Associazione 12 Giugno: «Questa mattanza va fermata»
Era il 2 agosto quando la fabbrica della morte ha fatto la sua ultima vittima: un ragazzo di appena 25 anni, Domenico Occhinegro, stritolato da un tubo pesante varie tonnellate Un nome che si aggiunge un elenco già sanguinoso: una quarantina di morti dal 1993 a oggi, sei negli ultimi due anni. Ma è soprattutto il numero di incidenti a fare impressione: l’Associazione TarantoViva» ha calcolato che all’Ilva, nel solo 2004, erano stati 360 al mese, 4.315 in un anno. Numeri impressionanti, in un’azienda che conta 14 mila operai, a cui si devono aggiungere i 10 mila delle ditte che lavorano all’interno del complesso.
Morire sul lavoro all’Ilva di Taranto, una delle più grandi industrie d’Italia, il terzo stabilimento siderurgico del mondo, è diventato un evento abituale. «Questa mattanza va fermata», esclama Cosimo Semeraro, operaio dell’Ilva per 40 anni, e oggi presidente dell’Associazione 12 giugno 2003», che riunisce vedove, orfani, e genitori delle vittime dell’ILVA.
«Chiediamo sicurezza», continua Semeraro. «Vogliamo l’istituzione fissa di una sede dell’ispettorato del lavoro all’interno dello stabilimento».
11 giugno 2003 è il giorno maledetto in cui è morto Paolo Franco, figlio di Angelo Franco, il fondatore dell’associazione. «Quei giorno Paolo fu schiacciato da una gru», spiega Angelo Franco. «La foto di quella gru spezzata è agli atti. Nessuno può parlare di tragica casualità», continua con rabbia. «Aspetto giustizia da troppo tempo. Poche udienze e tanti rinvii per quei sette che devono rispondere della morte di mio figlio». Alla sbarra per quella morte sul lavoro c’è anche il presidente dell’Ilva Emilio Riva. L’accusa è quella di omicidio colposo plurimo, perché sotto quella gru morì un altro ragazzo della provincia di Taranto, la cui famiglia, però, ha preferito non costituirsi parte civile, Il motivo è evidente: un fratello di quel giovane oggi lavora all’Ilva con un contratto a tempo indeterminato.
L’INAIL ci ha concesso I .600 euro per funerali e 320 euro al mese a mia moglie, un vitalizio per sopravvivere alla morte del figlio, continua Angelo Franco. La madre di Paolo, distrutta dal dolore, ora passa molto del tempo a rivedere i video del suo Paolo che balia: «Era bravissimo » dice la donna, «è stato campione nazionale di tango argentino. Il palcoscenico era la sua seconda casa. Guardate: è bravo, vero?».
«È stata una morte innaturale e violenta clic ci ha lasciato nella disperazione», continua papà Franco, «mia moglie vive nei suoi ricordi, io nella rabbia e nel desiderio di giustizia. Quattro anni dopo, in quel siderurgico si continua a morire. Non possiamo restare fuori dai cancelli a guardare i nostri figli rischiare la vita tutti i giorni, in nome di un lavoro che uccide”.
Cosimo Semeraro, invece, ha un’altra storia:
«lo non ho perso figli, ho perso me stesso. Da anni lotto e convivo con l’asbestosi da amianto. Ho visto colleghi, amici, morire per il mesotelioma» Sono circa cinquanta le morti attribuite all’amianto, ma questa è un’altra storia. Una storia che appartiene a 10 mila lavoratori già in pensione. Ora la cosa più urgente è salvaguardare la vita e la salute dei ragazzi che sono in fabbrica adesso.
Ecco perché all’Associazione 12 giugno hanno aderito anche giovani operai dell’Ilva. Parlano solo a patto di mantenere l’anonimato. E dicono che il problema sta nella scarsa manutenzione delle apparecchiature, nella presenza all’interno dei reparti di operai, alcuni troppo giovani, che «fanno uso di droghe... loro si annebbiano e noi ne paghiamo le conseguenze».
Molti denunciano anche il clima di omertà all’interno della fabbrica: se ti comporti bene e produci allora ti sistemano con il posto fisso. Quelli che chiedono e denunciano vanno a casa. Come è successo a Fabio, assegnato nel 2003 all’altoforno due, come addetto ai controlli. Lui annota e segnala ai suoi capi impianti a rischio, i pericoli e le insidie di passerelle a ottanta metri di altezza, i sistemi di emergenza mal funzionanti e quelli di depolverizzazione inutilizzabili. E accusato di essere un «sovversivo».
Oggi Fabio non lavora più al siderurgico. Alcuni fanno mostra di un amaro realismo: «L’azienda fa benissimo il suo lavoro: ti obbliga a produrre, a produrre e basta, noi lavoriamo nove, dieci ore al giorno, se si contano anche quelle di viaggio per raggiungere lo stabilimento. E viviamo fra polveri e veleni, negli altiforni dove tutto brucia, come all’inferno».
Qui a Taranto all’ILVA non c’è alternativa. Se non quella del mare, della pesca che niente garantisce, né il lavoro fisso, né un salario ogni mese. Ma almeno non fa rischiare la vita tutti i giorni.
Raffaella Fanelli
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