Veleni nella cava, è giallo internazionale
Commercializzato come prodotto combustibile era, in realtà, un rifiuto della raffinazione del petrolio. Seimila tonnellate di «pet-coke», del valore di 600 mila euro, sono state sequestrate nell'area dell'Italcave, a pochi chilometri da Taranto, nella zona di Statte, dai funzionari della Dogana e dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico (Noe) di Lecce su ordine del sostituto procuratore Matteo Di Giorgio.
Il materiale proveniva da un paese del Sud America ricco di raffinerie ed era stato stoccato nella cava tarantina nove mesi fa. Il titolare dell'Italcave non ha responsabilità alcuna in questa specifica vicenda ma gli è stato contestata la mancanza di autorizzazione allo stoccaggio. Sono invece indagate a piede libero altre persone, tra rappresentanti di aziende e trader internazionali. L'ipotesi di reato su cui la magistratura lavora, sino ad oggi, è gestione illecita di rifiuti, ma la traccia dei danni ambientali e dell'elusione del pagamento delle accise viene seguita per accertare il danno ecologico e l'evasione fiscale. Dal primo giugno di quest'anno, difatti, il pet-coke è considerato prodotto energetico fiscale. E l'indagine che ha portato al sequestro del materiale ha preso il via proprio seguendo la filiera delle accise finalizzate all'accertamento tributario.
Il quantitativo bloccato a Statte, su un totale di centomila tonnellate stoccate in Italcave e risultate buone come prodotto energetico, è di fatto un rifiuto tossico. Come tale ha alti costi di stoccaggio e smaltimento e uno degli aspetti del business è proprio evitare questi costi presentandolo come combustibile, mentre un altro margine di guadagno illecito deriva dal suo utilizzo energetico al posto di combustibili più costosi e di pari potere calorifico.
Destinato alle grandi industrie di tutta Italia come prodotto da bruciare per far marciare i macchinari, era stato respinto dal cementificio tarantino e dagli altri impianti di questo tipo di Puglia proprio perché ne avevano accertato la natura di «scarto» e non di prodotto energetico mentre era stato accettato in altre aziende italiane. Il coke di petrolio, ultimo derivato del processo di raffinazione, è piuttosto tossico a causa della presenza di idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) e di metalli pesanti (cromo, vanadio, nichel) oltre che di zolfo e di componenti volatili.
Per questa ragione il suo trasporto e la sua movimentazione vanno effettuati secondo precise prescrizioni. Commercializzarlo come fonte energetica è uno degli ultimi business messi in atto da trader senza scrupoli e che Carabinieri e Dogana hanno sventato. I fatti sono stati illustrati durante un incontro con la stampa al quale hanno partecipato Tommaso Musio e Miguel Mastura (Dogana), Antonio Turco e Giovanni Solombrino per il Noe.
Il pet-coke è un prodotto pericoloso che si ottiene dal processo di condensazione per piroscissione di residui petroliferi pesanti e oleosi fino ad ottenere un residuo di consistenza diversa, spugnosa o compatta. E’ l’ultimo prodotto delle attività’ di trasformazione del petrolio e viene considerato lo scarto dello scarto dell’oro nero tanto da guadagnarsi il nome di “feccia del petrolio”. Per la sua composizione, comprendente oltre ad IPA (in particolare benzopirene) e metalli pesanti come nichel, cromo e vanadio, va movimentato con cura per evitare di sollevare polveri respirabili.
Il trattamento consistente in carico, scarico e deposito del pet-coke deve seguire le regole dettate dal decreto del Ministero della Sanità del 28 aprile 1997 concernente il trasporto di sostanze pericolose. Dove c’è ad esempio una forte movimentazione di petcoke dovrebbe esserci l’uso di innaffiatori per evitare la sollevazione in aria del pulviscolo. C’è il divieto di scarico in condizioni ventose e l’uso di contenitori o teli isolanti per evitare la fuoriuscita di materiale sulla banchina o nel bacino.
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