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Al capolinea l’inchiesta sull’assurda morte di Gianluigi Di Leo, il giovane operaio dell’ILVA schiacciato e ucciso da una sbarra di ferro il 9 settembre del 2005

ILVA: Trave Killer, chiesto il processo

Sono finiti sotto accusa in 24. L’udienza preliminare a carico degli inquisiti è stata fissata per il prossimo febbraio. Si trattò di una tragedia, ma forse sarebbe bastato davvero poco per evitarla.
22 ottobre 2007
Ettore Raschillà
Fonte: Corriere del Giorno

ILVA di Taranto Aveva finito il proprio orario di lavoro, ancora alcuni minuti e sarebbe tornato a casa. Ma il povero Gianluigi Di Leo, all’epoca 24enne, da poco alle dipendenze dell’ILVA, il 9 settembre del 2005 ebbe la sfortuna di ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Senza nemmeno avere il tempo di accorgersene fu investito da una pesantissima trave di ferro staccatasi da un binario posizionato in alto. All’origine di quell’assurdo incidente ci fu il violento impatto fra due “carriponte”, scontratisi per mancato funzionamento dell’impianto elettromagnetico anticollisione. L’agghiacciante sequenza di eventi fece diventare il giovane operaio l’ennesima vittima di un infortunio sul lavoro verificatosi nello stabilimento siderurgico tarantino.

Il dramma terminò subito al vaglio della magistratura. Da allora ogni residuo dubbio su come andarono i fatti sembra sia stato spazzato via. Al termine di meticolose indagini gli inquirenti hanno trovato tutte le risposte agli interrogativi sorti dopo quel terribile episodio. Valutate le consulenze tecniche e le dichiarazioni testimoniali che hanno consentito di ricostruire la vicenda, la magistratura ha chiuso il proprio lavoro. A giudizio della Procura, per il decesso del giovane operaio ci sarebbero state precise responsabilità. Un’ipotesi accusatoria pesantissima, che adesso vede chiamate in causa 24 persone, le stesse che il prossimo 5 febbraio dovranno presentarsi a Palazzo di Giustizia per evitare di finire sotto processo.

Secondo il titolare della delicata inchiesta su una delle tante “morti bianche” registratesi nel capoluogo ionico, solo un regolare dibattimento potrà far luce su tutti gli aspetti della vicenda. Secondo il procuratore aggiunto dott. Francesco Sebastio, ognuno dei 24 inquisiti, fra cui capiturno, capicantiere, responsabili di reparto, tecnici ed operai, si sarebbe reso protagonista di condotte colpose risultate capaci di non scongiurare il tragico episodio

Decisiva per la raffica di richieste di rinvio a giudizio è stata sicuramente la ricostruzione della dinamica dell’incidente, una ricostruzione che è stata possibile anche grazie ai risultati degli accertamenti disposti sui macchinari che provocarono la morte del giovane Di Leo, vale a dire due “carriponte” che entrarono in collisione. Stando a ciò che è emerso dalle indagini, il violentissimo impatto fu addebitato alla mancanza di un dispositivo che aveva il compito di evitare ciò che invece si verificò. L’incidente diede origine a conseguenze tanto irreparabili quanto devastanti. La prima fu il distacco della sbarra di ferro che, caduta da un’altezza di quindici metri, andò a centrare in pieno la testa del giovane operaio. La trave sfondò il cranio del povero dipendente dello stabilimento siderurgico senza lasciargli scampo. I soccorsi furono immediati, ma fu tutto inutile. Niente e nessuno avrebbero potuto salvare lo sfortunatissimo Gianluigi.

Nei capi d’accusa messi nero su bianco dalla Procura viene evidenziato che a risultare decisiva per la tragedia fu l’assenza del componente anticollisione su uno dei due “carroponte”. A giudizio dei tecnici che hanno avuto modo di esaminare i macchinari entrati in collisione (si tratta del n. 17 e del n. 18), sarebbe stata proprio la mancanza del ricevitore di onde elettromagnetiche a determinare il violento urto. E per i titolari dell’inchiesta è stato ovvio a quel punto sostenere che se il segnalatore fosse stato installato, non sarebbe sorto alcun tipo di problema. Con tutta probabilità, l’impatto non si sarebbe mai verificato anche perchè, qualora il sistema fosse risultato funzionante, il dispositivo di sicurezza avrebbe rallentato l’arrivo del trasportatore di bramme fino a farlo fermare in prossimità dell’altro.

Già, ma come mai il “ricevitore” che avrebbe dovuto segnalare l’arrivo dell’altro “carroponte” non era inserito? Possibile che nessuno si era accorto del rischio che una simile situazione avrebbe potuto comportare per i lavoratori? Stando a quanto viene ipotizzato dalla magistratura, a seconda dei ruoli rivestiti nella vicenda, gli indagati non avrebbero posto rimedio ad uno stato di cose che non poteva essere lasciato immutato. Del resto, a seguito di una verifica della documentazione esistente in reparto, gli investigatori hanno scoperto che appena due giorni prima della morte di Di Leo gli stessi “carriponte” sarebbero entrati in collisione. E se ciò rimase sconosciuto ai più fu solo perchè non si registrò alcun incidente.

Quello scontro avrebbe dovuto rappresentare un chiaro segnale d’allarme per chi lavorava nel reparto. Ma questo non avvenne. Secondo gli inquirenti, quell’incidente non fu preso in debita considerazione, chi avrebbe dovuto porre immediatamente un rimedio non avrebbe fatto nulla del genere, chi sarebbe dovuto intervenire consentì, invece, che quella situazione di grave pericolo perdurasse fino al 9 settembre, quando il nuovo impatto determinò il distacco di una trave (del peso di circa 40-50 chili) che andò a stroncare la giovane vita di Di Leo. Si trattò di una tragedia assurda, di una tragedia che come sostengono gli inquirenti nel capo d’imputazione ha preso forma per “imprudenza, imperizia ed inosservanza di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”. Si trattò di una tragedia, ma forse sarebbe bastato davvero poco per evitarla.

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