La notte terribile della gauche italiana
«Cercate l’orso bruno "JJ3"», aveva ordinato l’altro ieri Alfonso Pecoraro Scanio... Ciò detto, spiegava un comunicato, il ministro dell’Ambiente aveva «aperto tavoli di confronto con alcuni Paesi dell’Arco alpino» chiedendo preoccupato dove fosse finito lo Yoghi sparito dal parco dell’Adamello.
Da ieri, però, ha altri problemi per la testa: con l’orso è sparita la sinistra radicale. Comunista e verde. Almeno dal Parlamento. Non un rappresentante al Senato, non uno alla Camera. O almeno così pareva ormai certo mentre calava la notte più straziante, tormentata e insonne che la «gauche» italiana abbia mai vissuto.
Una notte resa ancora più cupa, agli occhi dei protagonisti attoniti del mondo arcobaleno, dal trionfo di Silvio Berlusconi, dal dilagare della Lega e da quella rivendicazione del segretario del Carroccio Umberto Bossi che non ammetteva repliche: «La Lega l’hanno votata i lavoratori». Pausa. Rilancio: «I lavoratori non votano più la sinistra: è la Lega il partito nuovo dei lavoratori».
Hai voglia, adesso, ad alzare il sopracciglio ridacchiando. A fare spallucce. A buttarla sul ridere. Perché i dati che emergono questo dicono. Basta prendere la provincia di Vicenza. Provincia industriale. Metalmeccanica. Manifatturiera. Provincia bianca. Per decenni democristiana. Mariana e bisagliana, cioè fedele a Mariano Rumor e Toni Bisaglia. Obbediente a Monsignor Carlo Zinato, il vescovo che Camilla Cederna chiamava «La Wandissima» per come voleva essere sempre al centro di tutto. Bene: anche a quei tempi la sinistra aveva sempre tenuto in alcune roccaforti.
L’Arcobaleno non si staglia sui cieli di Taranto, come del resto in tutto il Paese. «Qui la situazione è oltremodo anomala - spiega Stefàno - e le ragioni sono arcinote. I raffronti sono inutili con le amministrative. La bassissima affluenza è un sintomo chiaro di come la disaffezione verso la politica abbia vinto su ogni cosa. La città vive una stagione particolare - prosegue il sindaco - la gente si è allontanata.
Ma c’è una netta differenza col voto dell’anno scorso». E arriva Natale («con i tuoi»). Le amministrative sono e saranno sempre altra cosa, sostiene il primo cittadino che per due mesi ha «indossato la casacca» arcobaleno. «Niente personalizzazione, nessun candidato tarantino, partito non adeguatamente rappresentato: risultato, puniti inesorabilmente». Senza dimenticare il simbolo, la falce e il martello riposti nel cassetto. «Sinistra Arcobaleno paga l’assenza della bandiera - conferma Stefàno - il simbolo nuovo non è stato metabolizzato, senza dimenticare il... voto utile».
Uno slogan evidentemente penetrante, tanto da sventrare la parte storica dell’elettorato comunista che ha mirato contro Berlusconi prima ancora di appoggiare Bertinotti. «Infatti - conferma Stefàno - l’appello al voto utile e l’assenza del simbolo sono stati determinanti. Casini resiste, anzi va bene, proprio perchè lo scudo crociato ha funzionato e la proposta neocentrista ha colpito al cuore di quella parte del Paese che non dimentica la Dc».
Ripercussioni? Nemmeno a parlarne. Stefàno non considera l’ipotesi. Il suo Comune appare blindato. Il cartello elettorale, civico-politico, non subirà scossoni. Nè a breve nè a medio termine. «Non cambia nulla. L’anno scorso la città ha scelto me e il progetto di rilancio proposto perchè avvertiva la necessità di traghettare l’ente verso un mare tranquillo.
E siamo ancora in piena navigazione lungo la rotta di sempre: portare i tarantini fuori dal dissesto. E nel giro di tre anni torneremo ad una condizione normale che, certamente, annullerà le contestuali anomalie. L’Amministrazione non muta pelle. E dico agli amici del Pd che non c’è bisogno del loro ingresso: abbiamo già una maggioranza forte e compatta».
Ma il sindaco si è esposto in prima persona. Prenderne atto appare di rigore. «Ho indossato la famosa casacca, è vero, ma non mi sento coinvolto dalla bocciatura che Sinistra Arcobaleno oggettivamente ha subìto. Chi mi ha sostenuto l’anno scorso ha palesemente premiato il Pd pur di battere Berlusconi. In tanti da sinistra hanno votato il Pd con convinzione, ritenendo utile aggiungersi al partito più grande, potenzialmente in grado di sconfiggere il centrodestra». Sinistra fuori dal Parlamento, però. «Spero che gli ideali storici e i principi di solidarietà vengano comunque rappresentati a dovere».
