche quello. Mai l'avrebbe immaginato.
Tagli: cinque lettere in una, condita di busta. Comunicazione ufficiale: prima hanno deciso che c'era un esubero, poi che l'esubero era lui. Che ironia: dopo una vita così, finire fottuto da un troppo. Ma anche che privilegio, conoscerne uno almeno una volta. Come tutto è relativo, diceva quello in tivvù (se era uno della tivvù). La tivvù. Adesso può guardarla tanto, spesso, sempre. Non si perde un programma. E non ne ricorda uno. Il telecomando non serve e non spegne. Non fa differenza. I rumori della scatola sono insonori, come le mura dei pazzi. Come il mondo di chi si è messo il silenzio in testa. Ore. Sgocciano sparse. A un tratto raggiungere il bar è diventato un fastidio. Le facce dei reduci. I discorsi sul calcio. Le birre levate a una qualche salute. A un tratto anche vestirsi è diventato un fastidio. Come del resto litigare, proporre, aiutare, disporre. La moglie ha obiettato, tentato, mollato. Alla fine non ha dovuto far altro che rituffarsi nei suoi spazi di spesa e strofinaccio, pentole e rammendi: solo, con uno spettro in più. Impiccio relativo: è uno spettro immobile, stanziale, tranne la variante del balcone. Dove ristagna adesso il suo involucro.
Rolla all'àncora il Tempo, e ha un sigaro in bocca. Sospeso: altra ironia, lo stesso aggettivo dato alle polveri doc. Quelle veraci, nostrane. Quelle donate dal ferro, dalle batterie-coke e dai minerali flambé. Non sono sospese. Scendono. Calano. Picchiano, a volte, quando il vento le paga e il cielo le sbava, complici immondi. Il Signore dà le croci a chi è capace di sopportarle, mente un proverbio della terra dei morti. Qui delle croci si occupa il Nero. Le croci dipinte di buio. Le croci interrotte dal giorno, ospite alieno, scherzo gratuito. Le croci travolte dal mare che vomita, dal fuoco che urla, figli, madri, padri, progetti, è l'ora di andare e se restate è lo stesso.
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