Molfetta, Torino, Taranto: una strage continua
Molfetta e Torino, due città con un comune denominatore: incidenti mortali sul lavoro. Insieme con gli altri striscioni affissi nei pressi della Chiesa Madonna della Pace è comparso anche quello della Thyssen Krupp di Torino.
Non solo i rappresentanti della Thyssen, presente tra la folla anche la vedova di un operaio dell’Ilva di Taranto. Testimonianza di come la sicurezza sul posto di lavoro sia un tema che unisce l’Italia intera, da nord a sud.
A Ciro Argentino, Rsu Fiom Thyssen Krupp Torino, abbiamo chiesto quanto le leggi possano essere utili per la sicurezza.
«Le statistiche dell’Inail dicono che muoiono dai tre ai quattro lavoratori al giorno. Abbiamo una guerra in questo Paese, ma nessuno ha il coraggio di dire che bisogna mettersi l’elmetto. Bisogna che ci sia uno scatto di orgoglio dei cittadini, dei lavoratori e delle lavoratrici di tutti i settori.
Dal 2003 al 2006 muoiono 5200 lavoratori, con la media di 1300 all’anno, in questo Paese sono medie da guerre più alte del contingente in Iraq. Credo che oggi il trait d’union, in qualche modo il filo conduttore sia in questo caso rosso della tragedia e del sangue, nero perché è una pagina nera della nostra nazione, perché non è un Paese civile l’Italia che vede uscire donne e uomini al mattino per andare a lavorare e non tornare la sera.
Credo che questo non unisce solo Torino e Molfetta, ma anche l’Ilva di Taranto, la più grande azienda della siderurgia collocata in Europa che in tredici anni ha una media di 40 morti. Sono record della vergogna, da paese veramente incivile.
Occorre che questo Paese faccia uno scatto d’orgoglio. La legge che è stata votata ieri è solo una piccola aspirina per quello che è il problema della legislazione sulla sicurezza nel mondo del lavoro.
E’ una cosa dovuta, ora bisogna vedere che cosa contiene la legge, che deve ancora passare per le commissioni specifiche del Parlamento e quindi bisogna vedere se non viene ancora ulteriormente annacquata».
La particolarità di Molfetta è che il datore di lavoro è morto insieme con gli operai.
«Vorrei sgombrare il campo da questa ipotetica strumentale polemica perché mi sembra che venga tirato per la giacchetta il datore di lavoro come strumento per la Confindustria per dire che muore anche il padrone. E’ banalmente ovvio che non esistevano i mezzi antinfortunistici previsti.
Mi fa strano che il legale dell’azienda abbia eretto un muro difensivo sull’ipotesi che l’azienda avesse le necessarie autorizzazioni per provvedere a quel tipo di lavorazione, cioè la pulizia di cisterne contenti materiali tossici, nocivi o chimici, ma non spetta a me dare dei giudizi, c’è la magistratura che indaga e io ho fiducia.
Però non ci possiamo nemmeno fidare di una magistratura a macchia di leopardo dove una procura può essere più o meno dinamica ed attenta alle esigenze dei lavoratori. Noi a Torino siamo fortunati perché abbiamo Guariniello. Penso che ci sia la necessità, come dice il Pm della Procura di Torino, di costituire come per l’antimafia una procura nazionale che, in caso di incidente o infortunio sul lavoro, abbia una competenza specifica per valutare le responsabilità».
Con Franca Caliolo, responsabile dell’Associazione 12 giugno e vedova di un operaio dell’Ilva di Taranto, abbiamo esaminato l’aspetto dell’incidente sul lavoro dal punto di vista della famiglia.
Si riesce a fermare con una legge questa guerra?
«Hai detto bene è un guerra non dichiarata, ma pur sempre guerra. Per fermarla occorre la volontà di tutti a partire dai lavoratori che devono avere una coscienza, ci deve essere una consapevolezza diversa. Devono usare loro stessi tutti i deterrenti possibili e li devono pretendere dai datori di lavoro.
Le leggi sicuramente possono essere un deterrente, le maggiori sanzioni possono incentivare i datori di lavoro a rendere a norma i posti di lavoro. Ma a tutti livelli c’è un dovere diverso».
Si sente di dare un consiglio alle famiglie di lavoratori molfettesi?
«Consigli non ne so dare. Per quel che mi riguarda, ho voluto costituire una associazione insieme ad altri familiari di vittime Ilva perché ci desse forza, perché ci sostenesse creando un circolo di solidarietà soprattutto nell’iter processuale che è lunghissimo ed estenuante. Basta pochissimo per far saltare un udienza o rimandarla, purtroppo questi processi dopo sette anni vanno in prescrizione anche in caso di morte.
Personalmente cerco di perseguire la giustizia per mio marito, per me e per i miei figli, perché non voglio che covino della rabbia dentro».
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