Angelo Di Leo
Corriere del Giorno
Certo, Bertinotti e Pecoraro e Diliberto, potrebbero cercare qua e là per l’Italia qualche motivo di incoraggiamento. Del resto la storia ci ha consegnato esempi formidabili di sconfitte disastrose spacciate per flessioni. Immortale, ad esempio, resta il caso del democristiano Vito Napoli che, sotto le macerie fumanti del crollo della Democrazia Cristiana nelle disastrose «comunali» del 1993 disse: «Abbiamo perso Roma, Milano, Napoli, Venezia, Palermo... Ma ci sono anche segnali incoraggianti. Penso ai successi di Gerace, Pizzo Calabro, Praia a mare...».
Né si può dimenticare il buttiglioniano Maurizio Ronconi dopo una batosta generalizzata al Cdu: «Gli elettori riconsegnano Valfabbrica al Polo, nonostante la presenza di una lista di disturbo. E con Valfabbrica sono nostre anche Parrano e Attigliano... ». Mai, però, si era vista sparire così di colpo, come fosse stata inghiottita da un abisso, un’intera area. Basti dire che soltanto due anni fa Rifondazione Comunista aveva preso il 5,8 per cento, i Comunisti Italiani il 2,3, i Verdi il due abbondante. Per un totale del 10,2 per cento. Per non dire delle elezioni europee del 2004, quando insieme arrivarono a passare l’undici. Di più: non c’era discorso, dibattito, confronto in cui l’uno o l’altro, nella scia delle grandi adunate di piazza antiberlusconiane, non rivendicassero i sondaggi che li davano, tutti insieme, intorno al tredici per cento.
Solo una manciata di mesi fa, nella fase più dura di tensioni sulla Finanziaria dentro quella che allora era la maggioranza, Fabio Mussi minacciava: «Siamo una forza imponente, quindi se non si prestasse orecchio alle nostre proposte si farebbe un errore grave, molto grave». «L’8,7% ottenuto dalla sinistra unita in Germania sarebbe per voi una vittoria o una sconfitta?», chiesero qualche settimana fa al sub-comandante Fausto. E lui: «Siamo uomini di grande ambizione, mai porre limiti alla provvidenza rossa».
Erano cinque, i partiti, partitini e micro-partitini, che si presentavano alle elezioni sventolando ancora (nonostante lo stesso Bertinotti avesse spiegato che dentro l'alleanza il comunismo sarebbe stato «una corrente culturale») la bandiera con la falce e il martello. E non uno è stato preso sul serio dagli elettori. E il risultato è una svolta inimmaginabile. Per la prima volta nella storia, dopo la fine della dittatura fascista, il Parlamento italiano non avrà tra i suoi banchi, dove anche la nascita della Costituzione venne salutata da un gruppo di camicie rosse, un solo «rosso». «E' una sconfitta netta dalle proporzioni nette e questo la rende più acuta», ha spiegato l’anziano leader annunciando che il suo ruolo «termina qui».
Neanche il tempo che le prospettive più fosche si concretizzassero e già a sinistra si aprivano come scontato le liti, gli sberleffi, gli insulti, i conati di veleno, i processi ai colpevoli. Certo, niente a che vedere con le purghe di un tempo, quando Antonio Roasio schedava i compagni rifugiatisi in Russia per scoprire se meritavano di farsi un giretto nel carcere Taganka o con la «kista », l'autocritica dei propri errori che veniva chiesta alla scuola quadri delle Frattocchie per fortificare lo spirito comunista. Ma il processo sarà lungo, tormentato, duro.
Perché ha perso dappertutto, questa sinistra rancorosa e sognatrice, pacifista e bellicosa che in questi anni ha detto no alla Tav e no all’eolico, no alle missioni di pace e no alla riforma delle pensioni e no a tutto o quasi tutto. E si ritrova sgominata a Taranto (dove soltanto un anno fa aveva incredibilmente vinto le «comunali» dopo un crollo del 46% delle destre ieri risorte) e in tutta la Puglia che le aveva regalato il trionfo di Vendola, in Sicilia dove candidava Rita Borsellino, in Campania dove è finita sotto le macerie del bassolinismo a dispetto delle battaglie contro gli inceneritori e in Piemonte a dispetto dell'opposizione all'Alta Velocità in Val di Susa. E sullo sfondo, mentre loro malinconicamente ripiegano le bandiere, sorride il Cavaliere trionfante e sorride Gianfranco Fini e sorride soprattutto lui, Umberto Bossi. Tra operai in festa ai quali la sinistra non riesce più a parlare.
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